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13/02/2018

Viaggio nel mondo del lavoro italiano: il mito della ripresa economica

Sebbene si continui a vendere mediaticamente la favola della ripresa economica, le condizioni materiali e oggettive che riguardano il mondo del lavoro sono sempre più drammatiche e sempre meno confortanti. Se è vero che la crescita del PIL sia su base trimestrale che rispetto all’anno precedente è tornata positiva, il ritmo è ancora decisamente flebile e decisamente modesto. Dopo dieci anni di crisi economica, aggravata da quella politica e sociale, l’Italia sta beneficiando (seppur in misura modesta) di una congiuntura economica internazionale favorevole. Pertanto, alla fine qualche briciola riesce ad arrivare anche ad un sistema economico e produttivo che sta scivolando sempre più in basso all’interno della divisione internazionale del lavoro, verso quei settori a basso contenuto tecnologico e ad alta intensità di forza lavoro, dove lo sfruttamento e la precarietà del lavoro salariato risultano essere più marcati.

Di conseguenza, anche se qualcosa alla fine “sgocciola” verso l’Italia, di certo non è dovuto alle recenti riforme del mercato del lavoro, ovvero quella serie di interventi raccolti nel Jobs Act che riguardano principalmente l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e l’introduzione del contratto a tutele crescenti.

Fermandosi al dato statistico relativo all’andamento congiunturale della crescita del PIL si cerca di mantenere nascosti sotto il tappetto i disastrosi effetti del Jobs Act nel mondo del lavoro, in termini di diritti dei lavoratori e di qualità del lavoro. Non è “una tendenza incoraggiante” frutto dei “buoni risultati di Jobs act e ripresa”, ma semmai la drammaticità di una precarietà che si consolida come condizione sempre più diffusa e generale.

Una fotografia di queste condizioni è data dal rapporto Il mercato del lavoro: verso una lettura integrata 2017, sviluppato tra Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Istat, Inps, Inail e Anpal. La ripresa è affidata al segno più sulla crescita del Pil, che indica per l’Italia una variazione tendenziale positiva nel terzo trimestre 2017 dell’1,7%, ma molto minore della media Ue (+2,5%). Una ripresa che stando alle prime pagine del rapporto avrebbe accelerato e trainato il mercato del lavoro, tanto da aver permesso di recuperare “in buona parte, i livelli occupazionali della situazione pre-crisi”. Ma intanto rimane l’alto tasso di disoccupazione (11,2%), che pure se in calo risulta ancora ampiamente al di sopra di quanto si registrava prima della crisi e ben lontana dalla media dei Paesi dell’Unione Europea. A questo si aggiunge la crescente incidenza dei disoccupati di lunga durata.

Il tasso di disoccupazione a dicembre scende al 10,8% (-0,1 punti percentuali rispetto a novembre). Si tratta del livello più basso da agosto 2012. I disoccupati risultano 2 milioni 791 mila. A novembre 2017 gli occupati in Italia erano 23.183.000 con un aumento di 65.000 unità su ottobre e di 345.000 su novembre 2016. Secondo l’Istat si tratta del livello più alto dall’inizio delle serie storiche (1977).

Il tasso di occupazione 15-64 anni è salito al 58,4% con un aumento di 0,2 punti percentuali su ottobre e di 0,9 punti su novembre 2016.

Il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni a dicembre scende al 32,2% (-0,2 punti su novembre). Si tratta del livello più basso da gennaio 2012. Su base annua si conferma, invece, l’aumento degli occupati (+0,8%) pari a +173 mila. Ma la crescita annua si concentra tra i lavoratori a termine (+303 mila) mentre calano gli indipendenti (-105 mila) e in misura minore i permanenti (-25 mila).

Nonostante il numero degli occupati sia tornato ai livelli pre-crisi, al dato meramente quantitativo sull’occupazione è necessario affiancare un’analisi di tipo qualitativa, che si concentri principalmente sulle caratteristiche specifiche delle recenti assunzioni. Infatti dal 2008 ad oggi, si è assisto ad un incremento significativo delle forme contrattuali relative al tempo determinato, da quelle più “classiche” del lavoro interinale fino ai più recenti lavori a chiamata (job on call). Prima esistevano il contratto a tempo indeterminato e il lavoro in nero. Oggi invece troviamo, tutti perfettamente legali e fantasiosamente ribattezzati per disorientare i lavoratori: tempo determinato, somministrazione, a chiamata, apprendistato, part time, interinale, job on call, stage, ecc. Una lunga lista di forme di impiego che permettono di sfruttare i lavoratori e di retribuirli per poche centinaia di euro al mese.

Si delinea una condizione estrema di precarietà lavorativa che oggi investe il mercato del lavoro nel suo complesso. Infatti il lavoro sta diventando sempre più discontinuo per una platea di lavoratori sempre più estesa. I contratti a termine nel secondo trimestre di quest’anno hanno subito un incremento di quasi il 5%, quasi 6 milioni di attivazioni. Nel frattempo a rallentare è stata l’attivazione dei contratti a tempo indeterminato che nel terzo trimestre del 2017 mostra un saldo negativo (-10 mila). Intanto, nel secondo trimestre 2017 la durata effettiva dei contratti a termine non supera i 30 giorni nel 38% dei casi; oltre 340.000 contratti hanno avuto durata di un solo giorno.

Anche il neo-introdotto contratto a tutele crescenti (le cui tutele rimangono soltanto nel nome) non è riuscito ad invertire la tendenza del lavoro precariato. Anzi, è stato uno dei fattori che ha contribuito in misura sostanziale al peggioramento delle condizioni di lavoro e all’azzeramento delle tutele dei lavoratori. Infatti, esso si rivelato uno strumento perverso, poiché l’adozione di questo nuovo tipo di contratto è stata incentivata dallo sgravio fiscale contributivo per il datore di lavoro. Questo meccanismo si è tradotto in un aumento dell’occupazione “drogato” dagli incentivi, poi lentamente rallentato con la riduzione degli sgravi e con la loro definitiva cessazione.

Quello che rimane è il precariato diffuso e generalizzato, che sta diventando sempre più la forma contrattuale tipica, normale e quotidiana del rapporto di lavoro. Specialmente per quello che riguarda il mercato del lavoro giovanile, dove per lungo tempo si è sostenuto che la flessibilità in entrata ed esperienze a tempo determinato rappresentassero le Forche Caudine verso contratti stabili, il lavoro precario sta diventando uno stato permanente, privo di qualsiasi prospettiva e garanzia di un futuro certo.

Le recenti statistiche relative alla crescita del PIL e del numero degli occupati non sembrano rispecchiare le condizioni di vita materiali di una parte sempre più grande della popolazione: ai risultati modestamente positivi degli indicatori statistici fa da contraltare una situazione che sul piano economico sociale sta nettamente e costantemente peggiorando. Questo aggravamento è testimoniato da due tendenze che coesistono e si alimentano reciprocamente: la riduzione della retribuzione media per occupato e l’aumento del numero di ore lavorate. A fronte di un aumento del 3,1% del monte ore lavorate nelle imprese, nel frattempo, le imprese si sono viste ridurre il costo del lavoro (-0,1%) anche a scapito delle retribuzioni che diminuiscono dello 0,3%. La stagnazione delle retribuzioni è da attribuirsi al progressivo indebolimento della posizione contrattuale dei lavoratori durante la crisi, durante la quale la contrattazione è stata spesso al ribasso. Va inoltre considerata la diminuzione del salario indiretto e differito, ossia quello legato al welfare state, colpito duramente dalle politiche di austerità implementate dai vari governi sotto l’egida dell’Unione Europea.

Dicevamo della condizione giovanile. Il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni a novembre 2017 scende al 32,7%, in calo di 1,3 punti rispetto a ottobre. Lo rileva l’Istat spiegando che rispetto a novembre 2016 si registra un calo di 7,2 punti percentuali. È il tasso più basso da gennaio 2012. Il tasso di occupazione in questa fascia di età è al 17,7% con un aumento di 0,5 punti rispetto a ottobre e di 1,4 punti rispetto a novembre 2016. Tutto bene quindi? Insomma. Nonostante la discesa, la disoccupazione giovanile resta comunque la terza più alta d’Europa dopo Grecia (39,5% a settembre) e Spagna (37,9%). La più bassa si registra invece in Repubblica Ceca (5%) e Germania (6,6%). I dati sull’occupazione inoltre non tengono conto del deflusso costante verso l’estero di una quota crescente di giovani, né ancora una volta permettono di apprezzare la dimensione qualitativa.

Le assunzioni dei giovani sono in crescita ma con contratti a termine e retribuzioni più basse, sia rispetto agli altri blocchi anagrafici che alla media Europea. Crescono le assunzioni, cala la stabilità: il triennio 2015-2017 rispecchia l’andamento complessivo del mercato del lavoro con un calo delle assunzioni a tempo indeterminato che si contrappone a una crescita di quelle a tempo determinato. Il risultato è che si è passati dalle 397.878 nuove assunzioni a tempo indeterminato per i giovani di 15-29 anni nel periodo gennaio-ottobre 2015 alle 235.600 dello stesso periodo nel 2017, con un saldo negativo di 144.278 assunzioni permanenti in meno, nonostante il viatico del contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs Act. Viceversa, i contratti a termine per i giovani under 29 sono cresciuti nello stesso periodo da circa 1,01 milioni del 2015 a 1,5 milioni nel 2017. Dato più specifico per i giovani nella fascia 25-29, che hanno visto aumentare le assunzioni a termine da 501.386 a 690.718 (+189,332) e calare quelle a tempo indeterminato da 222.727 a 132.288 (-90.439).

Nonostante il lieve miglioramento dell’occupazione complessiva degli ultimi anni, la forza-lavoro più fragile come i giovani poco qualificati e i cosiddetti NEET (coloro che non lavorano né studiano) restano indietro. Nel 2015 facevano parte dei NEET, il 17% della popolazione. Erano il 15% prima della crisi. Sempre in Europa, quasi il 40% dei NEET non ha completato il ciclo della scuola secondaria superiore e così la loro probabilità di trovare lavoro è addirittura inferiore (33%) a quella degli altri NEET (45%). In Italia, se prima della crisi i NEET erano circa il 16,5 per cento, quindi di poco superiori alla media europea, sono balzati a oltre il 27 per cento nel 2015. A nulla è servita la tanto sventolata Garanzia Giovani, azione coordinata a livello europeo per aumentare l’occupazione giovanile e contrastare proprio il fenomeno dei NEET. Benché sbandierata ai quattro venti, garanzia giovani non ha fatto altro che aumentare la precarietà, tant’è che i NEET sono addirittura aumentati rispetto a quando è partita. Come riportano i dati analizzati in un articolo del “Fatto”, meno della meta’ di coloro che si registrano per essere presi in carico dal programma riceve effettivamente un’offerta di “politica attiva”. Non basta. Di queste offerte, il 70 per cento sono tirocini retribuiti al massimo 500 euro mese. Tirocini che in realtà spesso e volentieri mascherano lavori veri e propri, come emerge dall’esperienza di tanti selezionati per il programma. E che sovente vengono pagati con mesi di ritardo, a causa dell’inefficienza delle regioni italiane nel gestire i fondi. Come riporta l’articolo, “Solo il 15% delle azioni di politica attiva, attesta il rapporto, si è tradotto in un’assunzione con il bonus occupazionale, cioè l’incentivo alle assunzioni a tempo determinato e indeterminato, che nell’ambito di Garanzia giovani sono agevolate con bonus pari rispettivamente al 100% e al 50% dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro fino a un massimo di 8.060 euro l’anno”.

Insomma l’ennesimo regalo al capitalismo arruffone italiano, che da anni vivacchia di sussidi e sgravi a pioggia. Se è su queste basi che deve ripartire l’occupazione giovanile possiamo metterci l’anima in pace.

Puoi cliccare qui per ascoltare il podcast della trasmissione “Equilibrio Precario” su Radio Città Aperta.

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