Il 6 aprile 1941 l’invasione nazifascista della Jugoslavia. Un appello di storici chiede giustizia per le atrocità che furono compiute allora. La «continuità dello Stato» del dopoguerra: nessuno pagò per stragi e violenze. Mussolini annunciò già nel ’20: politica del bastone contro la razza slava, inferiore e barbara. Il 6 aprile 1941 divisioni tedesche e italiane invadevano la Jugoslavia dividendola in zone di occupazione.
L’Italia monarchico-fascista costituì la «provincia italiana di Lubiana» in Slovenia annettendo al regno di casa Savoia, dal luglio 1941, anche il Montenegro.
Iniziò così l’occupazione della Jugoslavia che non solo completò l’aggressione del regime ai Balcani, iniziata nel 1939 in Albania e seguita nel 1940 in Grecia, ma rappresentò il correlato storico-politico del «fascismo di frontiera» emerso negli anni Venti con lo squadrismo e sintetizzato nei suoi obiettivi da Mussolini nella visita a Pola del 22 settembre 1920: «Di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone (...) si possono più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».
In linea con questo impianto ideologico le truppe del regio esercito, le autorità di polizia, i carabinieri e le milizie fasciste dei battaglioni «M» disposero su tutto il territorio le misure della «guerra ai civili», che lo stesso popolo italiano avrebbe poi drammaticamente conosciuto durante l’occupazione nazista.
Fucilazioni di civili e partigiani, deportazioni di massa (100.000 jugoslavi trasferiti nei campi d’internamento italiani), incendio e saccheggio delle città e dei villaggi (nel febbraio 1942 l’intera città di Lubiana venne circondata da una «cintura» di filo spinato e posti di blocco e poi razziata), stragi (il 12 luglio 1942 a Podhum 108 fucilati e oltre 800 deportati; a Niksic e in altre città del Montenegro fucilazione di 95 comunisti e 200 civili tra il 20 giugno 1942 e il 25 giugno 1943), violenze e abusi sulla popolazione (nella sola Lubiana morirono 33.000 persone pari al 10% dei suoi abitanti) assunsero un carattere sistemico codificato dalle disposizioni della «circolare 3C» firmata dal generale Mario Roatta, già capo del Servizio Informazioni Militari, guida delle truppe fasciste in Spagna e poi al vertice della II Armata di occupazione in Croazia.
L’occupazione militare costò alla Jugoslavia oltre 1 milione di morti mentre in tutta l’area dei Balcani i crimini di guerra compiuti dal regio esercito e dalle autorità italiane contribuirono da un lato al rincrudimento delle misure di repressione e controguerriglia antipartigiana e dall’altro ad alimentare la Resistenza militare e civile delle popolazioni in Albania, Grecia e Jugoslavia.
Nel maggio 1942 su La Voce del Montenegro il generale Alessandro Pirzio Biroli da «governatore» della regione scriverà: «Tutto il popolo sappia che ogni partigiano, ogni collaboratore, informatore e simpatizzante dei partigiani sarà fucilato sul luogo della cattura».
Dal canto suo Mussolini il 31 luglio 1942 a Gorizia aveva ordinato ai generali: «Al terrore dei partigiani si deve rispondere col ferro e col fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri (...) questa popolazione non ci amerà mai (...). Questo territorio deve essere considerato territorio di esperienza. Non vi preoccupate del disagio della popolazione, lo ha voluto! Ne sconti le conseguenze».
Al termine del secondo conflitto mondiale le Nazioni Unite stilarono un lungo elenco di criminali di guerra italiani che solo per la Jugoslavia comprendeva 750 nomi (generali, ufficiali dell’esercito, carabinieri, questori, camicie nere) a cui si aggiungevano i 142 iscritti nelle liste dell’Albania, i 111 della Grecia, i 12 dell’Urss.
Le ragioni della Guerra Fredda, la nuova collocazione geopolitica di Roma e la sistematizzazione dell’anticomunismo di Stato permisero ai governi dell’Italia post-bellica di non estradare i criminali nei Paesi che ne facevano richiesta; evitare processi presso un tribunale internazionale; non pagare i risarcimenti alle vittime ed agli Stati nonostante le disposizioni del Trattato di Pace di Parigi del 1947.
Così la «mancata Norimberga italiana» rappresentò un vulnus storico nella stessa radice di nascita della democrazia repubblicana alimentando il falso mito degli «italiani brava gente», consentendo l’impunità dei criminali ed il loro reinserimento negli apparati delle Forze Armate, dei servizi segreti e delle forze dell’ordine sostanziando una «continuità dello Stato» che incise fortemente sul carattere e la qualità della nostra democrazia nei decenni successivi, tanto che diversi criminali di guerra furono coinvolti nelle stragi e nei tentativi di colpo di Stato degli anni Settanta.
Ottant’anni dopo l’occupazione della Jugoslavia, un appello di centinaia di storici e studiosi chiede alle istituzioni e al Paese un atto di coraggio in grado di rielaborare sul piano pubblico questo tragico passato rimosso, assumendo come memoria storica collettiva le responsabilità per i crimini compiuti dal fascismo contro altri popoli in un’ottica di superamento dei nazionalismi, di valorizzazione del dettato costituzionale in ordine al ripudio della guerra, di liquidazione tanto etico-morale quanto politico-sociale del fascismo.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento