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09/12/2018

Scontro frontale tra Arabia Saudita e Qatar al summit del Golfo

di Michele Giorgio

Gli occhi erano puntati tutti sul Qatar ieri sera, alla vigilia del 39esimo summit oggi a Riyadh del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) che racchiude le monarchie sunnite del Golfo, ricche di petrolio e gas naturale: Arabia Saudita, Bahrain, Emirati, Oman, Kuwait e Qatar. Dal 1981, anno di nascita del Ccg, il summit è stato quasi sempre un appuntamento rituale e noioso. Dal 2014 invece, con la prima crisi tra l’emiro del Qatar, Sheikh Tamim bin Hamad al Thani, accusato di sostenere i “terroristi” della Fratellanza islamica, e gli altri cinque petromonarchi, capeggiati dall’Arabia Saudita, l’incontro è divenuto una sorta di ring per il pugilato diplomatico. L’anno scorso, dopo le pesanti sanzioni contro il Qatar ordinate da Riyadh, il vertice si rivelò una sorta di tribunale con Sheikh Tamim sul banco degli imputati. Quest’anno a meno di clamorose sorprese l’emiro qatariota, sebbene sia stato invitato (all’ultimo momento) dal re saudita Salman, non si farà vedere nella capitale “nemica” dove invierà solo una delegazione composta di funzionari governativi e diplomatici. Anzi, ieri per tutto il giorno si è parlato anche di assenza del Qatar, una possibilità comunque ritenuta remota.

Sheikh Tamim non intende prendere parte a una riunione che pur avendo in agenda temi di grande importanza – Yemen, Iran, Siria, Palestina, petrolio, cooperazione di sicurezza – in realtà è una opportunità per Riyadh per segnalare al mondo che tutto procede «senza problemi» e che la crisi seguita al brutale assassinio del giornalista Jamal Khashoggi non ha avuto effetti per la leadership saudita nel Golfo. È scontato perciò attendersi che l’erede al trono Mohammed bin Salman, ritenuto il mandante dell’eliminazione di Khashoggi, reciti oggi un ruolo da protagonista al vertice che doveva tenersi in Oman e che i Saud hanno voluto a tutti i costi in Arabia Saudita. Doha cerca la rivincita ma non arriverà alla decisione drammatica di uscire anche dal Ccg, dopo aver annunciato che non farà più parte dal prossimo 1 gennaio dell’Opec, il cartello che riunisce diversi dei maggiori produttori mondiali di greggio. «Piuttosto proverà a dare continui dispiaceri al colosso saudita» spiega al manifesto l’analista Mouin Rabbani «vuole essere una spina nel fianco e dimostrare che Riyadh non può più dettare legge». Rabbani ricorda che per diversi anni dopo la nascita del Consiglio di cooperazione del Golfo i sauditi «facevano ciò che volevano, mentre negli ultimi anni la loro influenza si è ridotta. Il Qatar si è dimostrato un gigante in politica estera e sulla scena economica mondiale grazie alle sue enormi riserve di gas, e gli Emirati, che pure sono alleati di Riyadh, da un po’ vogliono far sentire la loro voce e contare di più dal punto di vista politico, militare e diplomatico».

Se l’uscita dall’Opec è stata una mossa politica significativa ma poco rilevante dal punto di vista economico (Doha era uno dei produttori minori), il Qatar potrebbe rivelarsi ben più decisivo in un’altra questione da tempo sul tavolo e che ufficialmente non è nell’agenda del summit che si apre oggi: la costituzione di una “Nato araba”.  All’inizio del mese scorso contingenti militari di Arabia Saudita, Emirati, Kuwait, Giordania e Bahrain si sono ritrovati, con Libano e Marocco in qualità di osservatori, nella base militare egiziana di Matrouh, sulla costa mediterranea, per le manovre Arab Shield 1, considerate una sorta di test della “Nato araba”. Tuttavia senza il via libera del Qatar, che ospita il comando centrale delle forze armate Usa nel Golfo, è assai improbabile che il progetto sostenuto da Riyadh e Stati Uniti in funzione anti-Iran, possa vedere la luce. Anche per questo in seno al Ccg sale la voce di chi vorrebbe una soluzione della crisi con il Qatar. A cominciare dal ministro degli esteri degli Emirati, Anwar Gargash, che starebbe esercitando pressioni sugli alleati sauditi per ammorbidire lo scontro con Doha, per ora con scarsi risultati.

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