I quarant’anni che vanno dal 1949 al 1989 sono stati l’epoca della rinascita della Germania dopo la sconfitta del nazismo. Di quella Germania, come intonava l’inno nazionale della DDR, “risorta dalle rovine e rivolta al futuro”, contrapposta a quella Repubblica federale tedesca riarmata dalla NATO e destinata alla funzione di centro dell’anticomunismo (la messa fuori legge della KPD già nel 1956, per dire) e della penetrazione ideologica, politica e finanziaria occidentale nell’est europeo delle democrazie popolari.
La Repubblica Democratica Tedesca ha subito la sorte comune ai Paesi dell’Europa orientale e, così come in vita era stata chiamata a rappresentare la “vetrina del campo socialista”, così, quarant’anni dopo, veniva deputata a simboleggiare la “disfatta irrimediabile” di quel campo. Il 9 novembre del 1989 al capitale occidentale si spalancavano definitivamente le porte del mercato est-europeo: l’abbattimento del muro di Berlino doveva raffigurare la vittoria irreversibile “della democrazia sulla dittatura”; su quella dittatura e quel totalitarismo che, come ci è stato rivelato nell’anno di grazia 2019, “per mezzo secolo” hanno privato “della libertà, della sovranità, della dignità, dei diritti umani e dello sviluppo socioeconomico... altri paesi europei”, oltre, ovviamente, alla stessa diabolica Unione Sovietica.
“Chiunque voglia celebrare i trent’anni dalla caduta del muro” scriveva qualche giorno fa il deputato di Die Linke al Bundestag, Jan Kort, “ha tutti motivi per farlo. Altri, associano gli ultimi tre decenni a perdita di posti di lavoro, privatizzazioni, austerità, perdita di ogni progetto di vita”.
Se le crepe scolpite dall’anticomunismo di Solidarność in Polonia, nove anni prima, sembravano esser state rattoppate alla bell’e meglio, con le “cricche revisioniste al potere” apparentemente sorde al pericoloso campanello d’allarme; se a Timișoara l’aggressione occidentale avrebbe mostrato tutto il raccapricciante abominio di cui è capace (e che avrebbe poi ripetuto in Jugoslavia e che sta aggravando oggi in Ucraina), è però l’assalto finale alla DDR che simboleggia ancor oggi, per i “democratici” dell’orbe terraqueo, la chiusura, secondo loro definitiva, del circuito aperto nel 1917.
“Il giorno più bello per l’Europa. Addio muro di Berlino”, titolava a sette colonne l’Unità del 11 novembre 1989 e il condirettore Renzo Foa (direttore era Massimo D’Alema) esultava trattarsi di “uno di quei momenti che segnano e cambiano la storia di una nazione. In questo caso è qualcosa di più, è la storia di un continente.. mai, come in questo momento, il rapido e tumultuoso rivolgimento politico dell’Est sta aiutando tutti noi in Occidente a riscoprire i grandi valori di civiltà”, così a lungo soffocati, come ci ha appunto or ora ricordato il parlamento europeo.
Proclamata ufficialmente il 7 ottobre 1949, la nascita della DDR era stata la risposta all’unilaterale decisione USA della creazione della Repubblica federale sul territorio delle zone di occupazione americana, britannica e francese (l’URSS si era opposta alla divisione della Germania, tanto che la Costituzione della DDR approvata nel 1949 parlava di unità del Paese) con elezioni che, nell’agosto precedente e sotto la diretta supervisione del Dipartimento di stato, avevano dato la scontata vittoria ai partiti del più reazionario nazionalismo. La decisione della creazione di uno Stato tedesco separato era stata praticamente assunta alla conferenza di Londra del 1948 e la Costituzione approvata frettolosamente a Bonn ne doveva dare la sanzione “giuridica”. A est, invece, si procede cercando di mobilitare le masse. Dopo il primo Volkskongress (Congresso del popolo; prima di esso, nei 5 Länder dell’est operavano organi legislativi e esecutivi eletti nel 1946) nel dicembre ’47, al II congresso, nel marzo ’48 (vi partecipano anche delegati dell’ovest) si decide di chiedere un referendum sull’unità tedesca e si dà vita a un organo esecutivo, il Volksrat (Consiglio del popolo) di 400 elementi, diretto da un Presidium, con il compito di organizzare il referendum. Il Congresso adotta anche un progetto di risoluzione coi principi fondamentali di una Costituzione unitaria e dà mandato al Consiglio di elaborarne il progetto. Con migliaia di assemblee e 15.000 risoluzioni, il 19 marzo 1949 il Volksrat approvava il progetto. Il III Volkskongress approva il progetto e pubblica un manifesto al popolo tedesco, in cui si fa appello a una “Costituzione per la Germania intera, che garantisca l’assetto democratico di una vita nazionale, politica, economica e culturale indipendente”. Come osservava il costituzionalista Vezio Crisafulli su Rinascita del luglio 1949, “Mentre l’opera del Consiglio parlamentare di Bonn si è concretata nel dare agli occupanti lo strumento giuridico capace di perfezionare e cristallizzare lo smembramento del paese e il loro incontrastato predominio, il Congresso del popolo ha foggiato uno strumento di unità, dando vita appunto, non a una pseudo-Costituzione separata, ma al progetto di una Costituzione per l’intera Germania”.
Ma la Repubblica Democratica Tedesca non c’è più. Oggi, l’ex ordinario del Institut für Internationale Studien della Karl-Marx-Universität di Lipsia, Ekkehard Lieberam, in un’intervista pubblicata su Die junge Welt del 5 ottobre, ricorda le manifestazioni che, ancora poco dopo la caduta del muro, si ripetevano a difesa della DDR, pur se, afferma, “si trattava di tardive azioni di retroguardia” e finivano per essere, “come aveva scritto Marx nel dicembre 1848, quella “mezza rivoluzione” cui doveva seguire la controrivoluzione”. Già a dicembre del ’89 veniva eliminato il ruolo guida del partito alla Volkskammer (Parlamento), sancito dalla Costituzione e a febbraio 1990, l’Unione Sovietica si ritirava dal Paese: “il resto era inevitabile”, dice Lieberam. A poco ormai valevano le precedenti proposte su “un’alternativa socialista” o i dibattiti sulla DDR come “tentativo di socialismo” e apparivano velleitari, a “riunificazione” decretata, gli appelli al Bundestag “contro la deindustrializzazione” e a difesa degli “interessi dei tedeschi orientali”. Lieberam ricorda come nei dibattiti degli anni ’80 “su democrazia, diritti individuali nel processo politico, contraddizione tra stato e masse popolari nel socialismo” – temi già affrontati negli anni ’60 da Walter Ulbricht, che aveva “fatto del Consiglio di Stato, e non del Politbjuro, la camera di compensazione della politica statale” – mai si fosse parlato della “eliminazione del ruolo guida del partito marxista-leninista”.
Ulbricht aveva mirato a “porre le preoccupazioni e le esigenze delle persone al centro dell’azione statale. Il risultato era stato un efficace miglioramento della comunicazione tra leadership e popolo”.
Ma poi venne il 1989 e nell’estate “del 1990 furono cassate tutte le disposizioni valide della Costituzione della DDR”. Ed è così che “la diffamazione della DDR quale Stato illegittimo è stata estesa a tutta la vita sociale”: molto comodo, dato che è “un concetto che non necessita di analisi dei rapporti politici e giuridici. È un verdetto” senza appello; tanto che, ricorda l’intervistatore, Arnold Schölzel, la definizione di “Stato illegittimo” è ripetuta addirittura nel preambolo dell’accordo di coalizione del 2014 in Turingia tra Die Linke, SPD e Bündnis 90/Die Grünen.
Appena pochi giorni prima della fine, a inizio novembre 1989, l’allora Presidente del Consiglio di Stato della DDR, Egon Krenz, si era incontrato a Mosca con Mikhail Gorbačëv. Ancora Die junge Welt, lo scorso luglio proponeva un capitolo del suo libro “Noi e i russi. I rapporti tra Berlino e Mosca nell’autunno del ’89”, in cui l’ultimo Segretario della SED nota che nel “primo libro di Gorbačëv pubblicato in tedesco dopo l’Anschluss della DDR nella Repubblica federale”, dal titolo “Colloqui al vertice”, è assente “il nostro colloquio del 1 novembre 1989”. E racconta di come Gorbačëv lo avesse ricevuto non al Cremlino, ma nella sede del Comitato Centrale, a “sottolineare che ci incontravamo come segretari generali dei partiti guida nei nostri paesi. La leadership della classe operaia e il suo partito marxista-leninista erano ancora un principio costituzionale sia nella DDR che nell’Unione Sovietica”. Gorbačëv definì “totale assurdità” le voci occidentali sulle divisioni tra Unione Sovietica e suoi alleati. Krenz gli descrisse le controversie che avevano preceduto le dimissioni di Honecker, parlò dei rapporti nel Politbjuro, della situazione economica, delle relazioni con la Repubblica federale. Si parlò, racconta Krenz, “della manifestazione prevista per il 4 novembre a Berlino”, cui il partito aveva deciso di partecipare: “la SED era determinata a risolvere i problemi politici con mezzi politici”.
Gorbačëv “temeva che le manifestazioni nella DDR” potessero dar fiato alle forze antisocialiste, tanto più che “la DDR era ancora in prima linea tra il Patto di Varsavia e la NATO”; disse di non serbare “rancore per Honecker”, anche se non aveva “avviato i necessari cambiamenti tre o quattro anni fa”, intendendo i “cambiamenti” gorbacioviani in URSS. Poi Krenz arrivò al punto: si vociferava che l’URSS lavorasse per l’unità tedesca e questo aveva “suscitato la sfiducia di Honecker”; e gli chiese direttamente: “Quale posto assegna l’URSS a entrambi gli stati tedeschi nella casa comune europea?”. Gorbačëv finse di non capire e allora Krenz aggiunse: “La DDR è il risultato della seconda guerra mondiale e della successiva guerra fredda, dunque anche vostra figlia. Per noi è importante sapere se conserverete questa paternità. Difficile dire” se fosse sincero, quando rispose: “Dopo i popoli dell’URSS, il popolo della DDR è il nostro preferito”. Gorbačëv informò Krenz anche di una conversazione tra Alexandr Jakovlev e Zbigniew Brzezinski, in cui l’americano aveva detto che era inconcepibile una riunificazione dei due stati tedeschi e che essa avrebbe rappresentato “il crollo dell’architettura della sicurezza in Europa”. I colloqui con Thatcher, Mitterrand, Jaruzelski e Andreotti, disse Gorbačëv, lo avevano convinto a voler preservare la realtà postbellica, compresa l’esistenza di due stati tedeschi. E qui venne alla luce la sfiducia di Mosca verso Honecker: quando nel 1987 Reagan aveva chiesto di aprire le frontiere e abbattere il muro, Honecker pensava che Reagan non l’avrebbe mai detto se non avesse saputo che Gorbačëv aveva pensato a qualcosa di simile. Poi, dopo tanti discorsi su rapporti tra USA, RFT, URSS, riavvicinamento tra gli Stati, processi di integrazione, nota Krenz, “il 1 novembre 1989, il primo uomo del Cremlino disse che, al momento, la questione dell’unità tedesca non era attuale. “Dopo quattro ore di colloqui”, conclude Krenz, Gorbačëv gli aveva dato speranze per il futuro: “la fine alla DDR? Dato l’appoggio dell’URSS, per me era fuori discussione”.
Sempre Krenz, in un’intervista a Georgij Zotov, pubblicata lo scorso 19 settembre sul settimanale russo Argumenty i Fakty, dice ora chiaro e tondo: “ci ha traditi Gorbačëv”. L’ex Presidente della DDR vive ora nel villaggio di Dierhagen, in una casetta sul mar Baltico: “Mi ha chiesto di dargli 120 euro per la benzina” racconta Zotov, “per il viaggio fino a Berlino per l’intervista: “Mi dispiace, non avrei voluto soldi; purtroppo, anche se ho guidato il Paese, oggi ho una pensione come una donna delle pulizie”. Alla domanda diretta di Zotov, “Nel 30° anniversario delle manifestazioni a Berlino che portarono alla caduta di Erich Honecker e alla fine della DDR, la Germania orientale avrebbe potuto essere conservata?”, la risposta è altrettanto netta: “Purtroppo no. La DDR non avrebbe potuto sussistere senza l’URSS, né economicamente né politicamente. E anche l’URSS, come ricorderete, presto crollò. Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’URSS vedeva la Germania come un unico paese e non intendeva lacerarla a metà. Ma ci furono le liti con gli alleati, fu creata la NATO, e alla fine andò in un altro modo”. Alla domanda: “si può direttamente affermare che Gorbačëv abbia tradito la DDR?”, Krenz non aggira la risposta: “Mi sono fidato di Gorbačëv per molto tempo, forse troppo a lungo”. Il 1 novembre 1989, sono stato a colloquio con il vostro segretario generale a Mosca per 4 ore ... Credevo a Gorbačëv, e invece, due settimane dopo, i rappresentanti sovietici stavano negoziando con l’Occidente alle nostre spalle. E chiedevano: quanto è disposto a pagare l’Occidente perché l’URSS accetti l’unificazione della Germania? È stato un brutto gioco finito male. Mi dica: è amicizia o tradimento? Sì, la DDR è stata tradita”.
Da molto tempo, già da prima della perestrojka, “i rapporti tra Honecker e Gorbačëv non andavano molto bene”. Oltre all’intenzione di “stabilire rapporti con la Cina”, cui il Cremlino era contrario, Honecker era convinto che “la perestrojka si sarebbe conclusa con un fallimento: è stupido cambiare il sistema politico e lasciare quello economico nello stesso stato”.
“Ho parlato con molti tedeschi dell’est e vedo delusione” dice l’intervistatore; “tutti nutrivano forti speranze che dopo l’unificazione sarebbe arrivato il paradiso. Ma, di recente ho visitato l’ex Karl-Marx-Stadt, ora Chemnitz: l’industria della DDR è stata liquidata; fabbriche completamente abbandonate. Disoccupazione; molti se ne sono andati a ovest”.
Beh, risponde Krenz, “nel 1990, il cancelliere Helmut Kohl disse: Una volta che la Germania sarà unita, i giardini fioriranno ovunque e nessuno starà peggio. Ma a est, milioni di persone hanno perso il lavoro. La maggior parte dei tedeschi orientali pensa di non avere più una patria. L’ordinamento della DDR era più umano in termini sociali. Tutti avevano un lavoro, istruzione gratuita, un buon stipendio. Prima, la DDR era terribilmente demonizzata, dopo 30 anni inizia a comparire un altro atteggiamento: si scopre che non era poi così male”.
“Sono giorni entusiasmanti per noi europei”, scriveva l’Unità del 11 novembre 1989, riferendosi a Berlino, Varsavia, Budapest, Sofia, definite melodrammaticamente “Le Bastiglie del 1989”. E se Stalin, congratulandosi con Wilhelm Pieck il 13 ottobre 1949, scriveva che “la fondazione della Repubblica democratica tedesca amante della pace rappresenta un punto di svolta nella storia d’Europa”, quarant’anni dopo, l’Unità auspicava per il PCI “un impegno comune con le forze del socialismo occidentale per costruire un nuovo ordine in Europa”, per “fare i conti non più soltanto con un modello politico che è franato, ma con un’epoca che si sta aprendo”.
Allora la si indovinava, quell’epoca. Oggi, purtroppo, la si conosce.
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