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11/11/2023

L’inutile agonia dei tagli di spesa per pagare il debito

Nascosto, giornalisticamente parlando, da ben due guerre contemporaneamente, il nodo del debito pubblico italiano è rimasto ansimante sullo sfondo. Tutto a vantaggio di un governo che, in altre condizioni informative, sarebbe già finito infilzato dalla sua stessa base sociale.

“La manovra”, ossia la bozza di legge di stabilità per l’anno prossimo, è infatti unanimemente considerata “lacrime e sangue” da tutti gli analisti mainstream (quelli di destra, più benevoli, la definiscono “responsabile”).

Persino il Corriere è stato costretto a spiegare in che modo barbaro è stata “peggiorata la legge Fornero”, grazie a contorti meccanismi che ritardano l’uscita dal lavoro, la penalizzano fino a renderla impossibile, riducono il tasso di rivalutazione (il recupero dell’inflazione, dovuto per legge).

Su quest’ultimo punto, in particolare, si può notare la “sofferenza di classe” di chi vede una perdita di reddito soprattutto per gli assegni più alti (tipo quelli di ex magistrati e giornalisti con carriere luminose), ma che si verifica anche in quelli medio-bassi (quelli di operai specializzati e insegnanti, in pratica).

Dettagli a parte, è la logica complessiva della legge di stabilità – stavolta interamente opera del governo Meloni – a dimostrare come nel passaggio da un “governo tecnico” (quello di Mario Draghi) e uno “politico, votato dagli italiani” non è cambiato praticamente nulla.

Anche la retorica, se si guarda alle parole di Giancarlo Giorgetti – ministro leghista dell’economia – non si discosta dai precedenti. E dire che proprio Lega e “meloniani” spergiuravano che avrebbero “battuto i pugni” sui tavoli di Bruxelles pur di mettere un freno la logica dell’austerità, “cancellare la legge Fornero” e fare altre fantasmagoriche “riforme” per “mettere soldi in tasca agli italiani”. Vi sarete fatti due conti, ormai, no?

Il problema – come proviamo da anni a spiegare – non è nel colore politico del governo in carica. Centrodestra e centrosinistra sono due declinazioni della stessa logica politica: quella per cui “lo Stato non deve disturbare le imprese”, deve “tagliare le tasse”, “ridurre il debito pubblico” e – per realizzare questo “piano” autocontraddittorio – deve privatizzare fino all’ultimo spillo del patrimonio pubblico e tagliare sempre di più i servizi pubblici essenziali: scuola, pensioni, sanità, trasporti collettivi.

Questa logica ha un nume tutelare piuttosto occhiuto: l’Unione Europea. Che sta spingendo per ripristinare, già dal prossimo 1 gennaio 2024, il “patto di stabilità” sospeso per effetto della pandemia. Quel patto, reso più cogente da altri trattati dello stesso tipo (Two pack, Six Pack, Fiscal Compact, ecc.) impone la riduzione del debito come dovere primo e assoluto.

Se non si esegue quanto richiesto, ci pensano “i mercati” e le agenzie di rating a renderti la vita impossibile, facendo salire la spesa per il pagamento degli interessi sul debito (aumentando insomma lo spread tra i titoli di stato di un paese con alto debito rispetto agli altri).

Paradossalmente, proprio una di queste (Fitch), ha ieri confermato il giudizio sull’Italia “con outloook stabile“, ossia ha considerato non mortale il debito italiano.

Tutto questo meccanismo coercitivo, che qui abbiamo descritto in modo sommario e deficitario, si regge su un pilastro istituito dal Trattato di Maastricht (1992!): il divieto di finanziamento degli Stati da parte della banca centrale (la Bce).

Che costringe gli Stati stessi a chiedere ai “mercati” i soldi necessari per qualsiasi spesa eccedente le entrate fiscali (in deficit, insomma), comprese quelle per il pagamento degli interessi sui prestiti chiesti in precedenza (emettendo obbligazioni).

Un corto circuito infernale che l’Italia vive dal 1981, da quando l’allora ministro Andreatta sancì il “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro, introducendo appunto il divieto per via XX Settembre di acquistare i titoli di stato e contribuire così alla “tenuta” del loro prezzo e quindi ad un pagamento di interessi assai minore.

Allora il rapporto debito/Pil era intorno al 60%, proprio il limite stabilito 10 anni dopo dal Trattato di Maastricht. Da allora non ha fatto altro che aumentare, arrivando ora al 140% (la previsione per il prossimo anno, sarà probabilmente di più), nonostante che sia stato ormai privatizzato quasi tutto e i “tagli di spesa” abbiamo ridotto sul lastrico qualsiasi servizio pubblico (sanità e pensioni in primis).

Oltre ad essere socialmente criminale, questo dispositivo da “cravattari” ha distrutto le possibilità di crescita economica di tutta Europa, con effetti ovviamente più disastrosi per i paesi più indebitati (Italia, Grecia, Spagna).

E anche la strategia economica imposta dalla “locomotiva tedesca” – una produzione export oriented, incentrata sui bassi salari e con mercati di sbocco extraeuropei – ha contribuito pesantemente a ridurre le possibilità di crescita comprimendo oltre misura la domanda interna (se i salari sono troppo bassi, chi li percepisce compra poco...).

Tra gli effetti di questa doppia tenaglia c’è l’emigrazione giovanile (si veda il drammatico rapporto della Fondazione Migrantes) e il crollo della natalità (meno di 400.000 nascite nel 2022, erano 800.000 a metà anni ‘70).

E vale la pena notare come questo governo di falsari, che nelle interviste si dice “a favore della natalità”, in questa manovra sia riuscito ad infilare l’aumento dell’Iva (e del prezzo, dunque) per pannolini, assorbenti, latte in polvere.

Una coltellata in più all’istinto di riproduzione, che si somma al rifiuto del salario minimo, che migliorerebbe le condizioni reddituale di oltre tre milioni di lavoratori prevalentemente giovani, ossia in età riproduttiva….

Si comprende perciò bene come ci sembri utile l’analisi puntuale fatta da Guido Salerno Aletta su TeleBorsa. Non si esce dall’inutile agonia se non si mette radicalmente in discussione la struttura stessa dell’Unione Europea. Rovesciandola.

Buona lettura.

*****

Debito pubblico, 40 anni di inutile agonia

Guido Salerno Aletta – Agenzia Teleborsa

Bisogna porre termine all’agonia cominciata con il Trattato di Maastricht: non solo va abbattuto il divieto di finanziamento degli Stati da parte della Bce, ma andrebbe stabilito, al contrario, l’obbligo di sottoscrivere tutto il nuovo debito che viene emesso solo per pagare gli interessi.

In Italia, dal prossimo anno, la finanza pubblica ricomincerà a drenare risorse dall’economia reale per destinarle alla rendita finanziaria. Bastano due soli dati: mentre le imposte in conto capitale ammonteranno ad appena 1,5 miliardo e 551 milioni di euro, le spese per interessi sul debito pubblico arriveranno ad 89 miliardi.

Le previsioni di crescita del Pil si riducono così al lumicino, ben che vada all’1% in termini reali: il nuovo deficit, di 77 miliardi di euro, non basterà dunque neppure a coprire l’onere complessivo degli interessi.

Nella Nadef, la Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza, si prevede infatti di ritornare al saldo primario attivo, per 12,2 miliardi di euro, una somma pari allo 0,6% del Pil.

Questa è la quota delle entrate che sarà destinata, insieme a tutto il deficit, a finanziare la spesa per interessi che crescerà continuamente per via del rifinanziamento del debito in scadenza ai tassi più elevati decisi dalla Bce.

Basta guardare un po’ all’indietro per capire che il nodo sta tutto qui: nel 2022, per esempio, il deficit monstre di 156 miliardi non solo finanziò completamente la spesa per interessi che fu di 82 miliardi, ma ne rimasero altri 74 miliardi per coprire un po’ più della metà delle spese in conto capitale che furono di 150 miliardi.

La ripresa dell’economia dopo la crisi pandemica fu sostenuta dalla spesa pubblica finanziata in deficit.

Mentre si spetta la definizione del nuovo quadro europeo di disciplina dei bilanci pubblici, sostituendo quello definito dal Fiscal Compact nel 2012, occorre fare una riflessione più ampia sul sistema di finanziamento del debito pubblico.

In pratica, bisogna riflettere sui due fondamentali vincoli europei che risalgono al Trattato di Maastricht: divieto di ogni tipo di finanziamento degli Stati da parte della Bce; tetti al deficit ed al debito pubblico, rispettivamente al 3% ed al 60% del Pil.

La combinazione di questi due vincoli si è dimostrata catastrofica per l’Italia, che già nel 1992 si trovava con un altissimo rapporto debito/Pil, pari al 110%, salito ancora fino al 1994 quando arrivò al 127%, una vetta che allora sembrava insostenibile ma che oggi appare un miraggio irraggiungibile visto che quest’anno sarà del 140%.

Certo, è in forte riduzione rispetto al 2022 quando fu del 147%, ma solo perché in questi ultimi anni l’inflazione ha gonfiato il Pil nominale, che è cresciuto del 6,8% nel 2022 e del 5,3% nel 2023, mentre la crescita reale è stata del 3,7% nel 2022, mentre dovrebbe essere intorno allo 0,8% nell’anno in corso.

Con questi vincoli, l’Italia è destinata a continuare ad essere sempre più povera: se fa più deficit, viene mazzolata dalle Agenzie di rating e paga tassi di interesse sempre più elevati; se invece taglia le spese o aumenta le entrate per ridurre il deficit, finanziando l’onere degli interessi con l’avanzo primario, abbatte la crescita.

Ma è dal 1980, dal “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro, che il debito pubblico è esploso a causa di un onere per interessi sempre più alto: da allora non si è fatto altro che foraggiare la rendita finanziaria, un errore irreparabile.

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