Su quanto avvenuto nella seduta del Senato in cui, su richiesta di Salvini e della Lega, si doveva votare la mozione di sfiducia al premier Conte, c’è un retroscena. Forse non vero, ma molto verosimile. A metà seduta il sottosegretario leghista Giorgetti, uno della vecchia guardia, avrebbe portato Salvini in uno sgabuzzino del Senato e lo avrebbe preso a calci in tutte le parti non visibili dalle telecamere.
Pare anche che, collegati con uno smartphone, i governatori leghisti del Nord e alcuni industriali indicassero a Giorgetti i punti su cui colpire ancora e con più forza. Poi avrebbe costretto Salvini a ingoiare l’ultima sorsata di cicuta: il ritiro in extremis della mozione di sfiducia a Conte precedentemente presentata dalla Lega, calendarizzata e messa in discussione in aula.
Un’ultima boutade che ha consentito a Conte di uscire dalla più aggrovigliata ed emblematica crisi di governo nel nostro paese come uno statista coraggioso e responsabile.
Quella al Senato, che doveva sancire l’estrema ambizione di un leader che era arrivato a chiedere dalla piazza i pieni poteri, si è risolta con una sassaiola contro Salvini, una lapidazione politica e pubblica diffusa in diretta da radio, televisioni, social network; cioè proprio dai media vecchi e nuovi che gli avevano consentito di arrivare e crescere, fino a martedì 20 agosto alle ore 16.00.
Il “capitano”, il “Truce”, il guappo e’ cartone, l’uomo di Papeete Beach, il peracottaro padano – ognuno declini il suo giudizio come meglio preferisce – è uscito demolito dal sasso che aveva sollevato in aria e che gli è pesantemente ricaduto in testa come macigno. Il guappo che mobbizzava la scena politica italiana si è rivelato, come detto, di cartone.
Adesso delle due l’una. O Salvini è veramente “il pericoloso leader del fascismo rinascente”, e quindi dovrà giocarsi la sua partita tutta sul terreno eversivo e della spinta delle piazze, oppure il consueto e desueto allarme sollevato dal Pd, dal partito de La Repubblica – e da tutti i beoti della “sinistra”, disposti ad abboccare ancora una volta – era un allarme del tutto strumentale ai fini di un recupero elettorale del centro-sinistra e del “partito trasversale di Bruxelles”.
Ma anche se entrambe le valutazioni fossero vere, il dato rivelatore di tutta questa vicenda è la profonda e visibile crisi non di un governo, ma di una intera classe dirigente: quella attuale.
Se la miseria della politica su cui si fondano oggi gli esecutivi e le Camere parlamentari fa emergere come statista il professor Conte o ridà lustro addirittura a Renzi, vuole dire che la classe dirigente non ha più serie prove di governo con cui misurarsi, su cui formarsi e rafforzarsi.
La sostanza delle decisioni – e della possibilità materiale di prenderle – non risiede più nelle aule parlamentari o a Palazzo Chigi, ma a Bruxelles. Ai dirigenti locali rimane solo la normale amministrazione e la gestione degli affari correnti, compresa la spartizione delle briciole a contorno dell’ossatura del bilancio.
Poca roba, in proporzione, per la quale non servono statisti o geni politici, figure in grado di elaborare un piano di lungo periodo di ridisegno del paese, ma leader con contratti a termine e tempi di crescita e di usura rapidissimi. I due Mattei sono lì a raccontarci questo.
Sin dall’inizio abbiamo detto che quello andato in crisi era un governo "tre in uno".
Martedì pomeriggio si è palesato il governo dei professori, quelli impiantati e guidati dal Quirinale per conto della grande borghesia “europeista” e degli apparati di Bruxelles, che ha sparigliato le carte verso gli altri due “governi”.
Ma se, vista dall’alto, la crisi di questo governo non è altro che un passaggio della crisi politica delle classi dirigenti, vista dal basso, dal punto di vista dei “nostri” (lavoratori e lavoratrici, disoccupati, precari, abitanti delle periferie), emerge con straordinaria profondità la questione della rappresentanza politica di segmenti sociali tramortiti, impoveriti, depotenziati nelle proprie aspettative.
Una buona parte di questi ha abboccato alla sirena del M5S o della stessa Lega, affidando loro le proprie istanze morali o regressive, sociali o razziste, ma soprattutto affidandole a sottostanti interessi materiali che non coincidono con i propri.
I fatti, impietosamente, hanno prodotto una nuova disillusione. La piccola e media borghesia del nord vuole stare al governo, non riempire le piazze dei comizi di Salvini. Magari va a messa la domenica (come cantava lo scomparso Claudio Lolli), ma non si identifica nell’ostentazione di madonne e rosari. Vuole avere a disposizione un governo che esaudisca i propri desiderata, non che si limiti ad inondare i social network con messaggi deliranti acchiappa-like.
La piccola e media borghesia del centro-sud, con il M5S, ha imbracciato come una clava il tema dell’onestà o l’idiozia dei costi della “casta”, riducendola ad una sbagliatissima macchietta come la riduzione dei parlamentari (non degli stipendi...).
In questa rappresentazione, dov’è la rappresentanza reale degli interessi di classe di lavoratori, lavoratrici, disoccupati o precari di ultima e penultima generazione?
La partita vera, a nostro avviso, si gioca sempre sul piano degli interessi materiali dei settori popolari e della possibilità di decidere autonomamente le priorità dello sviluppo del paese o la sua politica internazionale.
Sappiamo già ora che lo spauracchio di Salvini servirà ancora per qualche mese, ma solo per spianare la strada a un esecutivo che riaffermerà la subalternità degli interessi popolari a quelli del capitale e dei mercati e che riallineerà la politica estera alla gabbia euroatlantica.
Per far questo non servirà un grande personale politico, né una vera classe dirigente, sarebbero sufficienti quelli già in circolazione. Se proprio non dovessero essere all’altezza, è bene ricordare che a fine settembre Draghi terminerà il suo mandato alla Bce.
E allora sì che aspetteremo sotto casa quelli che ci hanno propinato per mesi il “pericolo di Salvini”.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento