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01/12/2019

L’età dell’oro

Il 30 novembre 1930 fu proiettato per la prima volta a Parigi L’âge d’or (L’età dell’oro) di Luis Buñuel e Salvador Dalì. Il titolo, ironico, allude all’età terribile in cui tutti sono costretti a vivere nel mondo moderno, che non può davvero essere considerata Età dell’Oro e andrebbe chiamata, più propriamente, Età del Ferro. Si tratta del secondo film del regista spagnolo sceneggiato insieme a Salvador Dalí, come il precedente Un chien andalou (Un cane andaluso) del 1929.

Finanziato dal visconte Charles de Noailles, che rischiò di essere scomunicato per questo, fu proiettato per 6 giorni allo Studio 28 di Parigi. Poi il cinema fu attaccato da un gruppo di squadristi di destra che lo distrussero. Pochi giorni dopo, il prefetto Chiappe lo vietò e tutte le copie furono ritirate. Il film è sopravvissuto perché una copia fu nascosta dal visconte Charles de Noailles che, anni dopo, lo donò allo Stato. L’opera apparve di nuovo in pubblico solo nel 1950 a New York e nel 1951 a Parigi.

L‘âge d’or è una testimonianza esplicita del Manifesto del Surrealismo (per la precisione il cosiddetto “Secondo Manifesto del Surrealismo”) declinato nel linguaggio cinematografico. E al film collabora anche Max Ernst che, fra l’altro, interpreta il capo dei banditi.

Il montaggio – costruito sull’alternanza serrata di immagini nate da connessioni mentali e visive di Un cane andaluso – si stempera in una narrazione dall’apparenza scorrevole e lineare: l’opera, che non ha una vera e propria continuità, è comunque suddivisa in una specie di prologo, un corpo centrale e un epilogo.

Il film racconta la passione amorosa di un uomo (Gaston Modot) e di una donna (Lya Lys) il cui amore incontra continui ostacoli. Il rapporto violento e morboso dei due è l’allegoria narrativa e visiva della concezione dell’Amour fou teorizzata da André Breton: l’Eros nella sua dimensione istintuale, giudicato pura follia dai benpensanti, è invece l’essenza del rapporto fra gli esseri umani ed è la sola forza che può provocare il superamento del pessimismo e dell’isolamento dell’individuo. In accordo con questa teoria, Eros-Amore getta gli amanti l’uno nelle braccia dell’altra durante tutto il film. Ma dal momento che l’amour fou è un sentimento che non può essere accettato da chi finge di essere sano, i due amanti non potranno unirsi mai perché saranno sempre frustrati dagli altri.

Ecco i due amanti scambiarsi effusioni su una spiaggia spagnola, vicino al rifugio dei banditi, unici abitanti del luogo, mentre sugli scogli pregano e cantano misteriosamente alcuni vescovi, che un attimo dopo con un effetto di violenta allucinazione, diventeranno scheletri. All’improvviso arriva un gruppo di signori in cilindro e di abitanti di Maiorca che vogliono fondare una città sugli scogli: in questa situazione surreale capiamo che la città è Roma, il simbolo della civiltà. I nuovi venuti scoprono gli amanti. Il loro comportamento è uno scandalo, intollerabile per la costruzione di qualsiasi civiltà (come aveva sostenuto Freud). L’uomo viene arrestato e portato via, mentre la donna viene allontanata.

Dopo una serie di disavventure, l’uomo e la donna si ritrovano in una festa di aristocratici e tentano ancora di accoppiarsi, abbandonandosi a baci che sono atti di cannibalismo; ma vengono di nuovo scoperti e separati. La frustrazione che ne deriva spinge i due a comportamenti sessuali devianti, veri e propri atti di violenza.

A questo punto lo spettatore non si meraviglia che venga fatto un riferimento al Marchese de Sade e al sadismo, che sarà il motivo conduttore della parte finale del film: nell’epilogo del film compare infatti, misteriosamente, il lugubre castello in cui sono commessi i delitti orribili descritti da Sade nelle 120 giornate di Sodoma e vediamo apparire il dissoluto duca di Blengis, protagonista delle 120 giornate, il quale in realtà ha la veste e il volto di Gesù Cristo. La scena finale rappresenta il rogo della Croce, alla quale sono appesi scalpi femminili e reliquie delle vittime dell’intolleranza.

Il film contiene in nuce tutti i temi tipici di Buñuel a cominciare dall’attacco alle istituzioni. La Chiesa, l’Esercito e lo Stato, sono considerati la negazione della natura e la fonte non solo della frustrazione, ma anche della violenza e della rabbia cieca che si impadronisce di chi è frustrato. Emblema di questo principio è il protagonista del film, che non potendo scaricare le proprie pulsioni le trasforma in aggressività pura, prendendo a calci un cane, picchiando un cieco e schiaffeggiando una nobildonna durante la festa degli aristocratici. Preoccupati più dal decoro sociale che dalla realtà che li circonda, i nobili dell’età d’oro sono profondamente scossi da quello schiaffo, mentre appaiono del tutto estranei all’incendio che scoppia nella cucina durante i festeggiamenti e all’omicidio di un bambino nel cortile.

Il film è una specie di pamphlet per immagini contro le colonne portanti della borghesia capitalista e dell’aristocrazia (appunto la Chiesa, lo Stato, l’Esercito) e a favore della forza sovversiva del desiderio, attraverso una ridda di immagini fondate sull’esasperazione, sulla provocazione, sull’assurdo.

A scatenare le ire dei borghesi e degli squadristi non fu comunque l’esaltazione dell’erotismo, sempre frustrato, ma piuttosto la raffigurazione dissacrante delle istituzioni, che tocca il vertice nell’immagine degna dell’Apocalisse dei vescovi ridotti a scheletri inchiodati sugli scogli. L’estrema destra riconobbe con chiarezza, anche se in chiave negativa, la violenza sovversiva dell’opera ma anche se cercò di reprimerla non riuscì a impedirle di manifestarsi ancora, attraverso la lunga carriera di Buñuel.

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