di Ingar Solti
Negli Stati Uniti annunciano la maggiore manovra economica dal
dopoguerra. In Europa viene sospeso il Patto di stabilità. Ma c'è il
rischio che tutto ciò serva di nuovo a rafforzare i profitti
La crisi finanziaria del 2007-2008 – che è poi
diventata un crollo globale e avrebbe dovuto essere la crisi del big
bang – doveva essere un evento irripetibile. Eppure eccoci di nuovo qui.
La scorsa settimana, economisti mainstream di Harvard come Kenneth Rogoff e Pankaj Mishra erano convinti che il mondo fosse già entrato in una nuova crisi economica globale.
Interrompendo in modo massiccio le catene di approvvigionamento
internazionali, la globalizzazione del Covid-19 ha chiaramente
accelerato la recessione. Bisogna sottolineare la parola «accelerato».
Già alla fine del 2019 gli indicatori – dalla crescita del Pil alla
redditività del capitale fino al volume delle ore di lavoro – indicavano
che stava arrivando la recessione. In Germania lo scorso anno c’è stata
la crescita più bassa dal 2009. I licenziamenti di massa nell’industria
automobilistica globale non erano più solo risultati
dell’automatizzazione o della transizione alla mobilità elettrica, erano
collegati a un più ampio crollo dell’attività economica.
La chiusura a causa del Coronavirus ha fatto capire che il mondo è
tornato nel tipo di situazione che ha dovuto affrontare nel 2008. Nella
seconda settimana di marzo, i mercati azionari sono crollati: dal 4 al 18 marzo, l’indice Dow Jones è sceso da 27.091 a 19.899 punti e il Dax tedesco da 12.128 a 8.442. Mentre economisti pro-labour
come Stephan Kaufmann hanno chiesto la chiusura delle borse per
arrestare la volatilità e la spirale al ribasso indotta dal panico
(simile alla crisi asiatica del 1997 o allo schianto dell’11 settembre
2001), Wall Street ha richiesto subito «iniezioni shock» per arrestare l’impatto economico.
Proprio come dopo la crisi finanziaria globale del 2008, quando ci furono
grandi lotte per gli effetti sociali della crisi, lo stesso è
prevedibile per gli anni a venire. Le soluzioni, inoltre, dovranno tenere conto delle crisi
che riguardano l’economia, la riproduzione sociale, la coesione
sociale, la democrazia, l’ordine mondiale e il clima. Quindi cosa
succederà dipende molto dalla capacità dei movimenti dei lavoratori in tutto il
mondo di trasformare questa crisi in un’opportunità di
radicali cambiamenti sociali ed ecologici.
Come ogni crisi del capitalismo grande e organica, quella attuale
presenta molti pericoli e non è solo un’«opportunità». La borghesia si è
dimostrata in grado di usare la crisi del 2008 per rafforzare il
neoliberismo – non solo spogliando lo Stato, ma usandolo per
incrementare il proprio potere. La breve rinascita keynesiana del
2008-2009 venne sostituita da una svolta di austerità quasi globale,
spostando ulteriormente i rapporti di forza tra capitale e lavoro a
favore del capitale.
Tornando al 2020, l’interruzione delle catene di approvvigionamento
internazionali a causa del parziale blocco produttivo in Cina ha già creato gravi problemi
nella sfera industriale, data la vulnerabilità della produzione
just-in-time agli shock esterni. Le aziende del settore logistico del
capitalismo globale sono entrate in una crisi profonda: il trasporto
marittimo e le compagnie aeree sono sull’orlo della bancarotta e hanno
già richiesto salvataggi statali. La chiusura a causa del Coronavirus
sta spingendo verso il fallimento anche le società di vendita al
dettaglio e commerciali. Stefan Genth, Ceo della Federal Retail
Association tedesca, fa sapere
di aver calcolato le perdite causate dalla chiusura del settore in 1,15
miliardi di euro. Ha annunciato un’ondata di fallimenti entro le
prossime quattro settimane, in particolare nel settore tessile e dei
beni commerciali durevoli.
La domanda, quindi, è chi pagherà questa crisi: se assisteremo al
salvataggio della classe operaia o a quello di industrie e società
finanziarie in difficoltà. All’indomani della crisi finanziaria globale
del 2007-2008, divenne chiaro che sarebbero stati i lavoratori a pagare, sotto
forma di austerità. I costi economici della crisi avevano assunto la
forma di «svalutazione interna», tagliando costi e salari in nome della
«competitività». In molti luoghi di lavoro, ciò ha comportato la revisione degli
accordi di contrattazione collettiva e dei salari minimi, nonché tagli
alle pensioni pubbliche, alle prestazioni sociali, all’istruzione
pubblica e alle prestazioni sanitarie. Ciò ha implicato anche la
riduzione del numero di letti di terapia intensiva negli ospedali
pubblici, cosa che stiamo pagando mentre si sviluppa la crisi Covid-19
con migliaia di persone vulnerabili e anziane che muoiono.
Misure di stimolo, ma di che tipo?
Come hanno risposto i governi finora? Temendo, come il governo degli Stati Uniti, che la disoccupazione salirà alle stelle fino al 20% – e con l’Organizzazione internazionale del lavoro che avverte che la disoccupazione globale aumenterà di altri 24,7 milioni
– i governi hanno risposto rapidamente con misure di salvataggio.
Proprio come nel 2008, molti a sinistra hanno accolto con favore queste
azioni per porre fine al neoliberismo, semplicemente perché le regole
sul «pareggio di bilancio» sono state messe da parte.
Il solo fatto che gli Stati stiano muovendo denaro per fronteggiare
la crisi non significa che il neoliberismo sia finito. Nel 2008, l’Economist
ha affermato che durante la crisi non bisogna essere «spilorci», ma a
questa dovrebbe seguire una rigorosa austerità una volta che la crisi «sarà
finita». In altre parole, prima lo Stato dovrebbe socializzare le
perdite, poi si tratterebbe di far pagare la classe
lavoratrice per il debito delle imprese e i salvataggi bancari.
Finora, le risposte degli Stati alla crisi attuale hanno ampiamente
seguito il modello del 2008. L’azione dello Stato è stata
particolarmente rapida nella politica monetaria. Di solito, ciò ha
implicato abbassare i tassi di interesse al fine di stimolare gli
investimenti e la crescita, in base alla saggezza neoliberista che i
capitalisti investiranno finché il denaro avrà bassi tassi d’interesse e
la liquidità verrà preservata. Da qui la serie di misure di quantitative easing. Tuttavia, gli Stati non si limitano a seguire il modello del 2008, ma utilizzano meccanismi specifici derivanti da quella crisi.
Lo vediamo nel meccanismo implementato dalla Federal
Reserve, che ora può elargire direttamente prestiti alle imprese capitaliste.
Nel 2008, la Fed ha abbassato i tassi di interesse vicini allo zero per
stimolare l’attività economica. Tuttavia, sulla base delle stime razionali del
rischio di prestito a fronte di crescita stagnante, bassa redditività e
volatilità economica, le banche commerciali non hanno trasmesso questi bassi
tassi di interesse alle imprese, provocando una stretta creditizia e una crisi
di liquidità. Per evitare che ciò accada ancora, il nuovo sistema elude le
banche commerciali.
Ma un meccanismo simile, con la Fed che dispone di linee di credito
dirette verso le imprese, ha anche un forte orientamento di classe.
Fornisce denaro a basso costo per le grandi imprese, mentre le linee di
credito si bloccano per i lavoratori, i lavoratori autonomi e i
proprietari di piccole imprese che devono ancora cercare credito dalle
banche commerciali avverse al rischio. In altre parole, la Fed sta
perseguendo una politica di salvataggio per Wall Street a spese di Main
Street. E questo salvataggio, risuonato in Gran Bretagna
con un programma di garanzie di prestito di 300 miliardi di sterline
per le imprese, è costoso. Il volume di questa massa di prestiti della
Federal Reserve è stimato tra 700 miliardi e 1,5 trilioni di dollari.
Inoltre, il segretario al tesoro Steve Mnuchin, ex gestore di hedge fund di Wall Street e noto come il «re dei pignoramenti»,
ha annunciato il 17 marzo che il governo degli Stati Uniti avrebbe
ripristinato il Primary Dealer Credit Facility (Pdcf). Prima di lui,
Earlier, gli ex capi della Fed Ben Bernanke e Janet Yellen hanno unito
le forze in un editoriale pubblicato sul Financial Times
e sollecitato l’amministrazione Trump e il presidente della Fed Jerome
Powell a proseguire tale azione. Nel 2008, il Pdcf ha visto il governo
acquistare beni tossici da banche di investimento private e a scopo di
lucro, che i banchieri di Wall Street hanno imparato ad apprezzare sotto
la formula «Soldi in cambio di spazzatura».
Questa volta, Bernanke e Yellen hanno sostenuto che lo Stato dovrebbe acquistare «debiti societari classificati come investment grade»
al fine di «aiutare a far ripartire la parte del mercato del debito
societario sottoposta a tensioni rilevanti». Nel 2008, il governo ha
sostenuto che tali acquisizioni fossero prestiti temporanei. I beni
dovevano essere restituiti alle aziende di Wall Street una volta passata
la buriana. L’argomento era che questi prestiti, emessi per un
ammontare di 8,95 trilioni di dollari, avrebbero favorito i lavoratori e
le compagnie americane.
Tuttavia, in realtà, almeno il 64% di quella somma (5,7 trilioni di dollari) è andato alle maggiori banche di Wall Street,
come Citigroup, Morgan Stanley e Merrill Lynch, che avevano sfruttato
le deregolamentazioni finanziarie per operazioni ad alto rischio e per
il trading di derivati, per poi ricattare lo Stato chiedendo salvataggi
bancari in quanto «Too big to fail». La maggior parte del denaro è stato utilizzato non per stimolare, ma piuttosto per aumentare
la centralizzazione e la concentrazione del capitale attraverso fusioni
e acquisizioni di banche più piccole, nonché
pagamenti di bonus che giustamente oltraggiano il pubblico.
Gli economisti neoclassici e i liberali di destra – come Ron «Basta
con la Fed» Paul – suggerirono che queste banche dovevano essere
lasciate morire. Ma erano davvero diventate «troppo grandi per fallire» –
e lasciarle crollare avrebbe provocato un tracollo finanziario con
conseguenze orribili. Tuttavia, le azioni dello Stato hanno aiutato le
banche a diventare ancora più grandi, garantendo che, dopo questo
ricatto riuscito, da ora in poi avrebbero potuto contare su futuri
salvataggi. Qui, vediamo che le banche che sono «troppo grandi per
fallire» sono anche «troppo grandi per essere privatizzate». L’attuale
crisi dimostra in modo sorprendente che se queste banche fossero state
pubbliche avrebbero consentito agli Stati di dirigere gli investimenti
verso finalità di pubblico interesse, ad esempio finanziando conversioni industriali e trasformazioni socio-ecologiche.
Ora, l’amministrazione Trump ha presentato un pacchetto di 1 trilione
di dollari, oltre 200 miliardi in più rispetto all’American Recovery
and Reinvestment Act del gennaio 2009 che era stato il più grande piano
di investimenti nella storia degli Stati Uniti dal dopoguerra. Allo
stesso modo, il governo tedesco ha annunciato che avvierà un programma di investimenti
fino a 500 miliardi di euro attraverso la sua banca statale KfW. La
Banca centrale europea (Bce) ha annunciato il 19 marzo che comprerà titoli sul mercato
per un valore di 750 miliardi di euro entro la fine del 2020 alla fine
di fermare il tracollo finanziario – anzi, investendo «quante (risorse)
richieste, per tutto il tempo necessario». Christine Lagarde, presidente
della Bce, ha aggiunto su Twitter:
«Tempi straordinari chiedono attenzione straordinaria. Non ci sono
limiti al nostro impegno nei confronti dell’euro. Siamo concentrati a
mettere in campo tutto il potenziale dei nostri strumenti». I bei vecchi
tempi dell’immissione di titoli tossici nei bilanci delle banche
centrali sono tornati.
In generale, nel 2008 e di nuovo nel 2020, il mondo ha imparato la
lezione della Grande Depressione. All’epoca l’amministrazione Hoover
negli Stati Uniti, come il gabinetto di Heinrich Brüning in Germania,
avevano risposto al crollo globalizzato di Wall Street implementando
dure misure di austerità. Questo simultaneo taglio degli investimenti
sia privati chesia pubblici provocò una spirale deflazionistica al
ribasso che portò a licenziamenti di massa, seguiti da un’ulteriore
riduzione della domanda aggregata, cui seguirono ulteriori licenziamenti
di massa, con la disoccupazione negli Stati uniti che colpì il 24,9%
della popolazione nel 1933. Come diceva il titolo del romanzo di John
Fante, il 1933 fu Un anno terribile: l’austerità eliminò la
maggior parte dei governi liberali al di fuori degli Stati Uniti e della
Gran Bretagna e portò Hitler al potere. Ma se la lezione di non
tagliare la spesa pubblica al momento della crisi è ormai appresa, ciò
lascia aperte le domande su come vengono spesi i soldi e chi ne trarrà
beneficio.
L’amministrazione Trump ha finora rivelato solo alcune cose contenute
nel suo programma di investimenti. Prevede di includere un salvataggio
di 50 miliardi di dollari del settore aereo in sofferenza e ulteriori
150 miliardi in prestiti garantiti ad altre industrie in difficoltà,
nonché tagli fiscali per le grandi imprese. Inoltre, a partire da
aprile, il governo degli Stati Uniti intende emettere pagamenti diretti
alle famiglie americane, nonché prestiti destinati ai datori di lavoro
con meno di cinquecento lavoratori per coprire sei settimane dei costi
del personale, purché garantiscano di non licenziare nessuno per otto
settimane.
Gli obiettivi specifici di tali pacchetti sono decisivi in
termini di effetti sugli standard di vita della classe operaia e, in effetti,
sul clima. Come ho già sostenuto, il pacchetto di stimolo di Obama del 2009 era
caratterizzato da tre principali contraddizioni che lo distinguevano dalle
misure keynesiane progressiste come quelle perseguite dal New Deal di
Roosevelt, a cui pure spesso veniva paragonato.
In generale, nonostante i proclami dell’amministrazione Obama di una
svolta verso il capitalismo verde e una «economia post-bolla», non fu
affatto green (solo il 3,5% del totale di 787 miliardi di
dollari è stato speso in ricerca e sviluppo nelle tecnologie verdi).
Inoltre, non era abbastanza ambizioso (dato che si è limitato a prevenire il
tracollo finanziario e la conseguente esplosione della disoccupazione
di massa ai livelli degli anni '30, ma non ha assicurato che la
«ripresa» evitasse il dilagare del contagio di lavori «part-time / a basso salario»).
Questo pacchetto differiva fortemente dalle politiche di Roosevelt
perché non conteneva programmi pubblici di occupazione per i
disoccupati. Aveva una grande componente di riduzioni fiscali per il
capitale, basata sull’ideologia neoliberista imperfetta secondo cui
tagliare le tasse per il capitale e i ricchi porta a investimenti,
occupazione e prosperità.
I limiti della politica monetaria
Insomma, dove ci porterà la crisi questa volta? Da molti punti di
vista, il capitalismo globale è in condizioni peggiori rispetto alla
crisi finanziaria del 2008. Le catene di approvvigionamento
internazionali sono crollate. Se la crisi finanziaria globale aveva
sottolineato le inefficienze dei mercati finanziari liberalizzati,
questa volta, grazie a Covid-19, la crisi sta sottolineando le
inefficienze del capitalismo globale caratterizzato da catene del valore
transnazionali. La produzione just-in-time significa che le
industrie di tutto il mondo trovano sempre più difficile gestire i
propri cicli produttivi transnazionalizzati. Presumibilmente, in un
paese come il Sud Africa, anche gli stuzzicadenti – precedentemente
importati dalla Cina – si stanno esaurendo. La domanda è: come si
sostituiscono le forniture in tali condizioni di volatilità
internazionale?
La crisi del 2007-2008 ha colpito i mercati finanziari, per poi
passare al settore manifatturiero e alla fine ha colpito duramente anche
i lavoratori. Ciò che rende la crisi più grave questa volta è che sta
colpendo le catene internazionali di fornitura – che hanno già subito un
colpo a causa del tentativo di Donald Trump di tagliare la Cina dalle
catene di approvvigionamento internazionali ad alta tecnologia (in
particolare nei microchip utilizzati nella comunicazione mobile 5G ) – e
la forza-lavoro a esse collegata. Colpisce anche i sistemi sanitari
nazionali, anch’essi resi vulnerabili dalle catene transnazionalizzate.
Inoltre, la crisi sta colpendo le società la cui ripresa economica in
gran parte si era basata sulla diffusione di posti di lavoro precari e
con bassi salari. Ad esempio, negli Stati Uniti, la Fed ha stimato
che mentre il 21% di tutti i posti di lavoro persi durante la crisi
globale erano nel settore dei salari bassi, il 59% di tutti i lavori di
nuova creazione sono a basso salario.
Questo spiega perché negli Stati Uniti il numero di
laureati tra i lavoratori a tempo pieno nel settore del fast food ha superato i
tre quarti di milione. Queste aziende del settore a basso salario stanno esacerbando
la diffusione di Covid-19, nella misura in cui si sono rifiutati di pagare la
retribuzione per i loro lavoratori, costringendoli ad andare al lavoro. Le più
grandi «aziende
che mettono i profitti davanti alla salute pubblica» comprendono
McDonald’s, con 517 mila lavoratori, Walmart (347 mila), Kroger (189 mila),
Subway (180 mila) e Burger King (165 mila).
Tutto ciò si verifica in una situazione in cui, secondo un rapporto della Fed del maggio 2019,
il 40% degli statunitensi non poteva sostenere una spesa di emergenza
di 400 dollari senza prendere in prestito denaro – in altre parole,
quasi la metà della popolazione è a un passo dall’essere senzatetto.
Questa crisi minaccia la bancarotta per milioni di famiglie di
lavoratori a basso reddito.
Lo stesso destino attende milioni di lavoratori autonomi e
liberi professionisti, che essenzialmente avranno entrate pari a zero nei
prossimi mesi di chiusura. Finora, sembra che solo pochi paesi, come Svezia,
Norvegia e Italia, abbiano legiferato un sostegno minimo a questi gruppi
vulnerabili di lavoratori; in Svezia, ad esempio, i lavoratori autonomi e
quelli che lavorano a progetto possono ricevere un
sussidio per malattia finanziato dal governo, sebbene per soli quattordici
giorni.
Tutto ciò rende la nuova crisi potenzialmente molto peggiore del
2008, dato che il mondo sta affrontando una tripla crisi del debito che
colpisce contemporaneamente il settore privato, le famiglie e gli Stati.
Allo stesso tempo, i meccanismi e le risorse statali per la gestione
della crisi del capitalismo si sono andati riducendo. Innanzitutto, il quantitative easing
ha sempre avuto dei limiti come strumento per stimolare investimenti,
crescita e occupazione. Mentre ai sensi della regolamentazione
keynesiana le banche centrali dovevano ancora salvaguardare la piena
occupazione, la politica monetaria neoliberista è stata orientata a
contenere l’inflazione e garantire la stabilità del valore del denaro.
Ridurre i tassi di interesse delle banche centrali è stato un mezzo di
ultima istanza per stimolare la crescita.
Il fatto che i tassi di interesse pari allo zero per cento (e
inferiori) abbiano scarso effetto sugli investimenti, sull’occupazione e
sulla crescita mette in evidenza la debolezza delle banche centrali.
Come sottolinea
Jeff Spross: «La banca centrale può impedire che il sistema finanziario
salti, il che è sicuramente una buona cosa. Ma può fare poco per il
sostentamento delle persone. Non solo è una situazione irritante e
ingiusta, ma, come tutte le strategie trickle-down, ha
un’importanza economica decisamente limitata». Finché la redditività del
capitale globale è bassa come lo è oggi – in altre parole, finché il
capitale è eccessivamente accumulato, come lo è oggi, e finché i
lavoratori non possono far salire la domanda a causa dell’incapacità di
fare crescere i salari – gli investimenti di capitale non avranno luogo,
indipendentemente da quanto siano bassi i tassi di interesse. Il nuovo
meccanismo della Fed della linea di credito diretta per le grandi
imprese non cambierà la situazione.
In secondo luogo, l’ascesa dell’autoritarismo di destra in tutto il
mondo e quattro anni di bilateralismo di Trump hanno gravemente
danneggiato le istituzioni multilaterali, la fiducia nella cooperazione è
stata sostituita dal passaggio all’unilateralismo e al nazionalismo a
somma zero. La svolta dell’austerità competitiva globale ha creato un
nuovo capitalismo globale in cui gli Stati hanno cercato di impadronirsi
di un pezzo più grande della torta a spese dirette degli altri.
Le istituzioni che la sinistra ha giustamente criticato per decenni
(come G2, G8 e G20) adesso potrebbero facilitare un coordinamento
globale dei programmi nazionali di stimolo, ma sono in crisi. Tale
coordinamento è tuttavia un presupposto per un’efficace gestione globale
delle crisi. Poiché le idee sull’aumento del debito pubblico al fine di
inviare assegni ai lavoratori sono problematiche dal punto di vista dei
governi nazionali se ciò significa, ad esempio, che i lavoratori
americani finiscono per acquistare prodotti non americani – cinesi o di
altro tipo – aumentando l’attività economica e l’occupazione al di fuori
degli Stati Uuniti. In breve, è possibile che i meccanismi di gestione
delle crisi durante la crisi finanziaria globale si siano ampiamente
esauriti.
Nell’Unione Europea, il nazionalismo in ripresa ha messo a dura prova
la solidarietà: si può vedere, ad esempio, in Germania che all’inizio ha fermato l’esportazione
di forniture mediche (già pagate) sia in Italia che in Austria. I
limiti di questa solidarietà sono stati visibili quando Angela Merkel ha
balenato l’idea degli Eurobond (affettuosamente conosciuti come
«Corona-bond») prima di opporsi ad essi, e quando il capo della Bce
Christine Lagarde ha inizialmente ipotizzato
che l’Italia avrebbe potuto lasciare l’Eurozona invece di ricevere
appoggio dalla Bce mediante acquisizioni di titoli di Stato.
Nel frattempo, gli Stati membri dell’Ue stanno lasciando morire i
rifugiati di guerra nei campi pericolosamente sovrappopolati delle isole
greche.
Il fatto che siano stati Cina, Cuba e Venezuela
a venire in aiuto dell’Italia – con medici, medicine, respiratori,
maschere e tutti i tipi di forniture – si aggiunge alla crisi della
solidarietà europea e della sua superiorità morale nei confronti del
resto del mondo. L’Fmi, tuttavia, ha pensato di ringraziare il Venezuela
per il suo sostegno all’Italia negandole un prestito di emergenza
di 5 miliardi di dollari necessari proprio per combattere il
Coronavirus e sostenendo «la mancanza di certezza sulla legittimità del
governo del presidente Nicolas Maduro».
Un’opportunità per la trasformazione
Data la profondità della crisi, non sorprende che gli Stati giochino
il loro «all in». E che alcune delle posizioni possano sembrare
sorprendenti, soprattutto quando provengono da politici di destra.
Quando il ministro tedesco per l’economia cristiano-democratico, Peter
Altmaier, ha annunciato che stava prendendo in considerazione le
nazionalizzazioni, ha suscitato molta sorpresa e feedback positivi a
sinistra. Su Twitter, il presidente della gioventù socialdemocratica
Kevin Kühnert, che la scorsa estate aveva dichiarato di sperare di
nazionalizzare la Bmw e altre società transnazionali, ha risposto
che «bisognerebbe sicuramente discutere del nostro modello di economia e
di come lavoriamo». Tuttavia, ha aggiunto, che questo non è «il momento
degli ululati di trionfo. Esclamare ora ‘l’avevo detto’ sarebbe segno
di mentalità ristretta».
La questione delle nazionalizzazioni è ovviamente tornata all’ordine del giorno, anche nell’agenda degli economisti tradizionali.
Ma ci sono nazionalizzazioni e nazionalizzazioni. A ben guardare,
interventi del genere sono abbastanza comuni come misure statali per
proteggere le imprese ogni volta che il capitalismo è in crisi. Non sono
queste le nazionalizzazioni che i socialisti propongono (basate sulla
gestione dell’economia per il bene pubblico, non sui profitti), per non
parlare delle socializzazioni per democratizzare l’economia. Queste
nazionalizzazioni seguono il solito schema del capitalismo:
«Socializzare le perdite, privatizzare i (guadagni come i) profitti».
L’idea alla base di tali nazionalizzazioni è che, con i suoi «fondi
illimitati» (ricavati da fondi pensione pubblici e tassando ciò che i
lavoratori portano a casa con i salari), lo Stato fornisce garanzie,
progettate per impedire agli investitori di capitale di ritirarsi dagli
investimenti durante i crolli del mercato azionario come quelli che
abbiamo appena vissuto. L’obiettivo è stabilizzare le società sui
mercati finanziari in modo che non entrino in crisi di liquidità,
seguite da licenziamenti di massa, poi da una riduzione della domanda
aggregata, poi da una contrazione degli investimenti, seguita ancora da
licenziamenti.
Come riconosce l’economista tedesco Jens Suedekum, il crollo delle entrate mette le aziende davanti alla prospettiva del fallimento,
ed è solo in questo momento specifico che le nazionalizzazioni entrano
in gioco come ultima risorsa. Inoltre, nel caso di Altmaier, questi
suggerimenti sono parte integrante della nuova strategia industriale
della Commissione tedesca e dell’Ue – fortemente intrecciata con la
militarizzazione dell’Ue – di creare «campioni» nazionali (o europei) in
grado di sfidare la Cina emergente e iper-competitiva.
Abbiamo visto questo tipo di nazionalizzazione nella crisi
finanziaria globale, dopo il 2007. I governi le hanno usate strettamente
a favore delle imprese e non dei lavoratori. Solo un esempio: nel 2009,
due delle tre grandi case automobilistiche degli Stati Uniti erano
essenzialmente nazionalizzate perché in difficoltà. Le loro difficoltà
furono accentuate dal fatto che avevano spostato la produzione verso i
più redditizi Suv, visto che i prezzi della benzina erano bassi. Quando
improvvisamente, durante le turbolenze della guerra in Iraq, il prezzo
del greggio è salito alle stelle, queste compagnie hanno avuto grossi
problemi. Barack Obama ha quindi disposto le nazionalizzazioni, ma le ha
perseguite con quello che ha definito un «approccio a mani libere». Ciò
significava che, nonostante i proclami ecologisti, sostanzialmente non
vi era alcun intervento nelle decisioni di investimento di queste
società, sebbene ovviamente non fossero né economicamente né
ecologicamente sostenibili. Obama non è intervenuto neanche sulle
nomine dei dirigenti, nonostante avessero preso decisioni chiaramente
sbagliate. L’unico ad andare via è stato il Ceo di General Motors Rick
Wagoner.
Obama è intervenuto con forza è in nome della competitività
globale. Con l’accordo del sindacato dei lavoratori automobilistici, i salari
per tutti i nuovi assunti sono stati dimezzati. Il concetto è uguale al Fiscal
Compact dell’Ue e al Memorandum of Understanding con la Grecia: «svalutazione
interna» dei costi e dei salari per il capitale al fine di ottenere una quota
globale più ampia di un’industria generalmente in sovra-accumulo e guadagnare
una via d’uscita dalla crisi globale.
Il punto è che queste nazionalizzazioni, se arrivano, sono
un’opportunità, poiché ogni
crisi è sempre un’opportunità e un pericolo sia per la borghesia che per le
classi lavoratrici. Ma perché ne tragga benefici la classe lavoratrice e per aiutare
a prevenire l’imminente catastrofe climatica, la sinistra deve spingere in
avanti in modo che questi interventi siano resi permanenti e che siano vincolati
a vasti programmi di trasformazione socio-ecologica.
La crisi del Coronavirus è, in un certo senso,
un’opportunità per la sinistra per strappare un’agenda radicale in grado di
affrontare contemporaneamente le varie dimensioni della crisi. Dopo la crisi
del 2008, le classi economiche e politiche dominanti hanno finito per attuare
politiche di svalutazione interna come strategie di uscita. La sinistra,
invece, deve spingere per una rivalutazione verso l’alto, che ponga al centro
il sostentamento dei lavoratori e la lotta ai cambiamenti climatici e, in
particolare, rimetta all’ordine del giorno le nazionalizzazioni progressiste.
Il clamoroso fallimento del «mercato autoregolamentato» diventa un disastro
quando il capitalismo è «sano». Crea enormi
disparità economiche e disparità regionali e conduce alla crisi attuale.
Eppure, durante questi momenti di crisi, il mercato distrugge letteralmente la
società e minaccia di uccidere vaste aree della classe operaia. Ciò evidenzia
che per proteggere il bene comune, il mercato capitalista deve essere superato.
E questo è ciò che l’attuale crisi rivela a milioni di persone in tutto il
mondo.
E siccome le crisi sono opportunità, fu l’influenza spagnola del 1918 a facilitare la creazione dello stato sociale svedese.
L’interruzione delle catene di fornitura internazionali dovuta a
Covid-19 porta con sé l’opportunità di utilizzare questo piano della
globalizzazione per far avanzare modelli più sostenibili, inclusa la
ri-localizzazione della produzione in una de-globalizzazione selettiva.
La crisi ci sta dimostrando quanto siano vulnerabili i servizi pubblici e
come falliscano fintanto che la fornitura di assistenza sanitaria
dipende dalle importazioni di tutti i tipi di forniture mediche da tutto
il mondo. Inoltre, la necessità di ri-localizzare l’economia al fine di
far fronte alle ricadute della crisi Covid-19 ha creato conversioni di
emergenza di industrie che potrebbero fare impallidire il caso del
riutilizzo degli impianti automobilistici statunitensi per costruire
carri armati durante la Seconda guerra mondiale.
Oggi queste conversioni ridistribuiranno la produzione per
il bene comune, aprendo lo spazio a nuovi dibattiti su come convertire
l’industria automobilistica in modi sociali ed ecologici nella nostra lotta
contro il cambiamento climatico. Naturalmente, queste misure sono all’opposto
del marchio di re-localizzazione
strategica del ministro tedesco Altmaier, parte della nuova strategia
industriale dell’Ue di autarchia selettiva come mezzo per competere con la
Cina.
Tuttavia, la crisi ha creato aperture storiche. Il compito della
sinistra è vederle, afferrarle e spingerle. E mentre è in gioco la
sopravvivenza della razza umana, il superamento del mercato capitalista
dovrà includere nazionalizzazioni progressive, incluso il settore finanziario,
come requisito minimo per il controllo degli investimenti
socio-ecologici. Questa crisi mostra già ciò che è possibile in altre
aree. Il governo di sinistra della Spagna ha appena legiferato sull’acquisizione di tutti gli ospedali privati e a scopo di lucro:
finora è una richiesta temporanea, non una nazionalizzazione. Ma se
queste manovre per far fronte alla crisi diventano permanenti, possono
rappresentare un passo verso una società che non assecondi gli interessi
del capitale ma faccia il bene della maggioranza dei lavoratori e del
clima.
Fonte
I contenuti ci sono, ma gli attori sociali e politici che dovrebbero farsene carico non vengono nemmeno menzionati...
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