Il 6 novembre si sono verificati a Kiev due fatti, strettamente collegati. Primo: Gennadij Chastjakov, aiutante personale del Comandante in capo delle forze armate ucraine Valerij Zalužnyj, è rimasto ucciso dall’esplosione di una bomba recapitatagli in un pacco regalo, nel giorno del suo compleanno. Gravemente ferito il figlio tredicenne.
Secondo: in vista della scadenza del mandato, Vladimir Zelenskij ha deciso di annullare le elezioni presidenziali previste per il 2024.
Sul primo fatto, nessuna ipotesi è da escludersi. È però difficile sfuggire all’impressione che si sia trattato di un avvertimento indirizzato al suo diretto superiore, dopo i diverbi che negli ultimissimi tempi lo hanno visto contrapporsi al nazigolpista-capo Vladimir Zelenskij sulla continuazione o meno della fantomatica “controffensiva” ucraina.
La questione, ovviamente, è più ampia della disputa tra i due majdanisti, dal momento che in Occidente non si fa ormai più mistero della volontà di imporre a Kiev di sedersi al tavolo delle trattative con Mosca: al momento opportuno ci sarà chi “convincerà” Zelenskij, con le buone o con le cattive, a obbedire.
A ovest ci si limita per ora a sorridere delle sue esternazioni, ripetute anche in occasione della visita a Kiev di Ursula von der Leyen, secondo cui è lui stesso, autonomamente, a prendere qualsiasi decisione e che non sarebbe sottoposto ad alcuna pressione occidentale: «Nessun leader di paesi UE o USA pretende che Kiev sieda al tavolo delle trattative con la Russia», dice lui.
E quando lo dice, sembra persino convinto; come quando decide di annullare le elezioni presidenziali del 2024, perché, a suo dire, farebbero solo «il gioco di Mosca».
Come reagiranno a Ovest? Tanto più che il voto – nel 2019 Zelenskij aveva battuto Petro Porošenko con la promessa di porre fine alla guerra in Donbass – potrebbe essere per lui l’ultima occasione di lasciare il palazzo presidenziale con le proprie gambe e non coi piedi in avanti, se a Washington non saranno riusciti a convincerlo con le buone.
Dunque, in attesa di misure “più drastiche” che possano giungere da Ovest, sia per il voto presidenziale, che per i colloqui con Mosca, Zelenskij acuisce il proprio conflitto con Zalužnij fino al punto di farlo diventare sanguinoso, anche se, per ora, solo per interposta persona del suo aiutante.
Ovviamente, i media ufficiali giurano trattarsi «al 99,99% di una disgrazia», di «gestione incauta di esplosivi» (in casa, con il figlio accanto...) e il capo di gabinetto presidenziale, Andrej Ermak, accusa ovviamente Mosca di seminare zizzania ai vertici di Kiev, anche se nemmeno lui vede la mano russa nell’attentato.
Ma, prima The Guardian nota come, nel caso di Chastjakov, si sia ripetuta la scena del “pacco regalo” già sperimentata con il blogger Vladlen Tatarskij (alias Maksim Fomin). Poi The Washington Post ricorda gli screzi pubblici tra Zelenskij e Zalužnij, soprattutto dopo l’intervista di quest’ultimo a The Economist a proposito della situazione al fronte.
E se la reazione di Zelenskij alle parole di Zalužnij è stata relativamente “tenera”, ecco che il vice addetto presidenziale, Igor Žovka, accusa in TV il Comandante in capo di minare le posizioni ucraine agli occhi degli alleati occidentali.
«L’ufficio presidenziale indebolisce deliberatamente l’influenza di Zalužnij sull’esercito: Zelenskij lo teme come possibile concorrente alle prossime elezioni», dicono i propagandisti majdanisti schierati con il Comandante in capo.
Zelenskij ne ha così paura che prima gli lancia avvertimenti esplosivi e poi annulla direttamente le elezioni, dato che Washington, a quanto si dice, gli avrebbe espressamente proibito di toccarlo.
Ma la cosa più interessante, osserva Komsomol’skaja Pravda, è la reazione del pubblico ucraino all’accaduto: pressoché la totalità degli utenti della rete si dice convinta che l’aiutante di Zalužnij sia stato assassinato su ordine della cerchia di Zelenskij, se non su diretto ordine presidenziale.
Perché, a ben guardare, appare una coincidenza abbastanza strana che in tre giorni il Comandante in capo delle forze armate perda improvvisamente un forte collaboratore come il comandante delle Forze operative speciali, Viktor Khorenko, licenziato da Zelenskij, e ora venga fatto saltare in aria il braccio destro Chastjakov.
Se Zalužnij dichiara a The Economist di voler salvare le vite dei soldati ucraini e non mandarli a morte certa in azioni senza alcuna possibilità di riuscita, afferma in pratica che Kiev è giunta al capolinea e che davvero è il caso di sedersi e trattare.
Ma Zelenskij risponde che ogni colloquio di pace è inaccettabile e costituirebbe un “tradimento del popolo ucraino”: non lo dice, ma sa che, giunti a questo punto, l’unica soluzione è la capitolazione di Kiev.
E Washington, cui le vite dei soldati ucraini non interessano affatto, ha per l’appunto bisogno di una figura che firmi la capitolazione ucraina, per concentrarsi sul fronte mediorientale. Ma che sia una capitolazione, osserva Boris Džerelievskij su Segodnija.ru, che permetta agli USA di mantenere il controllo su una Ucraina fedele serva dell’Occidente.
E tutto questo avviene, secondo quanto scrive The Washington Post, sullo sfondo delle accuse reciproche americano-ucraine per le sconfitte di Kiev sul campo di battaglia.
Dietro le quinte, scrive l’osservatore Max Boot, «esponenti ufficiali ucraini e americani si indicano a dito. In privato, gli americani si lamentano che gli ucraini non siano capaci di destreggiarsi con la condotta di attacchi combinati in stile NATO. A loro volta, gli ucraini si dolgono del fatto che l’Occidente non abbia fornito loro abbastanza armi per sfondare le posizioni fortificate russe e che molte delle armi ricevute siano in cattive condizioni. L’Ucraina» osserva Boot, non ha «sufficienti mezzi per lo sminamento e veicoli corazzati e, soprattutto, un’aviazione abbastanza forte».
A detta di osservatori occidentali, Zelenskij ha tempo fino a gennaio per ubbidire agli ordini yankee: fino al compleanno di Stepan Bandera, che lasciò Monaco coi piedi in avanti.
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