“Amo fatto n’assemblea pe’ decide de fa n’assemblea”. Così, negli anni ‘70, si sfottevano certe discussioni “di movimento” caratterizzate dall’assoluta inconcludenza.
La cosa viene in mente vedendo l’esito della riunione dei capigruppo del Senato, ieri, che non ha trovato un accordo sulla data in cui fissare la discussione sulla mozione di sfiducia presentata dalla Lega contro il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.
Perciò questa aurea discussione sulla data verrà affrontata oggi pomeriggio da tutta l’assemblea di Palazzo Madama, tra senatori strappati all’ozio ferragostano e strizzati tra le ambizioni di voto immediato sbandierato da Salvini e il terrore di concludere dopo poco più di un anno questa legislatura (con tutte le conseguenze su stipendio, benefit, contributi pensionistici, ecc).
La situazione è insomma grave, ma non seria. E il giornale del “salotto buono” della fu borghesia italiana è costretto a sperare – vendendolo come il solito “retroscena” – che almeno la Lega annunci oggi di ritirare la propria squadra di governo, ufficializzando così la crisi.
Già, perché dopo quasi una settimana di proclami, accuse, indignazione, comizi in mutande sulla spiaggia e inseguimenti del Truce in fuga con la scorta (a Catania), di fatto il governo esiste ancora, i ministri continuano a esser chiamati così, anche se ben pochi mettono piede negli uffici.
Abbiamo detto subito che l’atteggiamento della Lega era più “posa” che altro. Se davvero voleva far cadere immediatamente il governo e costringere Mattarella ad aprire le consultazioni per verificare l’esistenza o meno di altre maggioranza parlamentari, bastava compiere questo atto “normale”: dimettersi dalle cariche. Ma questo – lo ripetiamo da giorni – toglierebbe a Salvini non solo una buona parte del megafono mediatico, ma anche la possibilità di continuare a dettare l’agenda politica.
Un esempio? Non potrebbe più firmare divieti di sbarco per le sole navi Ong che attualmente raccolgono naufraghi in mezzo al Mediterraneo ma non possono sbarcarli nel “porto sicuro più vicino”. Naturalmente, non può fare nulla per i barchini carichi di migranti che nel frattempo riescono ad arrivare sulle nostre coste, e infatti di quelli non parla.
Ma, se non ci si dimette, i tempi per affrontare la crisi diventano quelli soliti del Parlamento, nel bene (correttezza procedurale e istituzionale) e nel male (tempi lunghi).
Quindi, come sempre, Salvini mente; anche quando dice di volere il “voto subito”.
Non che gli altri protagonisti – si fa per dire – siano molto più sinceri. Tutti sono così presi dalle proprie paure ed interessi, in una situazione internazionale che diventa ogni giorno più nervosa, da far riemergere dalle catacombe della vergogna un guitto senza onore, come quello di Rignano. Che, come sempre, catalizza il peggio della politichetta italica, l’inciucio come scopo di vita.
Se si guarda questa crisi con occhio statunitense o europeo, invece, appare abbastanza chiaro che si vanno concretizzando pressioni perché questo governo sia più chiaramente “atlantico ed europeista”, mettendo da parte l’implementazione pratica del Memorandum con la Cina e, quanto prima, disponga l’invio di navi da guerra del Golfo Persico, assecondando (con entusiasmo molto relativo, anche a Bruxelles) la prova di forza contro l’Iran che Trump vorrebbe sceneggiare tra qualche settimana.
Da questa angolazione, le “grandi tempeste” della politica italica appaiono modeste perturbazioni in un bicchiere d’acqua. E le vie di risoluzione abbastanza obbligate, chiunque “vinca” lo scontro tra totani parlamentari.
Aspettiamoci dunque di tutto, perché tanto non c’è molto che possa succedere. Può cambiare qualche volto di primo piano, può arrivare il classico “governo istituzionale” (o balneare, tecnico, del Presidente, di “garanzia elettorale”). O persino potrebbe essere riesumato quel “rimpasto” di cui si parlava solo qualche giorno prima della “botta da matto” del leghista-dj.
Intanto godiamoci questa danza immobile, con senatori col trolley pieno di pinne e maschera che sudano nell’afa romana per “fà n’assemblea pe’ decide de fa n’assemblea”. Ma non subito...
Fonte
Quando anche questa indecente querelle sarà archiviata, si potrà a buon conto coniare il termine di "stallo all'italiana" da porre come alterego del più famoso "stallo alla messicana".
Fosse ancora in attività qualche cineasta degno di tale titolo in questo squallido paese, potrebbe ravvisare nella cronaca dell'oggi tutti gli elementi per un capolavoro socio-politico alla Monicelli.
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