di Carlo Formenti
Intervengo, senza pretese di esaustività, su tre lavori di altrettanti amici che ho avuto modo di leggere di recente. I temi affrontati dagli autori non sono immediatamente riconducibili gli uni agli altri: Onofrio Romano (Go Waste. Depensamento e decrescita, ORTHOTES, Napoli-Salerno 2023) critica i limiti delle teorie della decrescita e individua nel concetto battagliano di dépense una più efficace alternativa al feticismo della crescita; Lelio Demichelis (La società fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering, LUISS, Roma 2023) rilancia la tesi secondo cui il mondo contemporaneo sarebbe completamente sovradeterminato dalla tecnica; infine Roberto Finelli (Filosofia e tecnologia. Una via di uscita dalla mente digitale, Rosenberg & Sellier, Torino 2022) individua nella radicalizzazione dell'umanesimo la possibilità di attribuire un segno positivo alla rivoluzione digitale. Discorsi paralleli più che convergenti, nei quali chi scrive ha però ritenuto di riconoscere alcuni tratti comuni che, come cercherò qui di dimostrare, indirizzano i tre autori su strade senza uscita che non offrono strumenti atti a scalfire le fondamenta della civiltà tardocapitalista.
1. Onofrio Romano. Cercando un'alternativa nel pensiero di Bataille
La critica del concetto di decrescita che troviamo nel testo di Onofrio Romano viene dall'interno dello stesso paradigma decrescitista (Romano è stato allievo di Serge Latouche, nonché parte attiva del dibattito interno all'area di pensiero inaugurata da questo autore). Le accuse sono molte e radicali: il progetto della decrescita non rappresenta una reale alternativa all'esistente; la lotta contro il feticcio della crescita è collocata esclusivamente nella sfera dell'immaginario, per cui si dà per scontato che, una volta destituito di ogni valore il concetto di crescita (si tratta di "decolonizzare" il discorso pubblico dal linguaggio economicista), tutto andrà a posto. Infine manca un disegno chiaro di ciò che dovrebbe essere una società della decrescita.
In effetti, argomenta Romano, tale disegno non può che mancare, ove si consideri che la contestazione della crescita non mette in questione i capisaldi del regime socio-istituzionale di cui quest'ultima è il prodotto. Il che, aggiunge Romano, nasce dal fatto che il bersaglio centrale della contestazione è il modo in cui è organizzata la sfera produttiva e non le ragioni profonde (sociali, antropologiche, politiche e culturali) che giustificano e legittimano tale organizzazione. Per dirla altrimenti: nel momento in cui il progetto si appiattisce nel faccia a faccia con la sfera produttiva, il suo discorso finisce per rispecchiare, sia pure per negazione, l'immaginario economicista dal quale pretenderebbe di affrancarsi.
Se poi analizziamo la prassi dei movimenti che si ispirano all'ideologia della decrescita, ritroviamo i limiti e i vizi dei movimenti politici post sessantottini, a partire dalla sfiducia totale nei confronti di ogni forma di potere – istituzionale, partitica, ecc. – considerate negative di per sé e oggetto di controllo e sorveglianza dal basso più che di conquista (1). Si aggiungano: l'idea che l'unico vero cambiamento non può essere che il frutto di percorsi soggettivi di auto trasformazione (autocoscienza, partire da sé, ecc.); l'idea secondo cui l'unica azione efficace è quella che si compie qui e ora, al di fuori di ogni velleità di cambiamento sistemico di lungo periodo; l'idea che l'ambito più appropriato dell'agire è la dimensione del locale, in quanto unica sede appropriata della costruzione di "alternative" dal basso, di piccoli mondi "orizzontali"; infine l'illusione alimentata dai discorsi sulla presunta "smaterializzazione" della produzione associata alla rivoluzione digitale (2), illusione alimentata dalla rimozione del fatto che l'economia dei servizi prospera sullo spreco di enormi quantità di risorse materiali ed energia (illusione eurocentrica, nella misura in cui ignora la divisione internazionale del lavoro fra centri e periferie del mondo globalizzato).
In precedenti lavori (3) Onofrio Romano aveva associato questa vocazione impolitica, se non esplicitamente antipolitica, delle sinistre occidentali a quello che potremmo definire l'inceppamento di un dispositivo che ha accompagnato l'intera storia del capitalismo dalle origini alla fine del trentennio postbellico, caratterizzato dal compromesso capitale/lavoro associato al modo di produzione fordista. Il dispositivo in questione consiste nell'alternanza tra fasi caratterizzate dall'abbandono del processo di riproduzione sociale ai meccanismi del mercato e fasi caratterizzate dal controllo e dalla regolazione politica di tali meccanismi. Allorché gli effetti del liberismo selvaggio mettono a rischio le condizioni stesse della riproduzione sociale, scatta una reazione difensiva che consegna allo Stato il compito di restaurare le condizioni di una convivenza relativamente pacifica fra le classi sociali.
Perché, a mezzo secolo dalla controrivoluzione neoliberale che ha spazzato via le conquiste economiche politiche e sociali del "trentennio dorato" e precipitato larga parte della popolazione mondiale in condizioni paragonabili a quelle del tardo Ottocento, non si vede traccia di un contro movimento verso nuove forme di regolazione politica dei mercati? Ciò, argomenta Romano, non può essere spiegato solo in base ad argomentazioni di tipo economico, politico e sociale: le vere radici del fenomeno, a suo avviso, sono di tipo antropologico-culturale: il richiamo alla necessità di proteggere la società dall'aggressione del mercato non funziona più perché, o almeno non tornerà a funzionare finché, persistono le cause profonde che hanno consentito al messaggio neoliberale di fare breccia nelle coscienze e nei cuori delle larghe masse popolari.
Semplificando drasticamente, secondo Romano tali cause consistono nell'incapacità delle generazioni sessantottine e post sessantottine di farsi carico delle chance di "vita sovrana" (liberata cioè dai vincoli della lotta per la mera sopravvivenza) che la società welfarista aveva reso disponibili. Posto di fronte alla sfida della proliferazione delle scelte possibili, all'eccesso di surplus energetico, il vivente, invece di rispondere alla chiamata arretra, accetta (o almeno subisce passivamente) il balzo indietro impostogli dal discorso neoliberale, si adagia nel nuovo stato di emergenza esistenziale imposto da politiche sistematicamente mirate a cancellare ogni genere di protezione sociale. Il soggetto torna così a essere ossessionato dal problema della sopravvivenza individuale, il che lo induce a riconoscere nella crescita illimitata l'unica condizione in grado di risolvere i suoi problemi. "La crescita", scrive Romano, "non costituisce altro che la traduzione prosaica della pulsione alla manifestazione illimitata di sé: avere di più moltiplica la mia capacità di essere ciò che voglio essere" (pag. 79).
Di fronte alla seduzione della retorica "desiderante" (4), le armi della narrazione decrescitista sono spuntate. L'eccesso edonistico-individualista predicato dal liberalismo – in barba alla sua irrealizzabilità per la grande maggioranza – suona più attrattivo dello spettro della catastrofe ecologica agitato dai decrescitisti, che altro non sembrano promettere se non "un ritorno all'antico consolante terrore di una Natura onnipotente che ci libera dalla nostra insopportabile autonomia" (pag. 86). Si predica la necessità di difendere la vita, ma si omette di affrontare la domanda sul senso della vita, un vuoto che le pratiche e i riti del consumo si incaricano di camuffare.
Per non combattere battaglie perse in partenza, argomenta Romano, il pensiero della decrescita deve recuperare l'ispirazione antiutilitarista di precursori come Polanyi e la sua critica della "anomalia" della società di mercato rispetto alle precedenti forme sociali in cui l'economia non era un sistema autonomo dalla (e dominante sulla) totalità sociale, o come il teorico dello scambio-dono, Marcel Mauss, o come l'antropologo Marshall Sahlins che oppone alla modernità ossessionata dalla scarsità (artificiale!) un mondo primitivo basato sull'abbondanza, su società "ricche" e consapevoli di essere tali che, mentre producevano il necessario per soddisfare i propri bisogni, consumavano ciò che eccedeva tali bisogni, il surplus, per rafforzare i legami comunitari.
Il pensatore che ha elevato a sistema filosofico questo approccio e che, secondo Romano, andrebbe assunto come ispiratore di un paradigma realmente alternativo, è George Bataille, la cui opera, scrive, "costituisce uno dei tentativi più coerenti e radicali di smascherare l'insostenibilità di un consorzio umano fondato sulla riduzione delle cose e delle persone alla loro funzione produttiva" (pag. 93). Bataille ha il merito di avere attribuito all'abbondanza e non alla scarsità il ruolo di problema centrale di una umanità che deve tornare a coltivare l'arte dello spreco: l'energia che eccede la capacità di impiego da parte degli esseri viventi non va accumulata a profitto di impieghi futuri, bensì dissipata, come avveniva negli antichi rituali del potlach. La dépense, il consumo "improduttivo" associato alle attività ludiche non è meno importante del consumo necessario alla conservazione della vita e alla continuità delle attività produttive.
La critica di Onofrio Romano al pensiero della decrescita, in particolare laddove afferma che tale pensiero contribuisce a rafforzare quel principio di scarsità che è il pilastro dell'economia classica e della narrazione legittimante sulle virtù del capitalismo, mi pare convincente, viceversa ho serie difficoltà a riconoscermi nel vitalismo battagliano, nell'invito del filosofo francese a non arretrare davanti alle provocazioni della "parte maledetta", di un sovrappiù che spaventa il soggetto in quanto lo pone di fronte alla sfida della libertà di scelta, alle chance di "vita sovrana".
A rendermi perplesso non è solo e tanto il "culturalismo" di questo approccio, lo spostamento della opposizione alla civiltà del capitale dal terreno della lotta di classe alle contraddizioni di tipo antropologico: il vero punto è, a mio avviso, che la pratica dello spreco e del consumo improduttivo sono del tutto compatibili con la logica del tardo capitalismo. Se Weber ha identificato nella sobrietà dell'etica protestante una delle radici del capitalismo moderno, la società neoliberale che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni ha totalmente sovvertito tale mentalità: la dépense è prassi quotidiana, anche se non viene più celebrata in riti collettivi, ma è inglobata e "privatizzata" nelle insulse pratiche del consumismo postmoderno. Del resto Romano ne è consapevole, ma non rinuncia a voler rintracciare in tali pratiche uno dei "pochi territori nei quali è possibile ancora scorgere delle posture anti utilitaristiche". Riconosce che si tratta di una versione dequalificata, barbara e aberrante di dépense, nondimeno sembra attribuirle un potenziale eversivo. Presumo che dia per scontato che tale potenziale possa esprimersi solo se politicamente orientato, ma da dove può venire l'orientamento politico se la postura di cui parliamo è parte integrante di una mentalità individualista, orizzontalista e antipolitica?
Strada senza uscita. Tanto più ove si considerino altre implicazioni della "parte maledetta", decisamente più inquietanti del consumo improduttivo: parte integrante della dépense, infatti, sono fenomeni come il lutto, la guerra e tutte le pulsioni distruttive della psiche umana analizzate dalla psicanalisi. Vitalismo e immaginario mortifero sono sempre convissuti, nella produzione estetica come nelle ideologie di estrema destra. Il che non significa appioppare a Bataille (come si è fatto con Nietzsche) l'etichetta di ispiratore dell'immaginario fascista, ma basta per limitare il suo contributo alla critica della società capitalista all'ambito della retorica della scarsità.
2. Demichelis. Abbagliato dalla fascinazione mortifera della tecnica
Introducendo (5) L'ontologia dell'essere sociale, il capolavoro dell'ultimo Lukács, insistevo sul concetto di "complesso di complessi", con il quale il filosofo ungherese definisce la totalità sociale. Tale concetto è associato a una visione innovativa del marxismo, in quanto riconosce a ogni ambito della vita sociale una logica autonoma, non riducibile al dogma meccanicista che attribuisce all'economia la capacità di "sovradeterminare" tutte le relazioni umane. Una visione analoga, come ho mostrato in un articolo apparso su questa pagina (6), a quella di Samir Amin, che esprime un'idea simile con il termine di sottodeterminazione (7). Lukács e Amin appartengono al gruppo di quegli autori che hanno tentato di superare criticamente le interpretazioni economiciste del marxismo, senza rinnegare la validità del tentativo marxiano di definire una teoria della totalità sociale a partire dalle forme assunte dai suoi meccanismi riproduttivi (forme non riducibili alle "leggi" dell'economia, ma spiegabili solo con l'insieme delle relazioni – politiche, ideologiche, culturali e non solo economiche – fra le diverse componenti sociali).
Sul fronte opposto, registriamo una serie di approcci che, paradossalmente, mentre si propongono di superare il marxismo, ne conservano il nucleo metodologico meno vitale, vale dire il riferimento a una sfera della vita sociale la cui logica sarebbe in grado di sovradeterminare quella di tutte le altre. Banalmente, al posto dell'economia viene eletto un altro insieme di fenomeni capace di imporre la propria legge alla totalità delle relazioni umane. Negli ultimi decenni, soprattutto a partire dalla rivoluzione digitale, questo ruolo assolutamente centrale, determinante, della vita sociale viene attribuito alla tecnica. L'ultimo lavoro di Lelio Demichelis, che si muove da tempo in questa direzione sulle tracce di autori come Gunther Anders ed Emanuele Severino, rappresenta uno dei prodotti più radicali di questa corrente. Nello spazio contenuto di un articolo, non posso discutere tutti gli argomenti di un saggio corposo qual è La società fabbrica, per cui mi limito a richiamarne alcuni aspetti funzionali al discorso che intendo qui sviluppare.
Partiamo dal titolo: "La società fabbrica". Si tratta di una citazione dal lessico del linguaggio operaista degli anni Settanta che aveva coniato il termine "città fabbrica", con il quale si alludeva al fatto che l'organizzazione del lavoro fordista si proietta nel territorio, nel senso che i quartieri dormitorio dell'operaio massa, vere e proprie "fabbriche" per la riproduzione della forza lavoro, rappresentano un prolungamento del regime disciplinare instaurato dai principi e dai metodi del taylorismo. Questa scelta terminologica ci fa capire che Demichelis non vede una sostanziale discontinuità tra taylorismo fordista e taylorismo digitale: a suo avviso, quest'ultimo è la continuazione del paradigma industrialista/capitalista/positivista/taylorista con altri mezzi di connessione. Se di cambio di paradigma si può parlare è perché il processo di "fabbrichizzazione" si è esteso dalla città alla totalità sociale. Il modello della fabbrica, con i suoi principi ispiratori di efficienza e produttività, si estende alla totalità dei rapporti sociali, sempre più mediati da un apparato comunicazionale che incorpora la stessa logica, pur presentandosi come il compimento delle aspirazioni di libertà e di realizzazione individuale del soggetto.
A favorire questa autorealizzazione illusoria, secondo Demichelis, è la "ingegnerizzazione" dell'inconscio individuale e collettivo resa possibile dai media digitali. Anche quest'ultima scelta terminologica è rivelatrice, nella misura in cui rivela che per l'autore: 1) il motore del processo di trasformazione è la tecnica, 2) i suoi effetti vanno ricercati soprattutto, se non esclusivamente, al livello della psiche individuale e collettiva.
Partiamo dal primo punto. Per poter attribuire alla tecnica il ruolo di agente principale, se non unico, del mutamento di paradigma, escludendo come secondari fattori come le contraddizioni del sistema capitalista, la lotta di classe, la politica ecc., Demichelis deve "liberarla" da ogni condizionamento esterno. E infatti scrive che "l'errore di Marx è stato quello di pensare che l'essenza della tecnica fosse capitalistica o che la tecnica non avesse una propria essenza" (pag. 256), e altrove aggiunge che "Weber distingueva fra economia e tecnica mentre per noi sono un sistema integrato" (pag. 21). Le due asserzioni appena citate sembrerebbero contraddittorie (la tecnica è una potenza autonoma o è integrata all'economia?); ma non è così: in effetti quello che Demichelis ci dice è che non solo la tecnica è dotata di una propria essenza, ma che tale essenza sovradetermina l'economia a mano a mano che le due sfere si integrano reciprocamente. Ci dice infine che l'apparato produttivo del capitale e la sua razionalità non sono utilizzabili per altri scopi essendo incorporati nell'essenza della tecnica (pag.19, sottolineatura mia).
A partire da quest'ultima considerazione Demichelis si azzarda ad affermare che capitalismo e comunismo sono fondati sulla medesima (ir)razionalità strumentale, calcolante-industrialista quale paradigma per l'intera società. Tale affermazione può forse sfruttare certe affermazioni di Lenin e Gramsci in merito alla natura "progressiva" dei metodi tayloristi, e alla possibilità/necessità che il proletariato se ne appropri per accelerare la costruzione del socialismo, come può sfruttare l'esaltazione dello sviluppo delle forze produttive come fattore determinante della transizione dal capitalismo al socialismo da parte delle versioni deterministe/meccaniciste di certi teorici. Ma la tesi cade non appena messa a confronto con la sterminata produzione del pensiero marxista non dogmatico (Lukács, Samir Amin, Giovanni Arrighi, Benjamin e i francofortesi, per fare solo qualche nome). Una produzione che incorpora nella critica alla civiltà capitalista tematiche storiche, sociali, politiche, antropologiche, culturali, ambientali mantenendo ben salda, al tempo stesso, la consapevolezza del condizionamento che tutti questi fattori, non solo quello economico, esercitano nei confronti della tecnica.
Posto che per Demichelis il metacorpo tecno-capitalistico non avrebbe più necessità di uno stato (addio alla questione del potere politico), e posto che in questa società non può esistere un'autentica soggettività antagonistica (addio alla questione della soggettività rivoluzionaria), non si vede come il nostro possa intravedere una qualche chance di cambiamento. La sua risposta rinvia ai luoghi comuni decrescitisti/ambientalisti che abbiamo appena visto demolire da Onofrio Romano: per salvarci occorre una rivoluzione culturale e antropologica; potremo trasformare la società solo se e quando saremo veramente riusciti a trasformare l'uomo; occorre educarci a un pensiero riflessivo/sensuale/gentile/meditante e responsabile, ovvero saggio; dobbiamo costruire un progresso diverso in nome della sobrietà (evoca il concetto berlingueriano di austerità), del senso del limite e della pace con la Terra e fra gli uomini; l'uomo deve scoprire e riconoscere in se stesso ciò che è Giusto e Buono. Insomma un mix di cultura green, etica cattolica, pacifismo, femminismo; Berlinguer più Latouche più Papa Francesco, più Gandhi, con contorno di Kant. Il fatto che dei soggetti storici concreti che dovrebbero compiere tutti questi miracoli si dica poco o nulla è un chiaro indizio del fatto che anche questa è una strada senza uscita.
3. Finelli. Verso l'integrazione finale del genere umano?
Il lavoro di Roberto Finelli ha un taglio più propriamente filosofico, ed è questo il motivo per cui sarò costretto a fargli ancora più torto di quanto ne abbia fatto ai saggi discussi nei due precedenti paragrafi, nel senso che potrò qui affrontare solo alcuni dei temi trattati nel libro, semplificando al tempo stesso le complesse argomentazioni dell'autore. In particolare mi limiterò a discutere 1) la sua distinzione fra i concetti di tecnica e tecnologia (anche in riferimento all'uso fattone da Marx), 2) la sua visione relativa alla contraddizione fra effetti perversi del processo di "virtualizzazione" del soggetto postmoderno e potenziale delle tecnologie digitali in quanto strumento di creazione/unificazione di una "cosmopoli" planetaria.
Il primo punto è quello che più ha suscitato il mio interesse in quanto affronta la questione della distinzione di senso fra i termini di tecnica e tecnologia dal punto di vista della loro evoluzione storica, più che dal punto di vista lessicale. Posto che il significato originario (prodotto della filosofia classica) di tecnologia è quello di tecnica del discorso, del corretto scrivere e parlare (retorica), Finelli descrive come nella cultura tedesca del Settecento, specificamente nella scienza dell'amministrazione e della politica dei principati tedeschi, esso si sia trasformato fino a rappresentare una voce del curriculum dei burocrati (funzionari statali e dipendenti pubblici) in quanto disciplina deputata a fornire una conoscenza precisa delle attività artigianali e manifatturiere, della loro classificazione, articolazione e distinzione in base a tipologie di prodotti, ai loro rapporti con l'agricoltura e altre aree sociali e amministrative (Cfr. pag. 78). Nella visione di questa cultura, nota come cameralismo tedesco, la produzione materiale veniva insomma messa in relazione con la totalità del territorio, con i costumi e con le istituzioni dello stato. Si tratta dunque, nota Finelli, di una concezione assai diversa da quella propria del liberalismo inglese, il quale considerava il mercato nella sua specificità e autonomia dallo stato politico. In poche parole, la cultura tedesca del Settecento, a differenza di quella coeva d'oltremanica, manteneva ancora un profondo legame con il significato classico di economia come amministrazione della casa (cfr. pag 82).
Se ho ben capito, Finelli mette in relazione (mi perdonerà se salto troppi passaggi della sua argomentazione) con il modo diverso con cui a sua volta Marx usa, benché non si tratti di differenze sistematiche, i suddetti termini. Ecco quanto scrive in merito: "a me sembra che tecnica nel contesto marxiano rimandi essenzialmente a una prospettiva antropologica di produzione di beni in quanto valori d'uso: alla capacità cioè della specie umana di confrontarsi produttivamente, secondo gradi diversi a seconda delle diverse epoche storiche e delle diverse formazioni economico-sociali, con la natura come oggetto di lavoro (8)...Laddove Technologie sembra riferirsi non a una struttura in qualche modo invariante della specie rispetto ad altre specie, ma al particolare luogo storico in cui l'invarianza antropocentrica della tecnica viene risignificata in una rete di relazioni tra macchine, forza lavoro e comando d'impresa..." (pag. 93).
Il filosofo che più di ogni altro ha saputo valorizzare la fecondità di questa distinzione concettuale, di questa contraddittoria coesistenza di livelli temporali (da un lato l'invarianza dell'attività lavorativa – pur nelle radicali trasformazioni delle sue modalità – come ricambio organico uomo-natura; dall'altro la contingenza della forma storica che essa assume nella società capitalistica) è Gyorgy Lukács (9). Viceversa, Finelli non mi pare che sfrutti pienamente questa potenzialità nel condurre la sua critica all'infatuazione postmoderna per una rivoluzione digitale presentata come una leva in grado di sovvertire, non solo il sistema economico e politico, ma la stessa natura umana. Questo perché preferisce utilizzare, a tale scopo, gli argomenti della teoria psicoanalitica e di altri paradigmi scientifico-filosofici.
Dopo avere elencato i deliri degli apologeti della rivoluzione digitale (la metafisica dell'informazione che descrive tutta la realtà, compreso l'universo, come un mondo fatto di bit; la retorica della "infosfera", cioè di una conoscenza generata da dispositivi automatici, intelligenze e memorie artificiali capaci di produrre metodologie di ricerca e interpretazioni di ogni aspetto del mondo e della vita; la contaminazione fra uomini e macchina fino alla generazione di inedite forme di soggettività "post umana", ecc.) Finelli li demolisce con argomentazioni quali l'irriducibilità della vita organica alla processualità macchinica, o quella fra mondo del discreto e mondo del continuo; oppure riferendo la nascita del pensiero alla necessità di soddisfare le esigenze e le pulsioni del corpo (principio di piacere) nel confronto con la complessità della realtà esterna (principio di realtà).
Non posso che essere d'accordo con queste critiche ai sogni di smaterializzazione del mondo e della vita ma, dal momento che in questo lavorio del negativo viene a mancare (o resta sullo sfondo) il momento dell'agire collettivo, della prassi politica (non a caso Finelli, pur criticando le filosofie del postmoderno, ne riconosce il "prezioso" contributo nel denunciare i dogmatismi identitari, compresa la celebrazione della collettività di classe) il rischio di cedere alla seduzione del paradigma digitale è in agguato non appena si cerchi di coglierne il lato positivo. Così affiora l'illusione di poter restituire alle nuove tecnologie lo statuto ontologico della strumentazione, illusione destinata a venire frustrata dall'intreccio inestricabile fra evoluzione delle tecnologie in questione, interessi di classe, configurazioni di potere economico e politico, miti di legittimazione dell'esistente, ecc.
Così Finelli finisce di fatto per dare credito alle utopie dei guru della New Economy (10), che già negli anni Novanta profetizzavano l'avvento di una umanità sempre più aperta a una comunicazione universale, e/o allo scenario elaborato dal sociologo Ulrich Beck (11) il quale parlava di società cosmopolita abitata da cittadini del mondo, visioni che Finelli associa all'ideale kantiana di integrazione finale del genere umano. Ma la realtà di un mondo sempre più de-globalizzato e riprecipitato negli orrori della guerra imperialista ci offre la dolorosa conferma del fatto che la via di uscita promessa dal sottotitolo del libro di Finelli, è invece, al pari delle precedenti, una strada senza uscita.
4. Considerazioni conclusive
È evidente che i tre lavori che ho messo qui a confronto presentano fra loro marcate differenze di contenuto e di metodo, per cui il loro accostamento può apparire arbitrario. E tuttavia mi pare si possa affermare che essi presentano anche alcune analogie di fondo che viceversa giustificano il fatto di averle accostate. Tutti e tre propongono una critica radicale della logica del mondo esistente, concentrandosi il primo sul tema della crescita, gli altri due su quello delle tecniche digitali e del loro impatto sulla soggettività umana; tutti e tre tendono a spostare il focus della critica dall'analisi dei rapporti di forza tra classi sociali (rapporti di produzione e relativi conflitti economici e politici) ai temi dell'antropologia culturale e della psiche individuale e collettiva; tutti e tre restano confinati in una modalità di pensiero radicalmente eurocentrica, nel senso che la civiltà e la cultura descritte sono quelle del mondo euro atlantico, ma soprattutto nel senso che si dà per scontato che tale civiltà e tale cultura siano condivise dalla totalità del pianeta senza contraddizioni né residui; tutti e tre indicano come via d'uscita dall'impasse in cui si dibatte il mondo attuale un cambiamento radicale della cultura e della mentalità individuali e collettive ma, al tempo stesso, nessuno di essi indica quale dovrebbe essere l'agente di tale cambiamento, il quale, a meno di cadere nell'idealismo assoluto, non può essere altri che un soggetto collettivo concreto, vale a dire storicamente determinato. Ecco perché mi sono permesso di definirle strade senza uscita.
Note
(1) Su questa visione "impolitica" dei nuovi movimenti e sul loro rifiuto radicale di porsi la questione del potere cfr. P. Rosanvallon, Controdemocrazia, Castelvecchi, Roma 2012.
(2) Sulla retorica della presunta smaterializzazione dell'economia postmoderna cfr. A. Gorz, L'immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
(3) Cfr. in particolare O. Romano, La libertà verticale, Meltemi, Milano 2019.
(4) Mi riferisco in particolare alle elucubrazioni filosofiche del duo Deleuze, Guattari cui hanno ampiamente attinto i teorici post operaisti come Antonio Negri
(5) Cfr. la mia Prefazione a G. Lukács, Ontologia dell'essere sociale, 4 voll., Meltemi, Milano 2023.
(6) Cfr. "Samir Amin. Una spallata contro l'eurocentrismo".
(7) Nell'articolo citato alla nota precedente definivo così questo concetto: "Per Amin, ogni istanza (sociale) segue una logica propria, indipendentemente dal fatto che il suo stato sia quello di determinata in ultima istanza (l'economico nei sistemi capitalisti) o di dominante (il politico nei sistemi tributari, il culturale nel futuro comunista). Tali logiche non sono necessariamente complementari: entrano in conflitto e non si può predeterminare quale di esse prevarrà".
(8) È la classica definizione marxiana del lavoro come ricambio organico uomo-natura che troviamo nel Libro I del Capitale.
(9) Cfr. Ontologia, op. cit.
(10) Sulle utopie dei guru della New Economy cfr. quanto ho scritto in vari lavori; vedi, in particolare, Felici e sfruttati, EGEA, Milano 2011 e Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013.
(11) Cfr. U. Beck, La società cosmopolita, Il Mulino, Bologna 2003.
Fonte
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