A due giorni dai 103 missili lanciati su Damasco e Homs dalla nuova
“coalizione dei volenterosi”, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, le
tensioni sulla Siria non si allentano mentre il team dell’Organizzazione
per la Proibizione delle Armi Chimiche (Opac) comincia il suo lavoro a
Douma.
Ieri l’esercito governativo siriano ha annunciato la totale ripresa
di Ghouta est, sobborgo della capitale, dal 2013 enclave delle
opposizioni e per questo sottoposto ad un doppio assedio, interno
islamista ed esterno governativo, una tragedia lunga quasi cinque anni
che ha affamato i 400mila civili presenti. Dopo l’ultimo accordo
di evacuazione e l’uscita da Ghouta dei salafiti di Jaysh al-Islam,
nelle ore immediatamente successive all’attacco aereo a guida Usa,
polizia militare russa e truppe siriane hanno ripreso il controllo totale della
zona mentre manifestazioni popolari celebravano l’uscita della milizia e
condannavano l’intervento statunitense.
Questa mattina l’Opac ha iniziato a lavorare a Douma, la principale
città di Ghouta est, dove secondo il fronte anti-Assad il governo
avrebbe compiuto un attacco a base di armi chimiche sabato 7 aprile,
uccidendo tra le 70 e le 85 persone. Gli esperti
dell’organizzazione stanno raccogliendo campioni per verificare la
presenza di gas, cloro e sarin in particolare, e compieranno indagini
biometriche e interviste con i feriti, con gli Stati Uniti che mettono
già le mani avanti: le prove, dice Washington, sono state già
compromesse. Nei giorni scorsi, l’Opac – annunciando la
partenza per Damasco, dopo l’invito del governo – aveva indicato in un
mese il tempo necessario all’attività di raccolta e analisi in
laboratorio.
Non hanno voluto aspettare tanto Trump, Macron e May che hanno
lanciato l’attacco nella notte tra venerdì e sabato, con la premier
britannica che ha espressamente detto di non aver bisogno di alcuna
indagine internazionale per agire. L’ennesimo colpo per la legalità
internazionale e il ruolo delle Nazioni Unite che non hanno emesso alcun
mandato per un intervento che si è tradotto in un’azione unilaterale.
Ieri mattina la tensione bellica pareva sul punto di riesplodere insieme a un deposito militare vicino Aleppo:
a Jabal Azzan una forte esplosione ha fatto saltare in aria un centro
che sarebbe stato utilizzato dagli uomini del movimento sciita libanese
Hezbollah e dall’esercito iraniano, uccidendo almeno 20 persone. Subito
si è pensato a un nuovo bombardamento con molti che
immaginavano la mano di Israele, ben poco soddisfatta dall’azione
trumpiana considerata troppo debole. Hezbollah ha però fatto sapere che
non si è trattato di un attacco militare, ma di esplosioni controllate
sfuggite di mano.
E allora le tensioni si sono spostate sul piano diplomatico. Ieri
alle Nazioni Unite l’ambasciatrice statunitense Nikki Haly, falco
dell’amministrazione Trump ha ribadito il cambio, l’ennesimo, di
strategia del presidente intorno alla Siria: dopo aver annunciato il
ritiro delle truppe dalla Siria, meno di dieci giorni fa, gli Stati
Uniti hanno deciso di restare. Per tre motivi, spiega Haley:
evitare che le armi chimiche siano un rischio per gli interessi
statunitensi; sconfiggere lo Stato Islamico; avere un punto di controllo
delle attività iraniane nella regione. Dietro la decisione anche i
consigli del presidente francese Macron, subito pronto a lanciarsi in
guerra al fianco dell’alleato e che da due giorni insiste sulla
necessità di mantenere i marines in Siria.
Non solo: secondo Haley, oggi il segretario del Tesoro Usa
Mnuchin annuncerà nuove sanzioni alla Russia in relazione al sostegno
garantito al presidente siriano Assad. “Colpiranno direttamente
ogni compagnia che ha a che fare con equipaggiamento legato ad Assad e
all’uso di armi chimiche”, ha anticipato Haley. Risponde Mosca, tramite
il vice presidente della commissione della Difesa Serebrennikov: le
sanzioni, ha detto erano attese e “saranno dure per noi, ma
danneggeranno di più Usa e Europa”.
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