«Come cambiare il mondo», di Eric Hobsbawm, è una storia – compatta – del marxismo. Ci sono assenze importanti, come quella di Mario Tronti e dell’Operaismo italiano. Toni Negri e Althusser sono considerati due autori con una formazione francamente insufficiente nella letteratura marxiana. Giudizio che vale più per Negri che per Althusser. Si dice poco o nulla della corrente Sraffiana. In compenso, c’è un importante capitolo su Gramsci, nel quale viene giustamente rilevato il debito di un certo strutturalismo (Althusser, e a ruota Foucault) nei confronti del leader del Partito Comunista Italiano.
In questa lunga storia, ben raccontata, voglio segnalare due innovazioni sulle quali Hobsbawm punta i riflettori e che esercitano ancora, soprattutto in Italia, una certa residua influenza: 1) la svolta del VII congresso dell’Internazionale Comunista (1935) e 2) il lancio, negli anni 1950, del World System.
Nel 1935, al VII Congresso dell’Internazionale Comunista, dopo la discussione del rapporto di attività presentato dal compagno Pieck, viene votata all’unanimità una risoluzione politica. Si tratta di una svolta importante nell’atteggiamento che i Comunisti dovranno tenere nei confronti del Fascismo. La Lotta di Classe sarà subordinata alla lotta al Fascismo. La lotta al totalitarismo avrà la precedenza sulla lotta al capitalismo.
Si tratta di una svolta che in una certa misura anticipa altre lotte, e altre precedenze, che, a partire dagli anni 1960, cominceranno a spuntare come funghi (questione della differenza femminile, questione delle minoranze, questione delle devianze, questione delle divergenze, questione ecologica, questione della droga, eccetera).
II compagno Pieck, delegato del Partito comunista tedesco, nel suo discorso di apertura al Congresso imposta chiaramente quello che allora appariva come un problema capitale davanti all’umanità.
Siamo difronte alla possibilità della distruzione della cultura umana – dice il compagno Pieck – non alla sopraffazione o alla distruzione di una parte (il proletariato), ma alla distruzione dell’umanità.
Questo è il fascismo, dice Pieck. Noi siamo pronti a difendere i resti del parlamentarismo e della democrazia contro il fascismo.
Se il fascismo tedesco minaccia l’indipendenza dei piccoli popoli in Europa, dice, la guerra di questi ultimi contro il fascismo sarà una guerra giusta, che noi sosterremo.
Il delegato francese Thorez aggiunge: Noi comunisti lottiamo per il potere dei soviet, per la dittatura del proletariato, che è il solo mezzo per farla finita per sempre. Ma, visto il momento attuale, questa nostra convinzione è condivisa solo da una minoranza della classe operaia e del popolo francese. Dunque, la possibilità di un governo unitario si avvicina. Non si tratta, dice, di una gestione degli affari della borghesia, ma di una lotta contro il fascismo.
La presa di posizione del VII Congresso condiziona ancora oggi le scelte politiche generali in Europa, e in Italia in modo particolare.
Socialismo o Anti-Fascismo? Questo è il dilemma.
Il fascismo, scrive Hobsbawm, veniva sì presentato come la versione estrema e logica del capitalismo, ma non si affermava che tutti i capitalisti fossero fascisti.
Il test di ammissione all’antifascismo, scrive, non riguardava la posizione o l’ideologia di classe, quanto esclusivamente la disponibilità a entrare nel fronte antifascista, o, più precisamente, a unirsi all’opposizione contro il fascismo tedesco, principale istigatore alla guerra. I capitalisti sarebbero stati espropriati dopo la vittoria – non in quanto capitalisti, ma come fascisti e traditori.
Furono pochi, scrive Hobsbawm, i comunisti seriamente turbati dalle critiche dei marxisti dissidenti e di altri, i quali sostenevano che rafforzando l’unità antifascista si sarebbero tradite la lotta di classe e la rivoluzione.
L’unità nazionale e internazionale contro il nemico principale sconcertò i militanti, perché era in conflitto con i loro istinti, tradizioni e perfino esperienze. Ciononostante, dice Hobsbawm, la linea antifascista pareva convincente e realistica. Che alternative c’erano alla decisione comunista di combattere la Guerra civile spagnola? Oggi come allora, dice, la risposta dev’essere: nessuna.
I Partiti comunisti italiano e francese, dice Hobsbawm, sono stati duramente criticati per non essere stati capaci di perseguire una politica più radicale nel 1943-45, o addirittura di tentare una presa del potere, ma la massa dei loro membri e simpatizzanti, prevalentemente reclutati nel periodo della Resistenza e della liberazione, sembra averne accettato la linea senza grosse difficoltà.
Si trattò di un periodo breve e difficile, ma le conseguenze furono forti e durature. L’antifascismo comportò un approccio alla lotta per il potere difficile da conciliare con quello della «rivoluzione proletaria», così com’era stata concepita fino a quel momento dai bolscevichi e da altri rivoluzionari sociali. Tutti i comunisti che rifiutarono l’approccio antifascista, scrive Hobsbawm, si condannarono all’isolamento. La maggior parte degli intellettuali, marxisti o no, aderirono all’antifascismo. La lotta al fascismo aveva la precedenza. Se fosse stata perduta, le discussioni sul futuro sarebbero diventate del tutto accademiche.
Infine, bisogna pesare bene un altro fatto. Molti intellettuali, dice Hobsbawm, approdarono al marxismo proprio attraverso l’antifascismo. Finita la guerra, e ritornati alle democrazie parlamentari, in molti avvertirono una certa delusione. I sopravvissuti, scrive Hobsbawm, sono spesso rimasti delusi. Si sono immersi nel proprio passato per capire se avevano sbagliato, per scoprire quali fossero stati i loro errori, o i difetti delle loro grandi speranze. Molti cessarono di essere marxisti. Ma si può senz’altro affermare che, dice, pochissimi di loro, ammesso che ce ne siano, rinnegano la partecipazione alla lotta contro il fascismo e alla sua sconfitta. È difficile trovare un uomo o una donna che si penta del proprio sostegno alla Repubblica spagnola o del proprio contributo, per quanto piccolo, nella guerra contro il fascismo da civile, da soldato o da partigiano. È una parte del loro passato a cui guardano con modesto orgoglio. Per alcuni sopravvissuti dell’epoca, è l’unica parte del proprio passato politico alla quale ripensano con incondizionata soddisfazione. Un’adesione al passato che ha gettato un’ombra lunga e lugubre sul futuro.
Il tema del «World System» emerse dopo il conflitto bellico, e fu frutto della fine, certificata dalla guerra, dell’eurocentrismo.
L’affermarsi nella linguistica, nell’antropologia e nella storiografia di un approccio globale, sincronico, strategico, geografico e geopolitico, fu strettamente connesso a una decostruzione del centro, decostruzione che aprì all’idea di gioco, di sostituzione, di orizzontalità, eccetera.
Per quanto riguarda il marxismo, il tema fu aperto da Maurice Dobb, e si strutturò intorno alla questione della transizione dal feudalesimo al capitalismo.
C’è una legge generale di movimento (evoluzione) che spiega il rimpiazzo del feudalesimo da parte del capitalismo, oppure non c’è alcune legge di movimento?
Paul M. Sweezy contestò l’argomento di Dobb, argomento legato al meccanicismo della Seconda Internazionale. Non ci sono leggi di evoluzione della storia, non c’è nessun meccanicismo. Non c’è alcuna legge del capitale. Nessun meccanismo implicito (legge economica) ha portato alla dissoluzione del feudalesimo.
Sweezy, scrive Hobsbawm, nella dissoluzione del feudalesimo pose al centro il ruolo del commercio. Secondo Sweezy lo sviluppo del commercio fu il fattore decisivo che avviò il declino del feudalesimo nell’Europa occidentale.
Negli anni Sessanta il dibattito si riaprì, innestandosi sulla posizione espressa da Sweezy. A riproporre il tema furono A. Gunder Frank e, in seguito, Wallerstein.
Il loro ragionamento si articola in tre punti:
1) il capitalismo equivale ai rapporti di mercato. Su scala mondiale si sviluppa il «sistema-
mondo» (world system), consistente in un mercato mondiale, nel quale un certo numero di Paesi
sviluppati «centrali» impone un dominio sulla «periferia», sfruttandola;
2) il «mercato mondiale», nato nel XVI secolo, crea l’economia capitalistica;
3) lo sviluppo dei Paesi capitalistici del «nucleo» metropolitano, attraverso la dominazione e lo sfruttamento del «Terzo mondo», producono il suo «sottosviluppo» progressivo, ossia il crescente e incolmabile gap tra i due settori del mondo.
L’interesse per questi problemi si risvegliò in maniera spettacolare negli anni Settanta, soprattutto in relazione all’America latina. Tutto ciò diede vita al cosiddetto «terzomondismo». I marxisti, scrive Hobsbawm, di rado resistettero alla tentazione di fare uso di questa vaga ma utile definizione. Finché il periodo del «terzomondismo» durò, dice, il pensiero marxista ne fu potentemente influenzato.
Anche in questo caso, il tema marxista della lotta di classe, completamente dipendente dalla struttura del capitalismo, del plusvalore e dello sfruttamento della forza-lavoro, viene superato o accantonato in vista di un conflitto ritenuto principale o, perlomeno, più urgente, il conflitto tra Stati centrali e periferici, il conflitto tra paesi ricchi e paesi poveri.
Il '68, aggiunge Hobsbawm, nei Paesi «sviluppati», trasforma l’accusa verso gli Stati metropolitani «in una critica della società contemporanea in quanto tale», soprattutto «allo scopo di puntellare il rifiuto del mondo creato dall’industria moderna e dalla tecnologia scientifica da parte dell’intellighenzia; e il principale campo di battaglia di questo dibattito è stato fornito dalle università».
La critica alla Metropoli subisce un’ulteriore torsione quando si abbandona il campo dell’economia, per buttarsi mani e piedi nel campo della critica sociologica e culturale. Se esisteva una materia di studio universitaria che rappresentasse questa ricerca, scrive Hobsbawm, di una disciplina critica della società nel suo complesso, questa era la sociologia, verso la quale accorrevano dunque frotte di studenti radicali e che divenne spesso strettamente associata al radicalismo della «nuova sinistra».
In secondo luogo, la critica della società metropolitana e l’attrazione terzomondista portava a sostituire gli operai con i contadini, in una regressione terzomondista che nella «nuova sinistra» intellettuale mostrava talvolta la tendenza a rifiutare gli operai come una classe non più rivoluzionaria perché integrata nel capitalismo, forse persino «reazionaria». Il locus classicus di quest’analisi, scrive Hobsbawm, era L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, del 1964.
È davvero rimarchevole che da questa storia del marxismo raccontata da Hobsbawm rimanga fuori l’Operaismo italiano, ovvero quella versione spuria del marxismo occidentale che aveva 1) ripristinato la centralità della lotta di classe e dello sfruttamento; 2) che aveva bollato l’invenzione sociologica come un momento importante di ristrutturazione dei rapporti di produzione, e che, infine, 3) aveva rigettato ogni approccio terzomondista.
Questa esclusione si giustifica forse con la vicinanza (abbastanza marcata) dell’Operaismo con le tematiche della differenza, tematiche alle quali esso dovrà pagare un alto prezzo. Questa ipotesi è rafforzata dall’ampio spazio concesso a Gramsci, il quale, per come lo inquadra Hobsbawm, si è tenuto lontano sia dal meccanicismo della 2i, sia dallo storicismo esasperato di certo marxismo occidentale.
Gramsci, scrive Hobsbawm, aveva imparato dall’esperienza della socialdemocrazia prima del 1914 che il marxismo non era un determinismo. Non bastava aspettare che la storia portasse automaticamente i lavoratori al potere. Ciò non consegnò Gramsci nelle mani di uno storicismo di stampo romantico, spesso regressivo, intimista, depresso. La sua ossessione non diventò la libertà, l’alienazione, la repressione, il totalitarismo, eccetera. Il fascismo non lo consegnò nelle mani di un illuminismo rovesciato, tale per cui ognuno – il singolo – è, sotto il totalitarismo, ugualmente represso.
Dal momento che, scrive Hobsbawm, era ovvio che in Italia e nella maggior parte dell’Occidente, dagli anni Venti in poi, non ci sarebbe stata una Rivoluzione d’ottobre, e non c’erano prospettive realistiche che ne scoppiasse una, Gramsci dovette ovviamente considerare una strategia a lungo termine. Ma, di fatto, in linea di principio non si impegnò per il conseguimento di nessun risultato in particolare riguardo alla lunga «guerra di posizione» che aveva previsto e raccomandato. Anziché costituire un limite, o consegnare Gramsci a una depressione secolare, come è avvenuto per tutti quelli che, delusi dalla rivoluzione d’ottobre e delusi dai progressi promessi dalla tecnica, diffusero dalle cattedre che occupavano una sfiducia nera che compromise ogni possibilità per il proletariato di costruire una qualsiasi strategia di presa del potere; anziché costituire un limite, l’impossibilità di ottenere un risultato nel breve periodo rappresentò per Gramsci la possibilità di strutturare una strategia di Egemonia originale, positiva, non-reattiva. Gramsci non soffrì la disperazione che colse molti marxisti occidentali. Sulla scia di Lenin, fu l’unico marxista che teorizzò – anzi, praticò – una strategia a lungo termine di presa del potere.
Numerosi tra i luminari di quello che è stato definito «marxismo occidentale», scrive Hobsbawm, possono essere considerati, per così dire, degli accademici, cosa che molti di loro erano o avrebbero potuto essere: Lukács, Korsch, Benjamin, Althusser, Marcuse e altri. Scrissero restando a una o due spanne di distanza dalle realtà politiche anche quando, come Henri Lefebvre, da un momento all’altro avrebbero potuto ritrovarvisi coinvolti in qualità di organizzatori politici. Gramsci, scrive Hobsbawm, non può essere separato da queste realtà, dal momento che anche le sue generalizzazioni più ampie vertono immancabilmente sull’indagine delle condizioni pratiche allo scopo di trasformare il mondo attraverso la politica nelle circostanze specifiche in cui si trovava a scrivere. Come Lenin, non era fatto per la vita accademica benché, a sua differenza, fosse un intellettuale nato, un uomo entusiasta della pura attrazione per le idee. Non per nulla fu l’unico teorico marxista a essere anche il leader di un partito marxista di massa (se si tralascia l’assai meno originale Otto Bauer).
Gramsci mise a punto un pensiero dell’Egemonia. La conquista dell’egemonia, per quanto possibile, prima della presa del potere è particolarmente importante in Paesi dove il nucleo del potere della classe dominante consiste nella subalternità delle masse piuttosto che nella coercizione.
Il problema fondamentale dell’egemonia, considerato strategicamente, non è tanto come i rivoluzionari siano arrivati al potere, anche se la questione è assai importante, ma come giungono a farsi accettare, non solamente come i dominatori politici o inevitabili, ma in qualità di guide e leader.
Tra i teorici marxisti, scrive Hobsbawm, Gramsci è quello che comprese più chiaramente l’importanza della politica come dimensione speciale della società, perché riconobbe che in politica in gioco c’è più del potere. Gramsci è stato il filosofo della prassi politica per eccellenza.
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