Siamo vicini al varo della prima manovra
finanziaria da parte del neonato Governo, la quale, a dispetto degli
annunci, si prospetta di nuovo sotto il segno dell’austerità. Se da un lato c’è l’urgenza politica di non dare tregua al nuovo
esecutivo (nuovo solo a parole e sempre identico a sé stesso nelle
politiche antipopolari applicate), dall’altro non bisogna perdere la
prospettiva sulle grandi sfide ideali, da cui ripartire per iniziare a
ragionare sull’alternativa e per dotarsi di una cassetta degli attrezzi
con cui interpretare il presente. Sganciandoci dalla più stretta
attualità, parliamo qui di un punto di vista, radicalmente diverso dal
consenso affermatosi, su alcuni snodi cruciali della lotta di classe nei
cosiddetti ‘decenni d’oro’ del capitalismo occidentale del secondo
dopoguerra.
Nel pezzo che proponiamo, uscito su La Rivista del Manifesto nel marzo 2004 a firma Garegnani, Cavalieri, Lucii, torniamo sui terreni già calcati quando discutemmo le parole, sempre attuali, di un grande economista eterodosso quale Michał Kalecki:
la disoccupazione e il ruolo della sinistra. L’economista polacco ci
lasciava, all’interno di un pezzo ricco di spunti, un messaggio
fondamentale: i capitalisti sono generalmente avversi alle politiche di spesa pubblica e di sostegno pubblico ai redditi
in quanto queste aiutano i lavoratori a mettersi al riparo dalla
minaccia della disoccupazione, diventando via via meno disciplinati e
‘gestibili’. La disoccupazione è, infatti, un potentissimo strumento di
controllo sociale, che i capitalisti usano senza scrupoli per
appropriarsi di una fetta maggiore del prodotto sociale. Una necessità
intrinseca di un’economia capitalista, alla quale i padroni
rinunceranno, ci ricorda Kalecki, solamente nel contesto di regimi
fascisti, dove la repressione economica può essere sostituita
direttamente dalla repressione politica.
Tornando al pezzo dei tre autori
nostrani, perché è importante rileggerlo oggi, in una situazione
dove l’austerità la fa da padrona e allo Stato è, di fatto, impedito di
attuare politiche espansive? Sono in particolare due le idee, proposte
nell’articolo, che troviamo di particolare utilità anche oggi: da un
lato la discussione del ruolo della spesa pubblica all’interno della
lotta di classe in occidente, dall’altro il ruolo degli assetti
politico-istituzionali.
Partiamo dal primo punto, ed è qui che
subito il lettore odierno deve forzare un po’ la sua immaginazione per
andare oltre le strettoie politiche che oggigiorno limitano in maniera
soffocante la capacità di intervento dello Stato. Garegnani, Cavalieri e
Lucii, infatti, ci parlano di un mondo nel quale la piena occupazione
era ormai molto vicina, e lo era grazie all’aiuto determinante dello
Stato nel garantire un ammontare di domanda di beni e servizi tale da
rendere necessario, per il funzionamento dell’economia, l’impiego di
pressoché tutti i lavoratori disponibili. Apparentemente un altro mondo
rispetto al contesto attuale, come uno sguardo ai dati sulla disoccupazione in Europa
ci mostra.
A cosa può servirci, oggi, questo scorcio di passato? A
darci una guida è il ragionamento degli autori, che ci pongono di fronte
ad un apparente paradosso.
Una situazione con bassa disoccupazione e
alta domanda di beni sembrava uno scenario idilliaco, sia per i
lavoratori che avranno un posto assicurato e verosimilmente
remunerazioni dignitose, sia per i padroni che hanno a disposizione
mercati sempre floridi nei quali realizzare lauti profitti. Ma dietro
questa apparente situazione di pace sociale, il quadro generale e i
rapporti di classe restavano profondamente conflittuali. Come è
possibile, ci potremmo chiedere, se ambo le parti vedevano i loro
benefici accrescersi per mano della spinta continua data dallo Stato
all’economia? La questione di fondo risiede nel fatto che per i
capitalisti ciò che conta non è solamente quanti profitti fanno, a
quanto ammonta la massa di profitti da loro realizzati. Per loro conterà anche e soprattutto il saggio di
profitto che riescono ad ottenere, cioè la remunerazione del capitale
da loro investito. Nel dettaglio, il saggio di profitto viene calcolato
facendo un semplice rapporto tra [i ricavi totali, ai quali sottraiamo i
costi per l’usura dei mezzi di produzione utilizzati, il costo delle
materie prime e i salari pagati], e [il totale del capitale anticipato
ai fini della produzione]. Ed è qui che la presunta armonia di interessi
tra le classi svanisce: se i lavoratori riescono a strappare un salario
reale più alto, il saggio di profitto rilevante per i capitalisti
diminuisce inequivocabilmente. È la lotta di classe, il conflitto che
anima il funzionamento della nostra economia. Questo scenario avrà
maggiori possibilità di realizzarsi in presenza di bassa disoccupazione,
quando quest’arma di ricatto dei capitalisti è spuntata e non è
sufficiente a moderare le richieste dei lavoratori. Ecco quindi che la
nostra sfida, quella contro i vincoli al bilancio pubblico dati dalla
gabbia europea, non deve perdere mai la prospettiva storica, la quale ci
mostra che un intervento attivo dello Stato nell’economia non è
solamente uno strumento utile a garantire alti livelli di reddito e
occupazione, ma può anche essere funzionale a migliorare i rapporti di
forza e a tenere a bada il potere contrattuale dei capitalisti.
L’altra questione che ci preme
sottolineare è il ruolo che nel contributo dei tre autori viene dato al
contesto istituzionale di quegli anni: è vero, i lavoratori erano in
grado di strappare condizioni lavorative favorevoli, lo Stato
interveniva in maniera continua nelle vicende di mercato, i partiti di
sinistra erano radicati nella società. Basta questo per cogliere il
quadro di quel periodo? Secondo Garegnani, Cavalieri e Lucii, no: non
capiamo davvero la situazione se non allargando lo sguardo e tenendo in
considerazione il ruolo giocato dalla presenza dell’Unione Sovietica.
Lontani dal becero revisionismo made in UE,
il ruolo politico dell’URSS in quegli anni è chiaro: essa costituiva
una minaccia ed una fonte di pressione costante sulle classi dominanti
dei Paesi occidentali. La prospettiva di un sistema economico
alternativo, capace di garantire un lavoro per tutti e uguaglianza nella
distribuzione del reddito, alle porte del capitalismo avanzato,
obbligava di fatto quest’ultimo a ricercare una qualche forma di
compromesso con le classi lavoratrici. Allo stesso tempo, però, i tre
autori ci segnalano anche la minaccia insita in questo stato delle cose.
Un capitalismo che garantisce un livello minimo di benessere ha il
potenziale di ammorbidire il dissenso degli strati sociali meno
abbienti, riducendo la carica propulsiva e di rottura necessaria a
prendersi tutto e non solo fette leggermente più grandi della torta. È
qui che si inserisce il ruolo della sinistra di classe, che deve farsi
carico di fare luce sulla natura inerentemente ingiusta di un sistema
economico costruito sullo sfruttamento, un sistema economico che concede
qualcosa solo se è obbligato dalla pressione della classe stessa. Se
questo ruolo della sinistra viene a mancare, si afferma la falsa
percezione di essere partecipi di un benessere collettivo e per tutti
che altro non è che l’anticamera per una successiva contro-offensiva
capitalistica, quella che ancora oggi vediamo dispiegarsi.
Ed è qui che troviamo il secondo punto di
connessione con la realtà attuale. Ci troviamo, infatti, nella
paradossale situazione di vedere esattamente ribaltato il contesto istituzionale:
da un lato l’URSS è ormai un lontano ricordo, mentre dall’altro le
classi lavoratrici mostrano segni di risveglio e danno vita a ondate di
malcontento e rivolta – come i gilet gialli in Francia
– che riescono embrionalmente a portare l’attacco agli interessi
materiali delle classi dominanti. Nel momento in cui, però, le masse
popolari sembrano mostrarsi più disponibili a lottare contro un sistema
fatto di disoccupazione e povertà, questa spinta non ha più un orizzonte
politico ultimo, un’alternativa tangibile, che esiste e che dimostra di
essere una possibilità concreta, pur tra mille contraddizioni. È
innegabile che questo rende un percorso di lotte per l’emancipazione
molto più complicato e frammentato, ma non per questo meno urgente e
necessario.
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