di Giovanni Iozzoli
E adesso parliamo un pò di sovrastruttura, che tra gas e swift non se ne puo più! (scherzo, eh: senza parlare di gas non si capisce niente dell’Ucraina; l’importante è non fermarsi a quello...)
.
In ogni teatro di guerra – mai definizione fu più pertinente, perché ogni conflitto bellico è anche un grande allestimento scenico – la costruzione retorica dei due campi avversi, quello glorioso e nobile dell’alleato e quello mostruoso e barbaro del nemico, è operazione bellica di primissimo piano. E questo fin dall’antichità – quando narratori, poeti, teologi e artisti venivano arruolati sui due fronti, come oggi lo sono gli operatori dell’informazione e della “cultura”. Le menzogne e le mitizzazioni diventano un elemento naturale del racconto e gli addetti ai lavori presidiano i rispettivi campi come trincee: è così che il TG2, in un eccesso di zelo, manda in onda la clip di un videogioco spacciandola per i cieli di Kiev; e se qualche eroico “partigiano” del battaglione Azov inalberasse uno stendardo con la svastica, il pudore giornalistico certo si rifiuterebbe di mostrarlo; così come le vittime russe o russofone del Donbass appartengono, dal 2014, ad una umanità minore, non degna di racconto, né di tutela, automaticamente arruolata d’ufficio nel campo della nemicità.
In questi termini, l’odierna ondata di russofobia, malcelata dietro una semplice ostilità anti-Putin, ha qualcosa a che vedere con l’islamofobia vista all’opera negli ultimi vent’anni per giustificare le guerre americane in medio oriente: il nemico come altro assoluto, infido, dal sistema valoriale assurdo, arcaico, capovolto, sempre pronto a versare l’innocente sangue democratico. Il russo – pur se biondo e cristiano – si adatta oggi a rivestire i panni dell’antagonista perfetto, di cui l’occidente sente un disperato bisogno. Senza nemici il blocco “della civiltà e delle democrazie” deperisce, si sfianca, smarrisce le sue ragioni, travolto dalle proprie crisi materiali e di consenso. E’ nella perenne competizione con l'“altro” – il socialismo, il sovranismo, l’islamismo o qualsiasi altra rappresentazione simbolica del male – che l’occidente sembra recuperare un po' di vitalità.
Curioso, ma nè la Cina nè la Russia, sembrano avvertire questa spasmodica necessità di contrapposizione; quando si muovono lo fanno sempre per reazione a una qualche “rivoluzione colorata”, tipo la maledetta Maidan, che mina i loro confini e sposta sotto il loro muso la minaccia di destabilizzazione. I barbari starebbero bene anche senza guerra. E questa è la storia della Nato post-'89: la più straordinaria macchina da guerra mai accumulata dall’umanità – mai sazia, mai appagata del suo potere, sempre in costante espansione e fibrillazione, a caccia di nemici grazie ai quali giustificare la propria stessa esistenza.
Verso i russi c’è però un “di più” di rabbia e rimpianto. I russi hanno profondamente deluso pensatori, politici, intellettuali e strateghi del mondo libero; e questo non sarà mai perdonato loro. Perché diciamo ciò? Perché dopo il 26 dicembre 1991, ammainata l’esangue bandiera rossa sul Cremlino, mentre a Washington, Londra, Parigi e Berlino si celebrava la riunificazione dei mercati mondiali e il sogno di un potere imperiale monocratico, enormi aspettative covavano nei confronti del popolo russo, giovane, vitale e affamato di libertà e mercato. I russi tornavano nella comunità dei paesi civili e venivano accolti a braccia aperte, come figliuoli prodighi e necessari. Certo, in cambio avrebbero dovuto accettare la svendita a prezzi di saldo del patrimonio industriale del paese, delle sue immense risorse naturali (allora ancora non pienamente sfruttate), nonché diventare serbatoio di forza lavoro per l’industria globale che guardava ad est con l’acquolina in gola. Qualche prezzo da pagare c’era: ma vuoi mettere la soddisfazione del Mac Donalds sulla Piazza Rossa e il presidente ubriaco che balla il twist sul palco di un concerto rock?
Ecco, Boris Eltsin era una buona approssimazione di ciò che l’Occidente si aspettava dalla Russia: un simpatico alcolista, un orso bonaccione e ammiccante, pronto a vendere anche sua madre, sbruffone nei modi ma tremendamente realista nella valutazione dei rapporti di forza. Il leader di un paese a pezzi in cui con l’ammainabandiera era bruscamente calata anche l’aspettativa di vita – una grande nazione che si consegnava mani e piedi al “mondo libero” dichiarando la propria bancarotta etica, la fine di ogni alterità, la disponibilità ad una omologazione irreversibile.
E invece cosa ti combinano, questi russi ingrati? Resistono. Resistono a questa azione di conquista. Dapprima in modo passivo, con gli strumenti di cui la gente semplice dispone – tipo la riscoperta della religione o la silenziosa ripulsa verso “la decadenza occidentale”; e poi attivamente, rimettendo in piedi un apparato industriale e militare e ricostituendo uno Stato che nel volgere di un ventennio ridiventa grande e imprescindibile attore globale. Putin non è il demiurgo di questi processi: ne è il prodotto storico. Putin è il figlio (repellente ma legittimo) della rinascita dello Stato Russo nel ventunesimo secolo. Dargli del pazzoide dittatore è facile, ma lui le elezioni le ha sempre vinte – a differenza di quel che succede nel nostro paese, dove tra l’instaurazione dei governi e il processo democratico, si è da tempo persa ogni connessione.
Lo ricordava la buonanima di Giulietto Chiesa: i russi non sono occidentali, non si sono mai sentiti tali. Hanno una storia e una cultura propria. Basta aver letto qualche buon romanzo, per averne contezza. È il primo paese al mondo dove si è realizzata una rivoluzione proletaria, la matrice di un popolo capace di sacrifici inenarrabili per spezzare la schiena della belva nazista. Certo, le sirene del consumismo occidentale hanno avuto un fortissimo impatto sulla gente comune, ma non l’hanno mai pienamente convinta circa la bontà assoluta dell’american way of life.
E qui il discorso diventa complesso e scivoloso e non mi azzardo – si rischia sempre di scivolare nel politicamente scorretto. Ma qual è il sistema di valori che noi “occidente” rivendichiamo come essenziale, per distinguerci dalla barbarie russa? Che là ci sono gli oligarchi e da noi no? Libere elezioni? Sono poi così libere, le nostre? E se alle prossime presidenziali Ghennadi Zyuganov battesse Putin, il giudizio del “mondo libero” cambierebbe – o diventerebbe ancora più istericamente ostile? I russi alla stregua dei cinesi, degli indiani e della maggior parte dei paesi di cultura musulmana, non hanno mai assimilato integralmente il “pacchetto occidente” – l’offerta speciale dell’estremismo liberale, piena di caramelline, cotillons e veleni. La stragrande maggioranza del mondo si ostina a coltivare un immaginario in cui l’iper-individualismo borghese, l’ideologia dell’apogeo capitalista, riguarda solo alcune ristrette élite economiche o culturali. Può piacere o meno: ma questa è la cruda verità. In Russia, a trent’anni dalla caduta del muro, il nichilismo d’occidente non è riuscito a far innamorare di sé i 147 milioni di abitanti di questo gigante orgoglioso e malinconico. In qualche recesso della loro anima, sentono di non appartenere del tutto a questo tipo di modernità e recalcitrano al destino a binario unico, che era stato scritto per loro. Non si sono rassegnati ad uscire in buon ordine dalla storia – l’ombra dell’impero che fu, si allunga sul presente e rende pallido e stinto il sogno occidentale.
La faccenda dello “spirito di un popolo” può sembrare una romanticheria vagamente reazionaria. Eppure nel dibattito all’interno del movimento socialista, soprattutto ai suoi albori, era naturale discuterne. Bakunin e Marx si accapigliarono anche su questo. La “educazione spirituale della classe operaia” doveva essere nell’agenda di ogni vero partito socialista: era il riconoscimento che non di solo pane, vive il proletario; il socialismo era una visione del mondo, mica solo una faccenda di forze produttive. Certo, oggi chi accetterebbe di farsi “educare”? Ci crediamo già “educati”, mentre siamo solo formattati. L’occidente ha sparato, nell’ultimo trentennio, tutte le sue cartucce – non solo metaforiche – per convincere i popoli ad aderire alla sua ideologia. Non c’è stato verso. Il mondo non sopporta la riduzione ad uno; così come la vera analisi politica non sopporta la “riduzione ad Hitler”, come argomento di critica alle politiche di questo o quell’avversario dell’atlantismo.
È questo che fa impazzire tutti, ad Ovest del Donbass. Solo vent’anni fa si discuteva a Pratica di Mare, di una possibile integrazione della Russia dentro il sistema Nato. Oggi Biden parla della terza guerra mondiale come di uno scenario possibile. E questo in assenza di qualsiasi contraddizione reale basata su modi di produzione alternativi. Il capitalismo ha fallito la sua missione universalista, la folle pretesa di rendere gli uomini e le donne del ventunesimo secolo una massa amorfa di consumatori soddisfatti. Il nazionalismo riemerge ovunque come sottoprodotto della crisi. Il mondo è ferocemente ingovernabile, visto dalle stanze ovattate degli strateghi geo-politici. Certo, mancano all’appello gli “strateghi del popolo”, quelle intelligenze – collettive – che dovrebbero dire alla povera gente tutta – da est a ovest – che le guerre vanno sabotate e le baionette vanno rivolte contro il nemico interno. Ma tutto ciò, al momento, appare ancora molto lontano, guardando gli 800 km, desolati e infuocati, che separano Kiev da Mosca. Oggi, siamo ancora immersi nello scontro fittizio Oriente/Occidente, l’ultima droga che può suscitare un po' di adrenalina nel corpo esausto del capitalismo globale.
P.S. I nostri giornalisti sono riusciti ad esaltarsi anche per quella specie di corso popolare di costruzione delle molotov, tenuto in una piazza ucraina e trasmesso in pompa magna da tutti i tg. Prudenza, amici dell’informazione: la gioventù vi guarda...
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento