Breve premessa: in una campagna elettorale le liste in gara dovrebbero cercare di ottenere consenso presentando i loro “programmi”, ossia quel che intendono fare per risolvere i problemi della popolazione dopo che avranno vinto.
Alzi la mano chi ha sentito una sola parola in merito (non valgono naturalmente le stronzate tipo “creeremo 1 milioni di posti di lavoro”, “cacceremo 600.000 immigrati”, “sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno”, ecc).
Tutti i concorrenti sanno che, qualsiasi cosa dicano ora, dovranno fare quel che impongono i trattati europei, con una manovra correttiva molto dura da approvare a maggio e una “legge di stabilità 2019” che dovrà incorporare il Fiscal Compsct (un trattato che obbliga a ridurre del 5% annuo il debito pubblico, tagliando 50 miliardi l’anno di spesa pubblica). Fa eccezione solo Potere al Popolo che ha messo la “rottura con l’Unione Europea dei trattati” in cima al proprio programma (punto 2, non a caso subito dopo la “difesa e attuazione della Costituzione”, che confligge frontalmente con tutti i trattati europei).
Gli spazi per agire sono ridotti al minimo, le risorse per nutrire clientele anche, le garanzie per i “pacchetti di voti” in vendita idem. Inutile anche farsi una campagna elettorale individuale, perché tanto sono tutti “nominati” (dall’alto o dal basso fa differenza, naturalmente, e molta!).
Dunque meglio parlare d’altro. E darci sotto soprattutto con la “pubblicità negativa”, enfatizzando le pecche degli avversari. Gioco facile, bisogna dire, perché – come si dice a Roma – il più pulito c’ha la rogna. E in ogni caso mettere insieme quasi 1.500 candidati senza qualche svarione è praticamente impossibile.
I media ci intrattengono da giorni con la storia dei due (o più?) parlamentari grillini che facevano finta di consegnare parte del proprio stipendio al fondo costituito per “aiutare le imprese” (come se i governi in carica avessero regalato loro pochi soldi, da decenni a questa parte). Oppure col candidato massone che si rifiuta di farsi da parte, nel caso fosse eletto. Caso interessante, quest’ultimo, per almeno due ragioni. a) La follia di una legge elettorale che obbliga a dare il voto a una lista, senza preferenze, “blindando” con una sola crocetta il breve listino del proporzionale uninominale (massimo 4 candidati) e il collegio uninominale; b) Le carenze del sistema grillino – selezionare le autocandidature tra gli iscritti, arrivate per via telematica – che presupporrebbe uno schedario da ministero dell’interno su tutti i cittadini ammessi all’elettorato passivo (ovvero esclusi solo i condannati, per qualsiasi reato, su cui penda l’interdizione specifica; come Berlusconi, insomma).
Fa però sorridere che a sollevare scandalo – “il massone!, il massone!” – siano le liste imbottite di incappucciati, fin dai “capi politici” (il Caimano era addirittura nelle liste della P2 e l’inner circle renziano, ebbe a scrivere Ferruccio De Bortoli quando ancora era direttore del Corriere della Sera, emana un inconfondibile “tanfo di massoneria”).
A dare una robusta mano sono ovviamente i media, rigidamente inquadrati come falangi armate contro gli avversari del padrone. E quindi la Rai attacca i grillini (salvaguardando Forza Italia e Lega), la galassia Mediaset attacca i grillini (salvaguardando Renzi e i suoi, in vista del “governo di salvezza nazionale”), il gruppo Repubblica-L’Espresso fa come la Rai (dando qualche bastonata in più al Cavaliere e qualche carezza a LeU), e i quotidiani di destra esattamente come Mediaset. Dirazza un po’ La7, che dà qualche raro spazio persino a Potere al Popolo (sempre molto meno che a Casapound, comunque), mentre affida a Lilli Gruber il compito di fare il cerbero del Bilderberg Group e dei “mercati”.
Il povero elettore rischia di non capire più nulla. Non solo “per chi” votare, ma addirittura “perché” votare.
Gli ingenui e i manipolatori professionali guardano ai sondaggi, che si portano dietro una ingiustificata aura di “oggettività previsionale”. Quasi tutti danno cifre simili per quanto riguarda i concorrenti principali, giusto con qualche variazione favorevole alla lista più vicina al padrone dell’istituto (ebbene sì, anche i sondaggisti hanno un padrone, che li usa come arma di competizione politica; quasi come le agenzie di rating...). Quando si arriva alle liste minori, però, i numeri si fanno davvero arbitrari.
Potere a Popolo, per esempio, viene finalmente inserita nei questionari ma i “risultati” variano dallo 0,8 al 2,4%; in pratica dallo sconforto all’euforia. Va bene che la “forchetta di oscillazione”, normalmente, viene stimata tra l’1 e il 3%, ma sembra evidente che a questa lista viene attribuito un numero a caso.
Del resto, come vengono effettuati i sondaggi? Per ridurre i costi, con chiamate telefoniche a campione sui numeri fissi. Ma chi è che risponde, ormai, su queste utenze? Anziani, ragazzini, gente che vive molto in casa. Il “campione” è insomma parecchio zoppicante, come rappresentatività della popolazione.
Quanto sono attendibili, allora? Beh, basta guardare le consultazioni più recenti. Al referendum costituzionale renziano, per esempio, i sondaggi davano per certa una netta vittoria del “sì” (finì 60 a 40 per il NO). Idem è accaduto per le elezioni statunitensi (vittoria “certa” di Hillary Clinton), per il referendum greco (60 a 40 per l’OXI, spiazzando nettamente lo stesso Tsipras e obbligandolo a mostrare la faccia del traditore del suo popolo), per le seconde elezioni catalane (vittoria “certa” per i sovranisti spagnoli).
Insomma: non ci pigliano più.
Questo non significa che ci possiamo sentire “la soglia di sbarramento in tasca”, anzi... L’oscuramento mediatico che Pap subisce sta impedendo che la lista sia conosciuta anche là dove fisicamente non riesce a farsi vedere. Ogni volta che si “arriva” – volantinaggi, presidi, ecc – è facile farsi riconoscere e capire, ma la quota di società che rimane “scoperta” è ancora tanta. Bisogna pedalare, insomma, senza guardare ai sondaggi (che oltretutto diventano “segreti” da venerdì), ma negli occhi delle persone...
La partita vera, lo sappiamo bene, comincia il 5 marzo.
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