Molti hanno a quel punto segnalato che il “blocco” era arrivato subito dopo aver postato o rilanciato notizie provenienti dalla Palestina. Specie dopo le proteste innescate dalla decisione di Trump di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme, riconoscendo di fatto questa come capitale dello Stato ebraico (uno Stato confessionale, dunque, come l’Arabia Saudita o l’Iran), su cui i palestinesi non dovrebbero più avere pretese.
Poi questa inchiesta di Glenn Greenwald è arrivata a confermare quanto avevamo cominciato a sospettare.
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Già a settembre 2016 avevamo evidenziato che alcuni rappresentanti della piattaforma Facebook stavano incontrando alcuni delegati del governo Israeliano, per stabilire la cancellazione di un numero di account palestinesi accusati di “sobillazione”. I meeting erano stati richiesti e presieduti dal ministro per la giustizia Ayelet Shaked, (membro della Knesset per il partito di estrema destra sionista The Jewish Home ndr) uno dei politici Israeliani fra i più estremisti ed autoritari, sostenitrice dell’occupazione israeliana e a favore della crescita delle colonie nella zona dei Territori Occupati; in linea con l’arroganza che lo contraddistingue, e con la quale si muove negli ultimi anni, il Governo di Israele, minacciò all’epoca la piattaforma di social media: se avesse volontariamente mancato di rispettare l’ordine di rimozione degli account, non rispettando le leggi che regolamentano Facebook ed altre piattaforme digitali, quest’ultima sarebbe stata severamente multata o avrebbe perfino rischiato di essere sospesa nel Paese.
Gli effetti prevedibili di questi incontri, ora sono chiari e anche ben documentati; da quel momento, su Facebook si è scatenata la furia censoria nei confronti di tutti quegli attivisti palestinesi che protestano contro l’illegale e pluridecennale occupazione dei loro territori, diretta e determinata dalla politica israeliana. Per dirla tutta, i politici israeliani si sono anche vantati pubblicamente dell’obbedienza dimostrata da Facebook, dopo aver ricevuto le richieste di censura. Questa la dichiarazione ai media:
Il Ministro della Giustizia Israeliano Ayelet Shaked, all’inizio del mese scorso, subito dopo la diffusione della notizia dell’accordo fra il governo israeliano e Facebook, ha dichiarato che nei quattro mesi precedenti, Tel Aviv aveva già sottoposto 158 richieste di sospensione al gigante dei social media, chiedendo esplicitamente di rimuovere il contenuto dei post che riteneva essere potenzialmente “sobillatorio”, che poteva incitare alla ribellione. Il Ministro afferma che Facebook ha garantito che sarebbero state evase il 95% delle richieste: e così è stato.
E’ tutto vero. La sottomissione ai dettami di Israele sembra essere veramente invalicabile, troppo difficile da superare. Come ha avuto modo di scrivere il New York Times lo scorso anno, “Le agenzie di sicurezza israeliane monitorano Facebook e trasmettono al Governo i post che loro considerano di incitamento alla ribellione pubblicati dalla piattaforma di social media. La compagnia ha reagito semplicemente rimuovendo la maggior parte di quei post.”
Ciò che rende questo tipo di censura particolarmente significativo è che “il 96% dei palestinesi dichiara che l’uso che loro fanno di Facebook è esclusivamente per tenersi ben informati.” Così facendo Israele ha accesso e riesce a controllare un forum-chiave per la comunicazione dei palestinesi.
The Independent nelle settimane seguenti gli incontri Facebook/governo di Israele, riportava che “il Palestinian Information Center” (Organizzazione di informazione indipendente palestinese dal 1997 ndr) riferiva che almeno 10 dei loro account relativi ad altrettanti amministratori di pagine Facebook in lingua araba o inglese – seguite da più di 2 milioni di persone – erano stati sospesi, sette dei quali in modo permanente, ed affermano che questo è il risultato delle nuove misure messe in atto sulla scia di quello che è scaturito proprio dagli incontri Israele/Facebook.” A marzo scorso la piattaforma di social media ha chiuso, anche se per breve tempo, la pagina di Fatah (partito politico palestinese ndr) seguita da milioni di utenti, “a causa di un post in cui, in una vecchia foto, era ritratto l’ex leader Yasser Arafat che imbracciava un fucile.”
Un report del 2016 del Centro Palestinese per lo sviluppo e la libertà di comunicazione ha esaminato nel dettaglio quanto sia estesa la censura su Facebook:
Pagine ed account personali che sono stati filtrati o bloccati: Palestinian Dialogue Network (PALDF.net), Gaza now, Jerusalem News Network, Shihab agency, Radio Bethlehem 2000, Orient Radio Network, la pagina Mesh Heck, Ramallah News, la pagina del giornalista Huzaifa Jamous della testata Abu Dis, quella degli attivisti Qassam Bedier e Mohammed Ghannam, del giornalista Kamel Jbeil, nonché quella degli amministratori della pagina Al Quds. Si sono visti bloccare l’ account Abdel-Qader al-Titi, un leader molto attivo, e il giovane attivista Hussein Shajaeih; sono stati riattivati gli accounts di Ramah Mubarak, Ahmed Abdel Aal mentre risultano ancora bloccati quelli di Mohammad Za’anin, Amer Abu Arafa e Abdulrahman al-Kahlout.Ovviamente, gli israeliani hanno carta bianca nel postare qualsiasi cosa vogliano sui palestinesi. Appelli di israeliani che plaudono all’omicidio di palestinesi inermi sono all’ordine del giorno su Facebook, e rimangono perlopiù indisturbati.
Secondo quello che lo scorso anno ha riportato Al Jazeera “un post provocatorio in lingua ebraica... attrae molto meno l‘attenzione delle autorità governative israeliane o di Facebook stesso.” Uno studio ha provato che ben “122.000 utenti hanno usato esplicitamente parole con accezione violenta come ‘omicidio’, ‘uccidere’, o ‘bruciare’, e gli arabi erano i destinatari n°1 di commenti carichi di odio.” Nonostante ciò Facebook non sembra aver fatto alcuno sforzo per censurare commenti di questo tipo.
Sebbene alcuni dei commenti più provocatori o espliciti che richiamino all’omicidio vengano talvolta rimossi, Facebook permette che prosperino sempre di più commenti estremistici che incitano all’odio verso i palestinesi. Proprio il leader israeliano, Benjamin Netanyahu ha spesso usato i social media per postare ciò che altro non è, se non un chiaro incitamento alla violenza contro il popolo palestinese in generale. Invece della rimozione attiva dei post contro i palestinesi, assistiamo ad un proliferare di commenti di questo tipo, violenti o di incitazione all’omicidio e all’odio, ed è impensabile confidare che Facebook possa mai usare il suo potere censorio contro personaggi di spicco, o influenti, del calibro di Netanyahu o altri ancora. In realtà, come l’emittente araba Al Jazeera ha dichiarato senza troppi giri di parole, “evidentemente Facebook, non ha mai incontrato alcun leader palestinese con il quale discutere questi argomenti.”
E ora Facebook sembra ammettere esplicitamente che vorrebbe eseguire anche le richieste di censura da parte del governo USA. Nei primi giorni della settimana scorsa, la compagnia ha cancellato gli account Instagram e Facebook di Ramzan Kadyrov, il violento ed autoritario leader ceceno il quale, complessivamente, aveva collezionato ben 4 milioni di follower. Per dirla in modo blando Kadyrov – a cui è stata data carta bianca per controllare l’area in cambio di una cieca lealtà al governo moscovita – è proprio l’ opposto di una figura simpatica: è stato accusato, sembra con ragionevolezza, di un gran numero di orribili violazioni dei diritti umani, dalla tortura alla detenzione abusiva di persone appartenenti a gruppi LGBT, fino al rapimento di dissidenti ed alla loro uccisione.
Tutto ciò, è comunque nulla a paragone della motivazione, inquietante, ma soprattutto imprudente, che la piattaforma social ha addotto per giustificare la chiusura dei suoi accounts: un portavoce, in rappresentanza della piattaforma di Zuckerberg, ha dichiarato al NYT che la compagnia aveva cancellato gli account, non perché Kadyrov è un tiranno ed un omicida plurimo, ma che “gli accounts di Mr. Kadyrov erano stati disattivati perché il suo nome era stato aggiunto ad una lista ‘nera’ di personaggi da sanzionare redatta dagli USA, e che quindi la compagnia era obbligata ad agire in quel modo, per legge.”
Come nota il Times, questa motivazione appare molto sospetta o, almeno, applicata un poco incoerentemente: altri personaggi, ad esempio il Presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, che è sulla stessa lista, è tuttora attivo, sia su Fb che su Instagram. Fermiamoci però, solo per un attimo, a considerare le implicazioni, incredibilmente sinistre, delle richieste fatte a Fb.
Quello che si vuol fare percepire è ovvio: il governo USA – il che vuol dire, al momento l’ amministrazione Trump – ha il potere, unilaterale ed allo stesso tempo senza controllo alcuno, di imporre la rimozione di chiunque da Fb e da Instagram, includendo semplicemente queste persone in una lista sanzionatoria. C’è veramente qualcuno che crede che questa sia una conclusione accettabile? Chi darebbe credito all’amministrazione Trump – o ad una qualsiasi altra amministrazione o governo – se costringesse le piattaforme dei social media a cancellare e bloccare qualsiasi persona che quest’ultima vorrebbe ridurre al silenzio? Come ha già avuto modo di dichiarare al Times Jennifer Granick, responsabile per la cyber-sicurezza e la sorveglianza della o.n.g. ACLU (American Civil Liberties Union):
“Non esiste ancora una legge scritta e specifica, né sembra essere neanche appena accennato un provvedimento che affronti situazioni speciali, nelle quali sia legittimo o idoneo reprimere la libertà di parola... questa legge sulle sanzioni è stata usata altre volte per sopprimere la libertà di parola, e con troppo poca considerazione dei valori della libera espressione e dei rischi particolari legati alla sua soppressione; al contrario di come è stata invece usata troppo raramente per bloccare giri di affari (illeciti diremmo noi) o fondi (sempre illeciti), ragioni principali per le quali era stata concepita in origine.La politica di Facebook, bloccare le persone sanzionate dalla sua piattaforma, è, infine, applicata a tutti i governi, indiscutibilmente? Ovviamente, no. Va da solo che, se, diciamo, l’Iran decidesse di imporre delle sanzioni nei confronti di Chuck Schumer (senatore del Partito Democratico per lo stato di New York ndr) per il suo supporto alla politica di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale dello stato di Israele, Facebook, non cancellerebbe mai gli accounts del leader di minoranza del Partito Democratico al Senato – come non lo farebbe per gli accounts dei funzionari israeliani che incitano alla violenza contro i palestinesi o che sono sanzionati dai funzionari palestinesi. Proprio il mese scorso la Russia ha annunciato sanzioni per rappresaglia nei confronti di vari funzionari e membri dell’esecutivo del governo canadese, ma non c’è neanche bisogno di dirlo, Facebook, non ha fatto un passo per censurarli o anche solo per bloccarne i loro account.
Questo è il vero problema.”
Allo stesso modo, Facebook, oserebbe mai censurare politici o giornalisti americani che usano i social media per istigare alla violenza contro i nemici dell’America? Come si dice... Fatevi una domanda e datevi una risposta.
Come sempre, e questo è vero anche per la censura, c’è uno, ed un solo principio che accompagna tutto questo: il potere. Facebook si sottometterà ed obbedirà alle richieste di censura dei governi e dei funzionari, che in realtà esercitano potere su di esso, ed ignorerà quelli che non lo fanno. Ecco perché nemici dichiarati dei governi USA e di Israele sono vulnerabili alle misure di censura da parte di Facebook, mentre funzionari USA ed Israeliani non lo sono.
Tutto ciò dimostra che esistono gravi pericoli dietro l’uso della censura da parte dello Stato, ma che comunque, le richieste che vengono fatte ai giganti della Silicon Valley vengono eseguite alla lettera, e viene sempre più spesso richiesto di censurare le cosiddette “cattive opinioni”.
Richieste di censura statale sono spesso dettate da buone intenzioni – ad esempio dal desiderio di proteggere gruppi marginalizzati, dai pericoli insiti nei “discorsi d’incitamento all’odio” fatti nei social – ma presumibilmente vengono con più facilità utilizzati contro questi gruppi ai margini della società; si finisce quindi per censurarli piuttosto che proteggerli. Basta soltanto riflettere su come vengono usate le leggi contro l’incitamento all’odio in Europa, o nei campus universitari americani, per accorgersi che le vittime della censura sono molto spesso oppositori delle guerre in Europa, o attivisti contro l’occupazione israeliana, fino a colpire addirittura i sostenitori o i rappresentanti stessi per i diritti delle minoranze.
Se lo si desidera, possiamo anche crearci un mondo fantastico in cui i dirigenti della Silicon Valley utilizzano il loro potere per proteggere gli emarginati nel mondo, preferendo censurare coloro che li vorrebbero minacciare; ma nel mondo reale, questo non è altro che un sogno irraggiungibile, è solo mero fantasticare. Proprio come vogliono i Governi del pianeta, queste compagnie useranno il loro potere censorio servilmente, per operare nel bene dei potenti, non per danneggiare i gruppi, o le fazioni più potenti al mondo.
Proprio come ci si può rallegrare per un atto censorio nei confronti di qualcuno che non ci piace, senza soffermarsi a riflettere sulle conseguenze a lungo termine del principio che ha portato a questa scelta, che l’ha ratificata, così si può esultare per la sparizione di un mostro ceceno da Facebook od Instagram. Ma il social media ti sta dicendo esplicitamente che, la ragione per le proprie azioni risiede nel fatto che sta obbedendo ai provvedimenti legislativi americani riguardo chi deve essere evitato, cancellato, e chi no.
E’ duro accettare che la visione ideale di Internet che ha ciascuno di noi, ha in sé l’attribuzione del potere nelle mani di un governo USA, o di uno israeliano, o di altri poteri mondiali, idonea a decidere chi ha il diritto di essere ascoltato o chi si merita di essere soppresso.
Purtroppo sempre più spesso, quando ci appelliamo alle compagnie di Internet per chiedere la nostra tutela, questo è esattamente quello che succede.
* The Intercept.com 30 Dicembre, 2017
(traduzione di Francesco Spataro)
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