di Giovanni Carnazza
In un’Europa flagellata dal Covid-19 è in atto un braccio
di ferro sugli strumenti finanziari da adottare per sostenere gli Stati
membri, e in particolare sulla possibilità di emettere titoli garantiti
da tutta l’Eurozona. L’Italia è al centro della contesa. La posta in
gioco è la sopravvivenza dell’Unione.
All’emergenza sanitaria legata alla diffusione della pandemia di
Covid-19 fa seguito quella economica, un’emergenza che di fatto stiamo
già vivendo e che affonda le radici non in un tessuto finanziario malato
o negli umori instabili degli operatori circa la tenuta dei conti
pubblici, ma nel terreno fertile e precario dell’economia reale. E, come
spesso si tende a scordare nell’eterna contrapposizione fra teorie
economiche ortodosse ed eterodosse, tale emergenza interessa entrambi i
lati del mercato: c’è bisogno di sostenere la domanda, è vero, ma è
altresì importante alimentare un tessuto produttivo che rischia
inevitabilmente la rottura[1].
È in relazione alle preoccupazioni sulla tenuta di quest’ultimo lato
del mercato che si inserisce (e colpisce) l’intervento di Mario Draghi
sulle colonne del Financial Times, il quale individua nel
debito pubblico il principale strumento su cui ogni Governo deve fare
leva per impedire il collasso del proprio sistema economico[2].
In particolare, il principale meccanismo di salvataggio, secondo l’ex
Presidente della Banca Centrale Europea, deve passare attraverso la
rapida concessione di credito a costo zero alle imprese da parte del
settore bancario; una volta finita l’emergenza, sarà lo Stato a farsi
carico di questa operazione, cancellando il debito contratto dal
bilancio delle aziende.
Non sembra sia un caso che l’intervento di Draghi sia arrivato
insieme a una svolta storica da parte della Bce di Christine Lagarde:
all’interno del nuovo programma straordinario di 750 miliardi di euro (Pepp – Pandemic emergency purchase programme),
la Bce potrà acquistare senza limiti titoli di Stato, compresi
(finalmente) quelli della Grecia, e bond emessi da enti internazionali e
sovranazionali. Cade, dunque, uno dei pilastri su cui si fondava il Quantitative Easing (Qe),
ossia il limite del 33% per l’acquisto di titoli di Stato e del 50% per
i titoli sovranazionali. Non solo: questi acquisti straordinari, che
dureranno almeno fino alla fine dell’anno, potranno spaziare su titoli e
attività con durata da 70 giorni a 30 anni, così da tenere sotto
controllo l’intera curva dei rendimenti.
La rimozione di questi vincoli ha più che altro un significato
simbolico, data la probabile ingente futura emissione di titoli di
debito a cui molti paesi dell’Eurozona dovranno ricorrere per far fronte
all’emergenza (in altre parole, se in passato questi limiti sono stati
sfiorati per alcuni paesi con il conseguente rischio di depotenziamento
del Qe, il prevedibile aumento delle emissioni avrebbe potuto
rendere nell’immediato meno pressante la loro rimozione): Christine
Lagarde, che finalmente sembra aver raccolto il pesante testimone
lasciato da Draghi, non vede ora limiti al suo impegno per la tenuta
dell’euro. In questo quadro, quello che sembra un cavillo contabile, in
realtà, rappresenta un segnale politico significativo: non dover
rispettare un limite prestabilito significa che, teoricamente, nel caso
di un’emissione di eurobond (Coronabond o Covidbond, come vengono ora
definiti da più parti), la Bce potrà sottoscriverne l’intero importo.
Il dibattito sulla possibilità di emettere titoli garantiti da tutta
l’Eurozona e finalizzati a sostenere l’emergenza economica che sta
interessando tutti è partito da un intervento del Presidente del
Consiglio italiano, Giuseppe Conte, sempre sulle colonne del Financial Times in
cui esortava i paesi membri a utilizzare i restanti 410 miliardi (la
dotazione iniziale era di 500 miliardi) a disposizione del cosiddetto
Fondo Salva-Stati (Esm-European stability mechanism), evitando però di sottoscrivere le rigide misure di condizionalità richieste dall’attuale Trattato[3].
Intorno a tale intervento si è presto creato uno schieramento compatto
di altri paesi (Francia, Spagna, Belgio, Lussemburgo, Irlanda, Grecia,
Portogallo e Slovenia) che chiedono a gran voce l’emissione da parte di
un’istituzione europea (la Banca europea per gli investimenti
rappresenta un’altra possibilità) di uno strumento di debito comune per
far fronte al drammatico impatto del coronavirus sull’economia.
All’interno di questo ragionamento, avendo la crisi origini sanitarie
e non finanziarie e/o economiche, nessun paese dovrebbe sottostare a
particolari condizioni economiche. D’altro canto, come hanno di recente
sottolineato – finalmente – economisti storicamente ortodossi come
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi in relazione all’opportunità di un
intervento diretto da parte del Fondo Salva-Stati, la Bce può sì
spegnere gli incendi ma non può da sola dare una risposta completa ed
equa a un enorme shock che colpisce tutta l’Eurozona (e non solo).
Sembra essersi, dunque, fatto strada anche nei corridoi mainstream
il riconoscimento dell’opportunità di una manovra fiscale coraggiosa a
livello europeo, lontana dall’annuale valzer in cui paesi come l’Italia
sono costretti a contrattare limitati (per non dire insufficienti) spazi
di bilancio. D’altro canto, come già metteva in luce Mundell nel 1961,
un’area valutaria per poter essere ottimale deve rispettare alcune
condizioni: non soltanto vi è la necessità di redistribuire il reddito
tra i paesi membri nel caso in cui questi vadano incontro a fasi del
ciclo economico diverse ma, nel caso di uno shock esogeno comune, si dovrebbe anche implementare una risposta fiscale coordinata e comune con un’equa ripartizione dei costi[4].
In ogni caso, l’eventuale emissione di Coronabond non è priva di
rischi: per quei paesi che già scontano significative pressioni al
rialzo dei tassi di interesse nelle fasi più tumultuose (si pensi
all’Italia e alla sua enorme mole di debito pubblico), questi nuovi
strumenti finanziari sarebbero a rimborso privilegiato rispetto ai
titoli di stato nazionali, il che renderebbe questi ultimi
inevitabilmente più rischiosi e, di conseguenza, costosi per il paese
emittente. L’idea di una loro potenzialità irredimibilità, ossia
emissione senza obbligo di rimborso ma soltanto subordinata al pagamento
di un interesse annuo, è stata da più parti avanzata; e il riferimento
al ruolo della Bce che potrebbe assorbire interamente le relative
emissioni appare scontato.
In quest’ottica, la successiva immissione di liquidità non è vista
foriera di spinte inflazionistiche data la grave recessione alle porte.
D’altro canto, va detto che la maggior parte delle manovre di bilancio
pensate e varate ultimamente, così come gli eventuali Coronabond, non è
inflazionistica per il semplice motivo che gli Stati non creano domanda
aggiuntiva ma impiegano tali risorse per tamponare l’emergenza.
Sembra ormai chiara l’esigenza di una svolta politica ed economica a
livello europeo. L’attivazione della clausola di sospensione del Patto
di Stabilità e Crescita introdotta come parte del Six-Pack nel 2011
rappresenta una misura necessaria, insieme alla sospensione della rigida
disciplina sugli aiuti di Stato, ma purtroppo insufficiente. La
clausola prevede, infatti, che, in periodi di severa recessione per
l’Unione Europea e la zona euro, gli Stati possano temporaneamente
allontanarsi dall’aggiustamento del saldo di bilancio verso l’obiettivo
di medio termine, posto, tuttavia, che ciò non metta a rischio la
sostenibilità del bilancio nel medio termine.
Si introduce, dunque, la possibilità di sforamenti di bilancio
rispetto a quanto concordato, senza però prevedere coraggiosi piani di
sostegno al progressivo collasso del sistema produttivo a cui stiamo
assistendo. I Paesi del Nord Europa, che hanno in passato insistito per
avere diritto di veto all’interno del Fondo Salva-Stati, ritengono gli
spazi di azione consentiti dall’alleggerimento dei vincoli di bilancio
sufficienti a contrastare la crisi in atto. Ai loro occhi, in primis
a quelli dell’Olanda, capofila della resistenza a un’eventuale
emissione di debito comune, dell’Austria e della Finlandia (la posizione
della Germania appare lievemente più flessibile), i Coronabond
rappresentano un primo passo attraverso il quale i Paesi del Sud
vogliono mutualizzare parte del loro debito invece di ridurre la spesa
pubblica e aumentare il prelievo.
La sensazione è che i Paesi del Nord non cederanno di un millimetro
rispetto alle loro forti resistenze: sottostare alla condizionalità
degli eventuali interventi di sostegno appare oggi la condizione
necessaria per l’accesso ai fondi del Fondo Salva-Stati o, in ogni caso,
per l’implementazione di politiche di bilancio comuni in modo da
salvaguardare la sostenibilità dei debiti pubblici nazionali. In altre
parole, si invoca la firma di un Memorandum of understanding
che rievoca lo scenario tragico della Grecia durante la Crisi dei Debiti
Sovrani. Se così fosse, ben farebbe l’Italia ad andare avanti per la
sua strada, varando le manovre che ritiene opportune per sostenere il
proprio sistema economico. La speranza è che l’Europa non ceda ai propri
fantasmi e faccia un passo in avanti nella costruzione di un’Europa
federale piuttosto che un passo indietro che rischia di mettere in
discussione la sua stessa esistenza.
Note
[1] Giovanni Carnazza ed Emilio Carnevali, “Dobbiamo prepararci a un’economia di guerra?”, Sbilanciamoci.info, 20 marzo 2020.
[2] Mario Draghi, Financial Times, 25 marzo 2020.
[3] Giuseppe Conte, Financial Times, 19 marzo 2020.
[4] Robert A. Mundell, “A Theory of Optimal Currency Area”, The American Economic Review, 1961.
Fonte
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