Il decennale del M5s mi suggerisce qualche riflessione distaccata. A
volte per capire un quadro è meglio allontanarsi per farsi un giudizio
di insieme e dieci anni sono abbastanza per valutare una forza politica
sul medio periodo.
In primo luogo una forza politica che dura 10 anni non è un puro incidente: se
si considera che il Psiup ne durò 8, l’Uomo Qualunque 2, il Partito
d’azione 4, la Rete 7, la Margherita 8 e che alcuni di questi partiti
ebbero momenti significativi, lasciando tracce a volte consistenti nella
storia del paese, si ricava che una durata decennale non è poco e
riferisce di un certo peso.
Tanto più ove si consideri che da quando il M5s si è presentato ad
elezioni nazionali (considerando solo politiche ed europee) ha oscillato
fra il 17 ed il 32% che davvero non è poco anche sul livello più basso.
Cioè ha avuto sempre il seguito di un partito di massa senza mai
esserlo, non avendo alcuna organizzazione seria sul territorio e
contando solo sul seguito di opinione. Anche questa è un’anomalia che
andrebbe esaminata.
Io distinguerei nettamente la storia del M5s in due fasi precise: dal 2009 al 2016 e dal 2016 ad oggi.
Lo spartiacque lo fisso al 2016 per due avvenimenti periodizzanti: la morte di Roberto Casaleggio ed il referendum costituzionale.
Roberto è stato di fatto il vero capo politico del M5s in
questa fase, che ha risentito di tutte le sue caratteristiche personali:
l’improvvisazione e la fantasia, l’inventiva e la scarsa coerenza,
l’autoritarismo e la sensibilità alle domande politiche nell’aria. Ed è
il periodo dell’ascesa del Movimento che coglie il suo maggiore
risultato storico: aver liberato il paese dall’ammorbante bipolarismo centro-sinistra/ centro-destra.
Questo è un merito storico che va riconosciuto al M5s della prima fase. Determinante, in questo senso, fu la sconfitta del Pd nel referendum costituzionale.
Già nel 2013 il 25% ottenuto dal M5s impedì la vittoria del Pd che
dovette adattarsi all’alleanza con Forza Italia prima e con le sue
scissioni dopo.
Ma sin lì, il falso bipolarismo era in crisi ma non “morto”.
Infatti, nel 2014, alle europee Pd Pd ebbe un fortissimo recupero
sfondando la barriera del 40%, mentre il M5s registrava la sua prima
sconfitta. Il colpo di grazia venne con il referendum del 2016,
preannunciato dalle vittorie di Roma e Torino. Furono quei risultati a
spalancare la strada verso la vittoria del 2018.
Nel frattempo, però, era avvenuto il passaggio dalla
leadership di Roberto Casaleggio a quella di Luigi Di Maio che
trasformerà il M5s in qualcosa di molto diverso dal precedente.
Il M5s di Di Maio, pezzo dopo pezzo demolirà molti principi del
precedente movimento, a cominciare dal divieto di concludere accorti di
coalizione con altre forze politiche e poi via via, le consultazioni on
line sempre più rade, l’assoluta abolizione delle dirette streaming, uno
statuto che indica un capo politico pressoché inamovibile, che decide
da solo e senza dibattiti o consultazioni, che nomina i capigruppo
parlamentari (quel che non esiste in nessun altro gruppo in Parlamento),
capigruppo non più a rotazione, le deroghe al superamento dei due
mandati, deroghe sulla candidabilità di chi abbia pendenze giudiziarie,
capo politico che controlla i probiviri eccetera… A questo si sono
accompagnati frequenti rovesciamenti di posizione in materia di Tap, di
Tav, di F35, centro siderurgico tarantino eccetera.
La svolta sulle coalizioni era forse necessaria ed il precedente
principio era troppo rigido ed impolitico, così come le deroghe che
proibivano di candidarsi a chi magari avesse un avviso di garanzia per
aver criticato il Presidente della Repubblica o avesse spezzato i
sigilli di un cantiere durante una manifestazione; superare queste
rigidezze astratte era auspicabile, ma con un approfondimento che
precisasse a quali condizioni, con quali limiti, con quali contrappesi,
si potesse realizzare una cosa e l’altra.
In realtà la scelta dei governi di coalizione, senza alcun criterio
preliminare, con una decisione condivisa sui punti programmatici
irrinulciabili, senza alcuna verifica periodica ha significato solo un esasperato governismo utile solo a soddisfare le ambizioni personali
di aspiranti Presidenti del Consiglio, ministri, sottosegretari
eccetera. Il tutto mescolato al più sfrenato opportunismo reso manifesto
soprattutto in materia di riforme elettorali e costituzionali (ci
torneremo su).
E qui hanno preso pieno sviluppo i due peccati originali del Movimento: l’incapacità di darsi una qualsivoglia cultura politica (“Né di destra, né di sinistra” che però non produceva nulla che superasse l’una e l’altra) e la conseguente incapacità di avviare un qualsiasi percorso formativo (la consultazione informata sul sistema elettorale alla quale detti la mia collaborazione restò unico esperimento).
Risultato: un movimento politico pronto ad ogni giravolta e
con un gruppo dirigente (parlamentare) raccogliticcio, disomogeneo,
impreparato, buono a nulla ma capace di tutto.
Conseguenza: se il M5s del primo periodo ebbe il merito
storico di aver abbattuto il falso bipolarismo Pd-Fi, quello del secondo
periodo ha fallito completamente nel tentativo di risanare la politica,
di esprimere un diverso modo di fare politica e rendere i cittadini più
partecipi dei processi decisionali. Non solo la Casta non è stata
sconfitta, ma, salvo alcune sparate demagogiche (di cui parleremo), si è
semplicemente aggiunto un nuovo partecipante al sistema di potere.
Il M5 avrebbe potuto rappresentare un grande cambiamento nel nostro
paese, ma i peccati d’origine, la morte di Roberto Casaleggio e
l’ambiziosa incapacità di Luigi Di Maio lo hanno impedito. Un’occasione
persa. Peccato.
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