di Francesco Dall'Aglio
Proprio mentre Victoria Nuland si trovava a Kiev, e non è certamente una coincidenza, la NATO (come ho già detto in passato l’Ucraina ormai ci mette solo i corpi, le armi non sono più sue e probabilmente nemmeno la strategia) ha organizzato un attacco congiunto, aereo e navale, sulle installazioni militari della Crimea dal pomeriggio di ieri a stamattina (l’altro ieri c’era già stato un attacco di droni sugli aeroporti, sventato senza eccessivi problemi).
L’attacco, come al solito, è stato preceduto da un gran traffico di aerei spia sul Mar Nero e sulla Romania, almeno sei tra cui anche il nostro PERSEO71, un Gulfstream G550 CAEW del 14° stormo partito da Pratica di Mare (da Sigonella invece sono partiti due aerei USA. Qui qualche info e i tracciati di quattro dei sei aerei).
La prima fase dell’attacco è stata aerea. Da Starokostantinov e Kanatovo si sono alzati tre Su-24 e un numero imprecisato di Su-27 e Mig-29 – non voglio dire tutti gli aerei ancora in grado di volare dell’areonautica ucraina ma poco ci manca. Gli Su-24 e i Mig-29 hanno lanciato una combinazione di ADM-160 MALD e di missili antiradar AGM-88 HARM per ingaggiare le difese antimissile ruse, mentre gli Su-24 hanno lanciato sei Storm Shadow (o SCALP che dir si voglia) in direzione degli aeroporti della Crimea. tutti i missili risultano abbattuti o dalla contraerea o dai caccia russi.
Immediatamente dopo i Su-24 hanno lanciato altri sei missili, stavolta dal mare, in direzione di Sebastopoli e dell’aeroporto di Belbek, che sembra essere stato il bersaglio principale anche del primo attacco. Anche qui i missili sono stati abbattuti, e uno di loro si è sfasciato in prossimità dell’aeroporto senza, pare, fare danni (anche se media come Visegrad 24 eccetera hanno riferito di catastrofiche esplosioni, non compatibili con le immagini da loro stessi diffuse).
A questo doppio e non troppo efficace attacco aereo è seguito nella notte quello navale, con nove droni diretti verso l’ingresso del lago Donuzlav (allego carta) dove si trovava l’Ivanovets, un cutter lanciamissili della classe Proekt 1241 “Molniya” armata di quattro missili antinave P-270 Moskit, in due impianti binati.
La nave è stata colpita più volte e uno degli impatti ha causato la detonazione dei Moskit sulla fiancata sinistra, causando un’esplosione che ha certamente affondato la nave.
Il bersaglio è stato scelto bene (del resto a questo serve la ricognizione NATO): una nave vecchiotta, varata nel gennaio 1989 e mai rimodernata, con sistemi di difesa inadatti a contrastare questo tipo di minaccia e che si trovava dall’inizio della guerra nella rada del Donuzlav a non fare nulla, visto che si tratta di un’unità armata solo di missili antinave (che contro i droni non servono a nulla, ovviamente).
Non un danno notevole per la flotta del Mar Nero ma, certamente, un grave danno d’immagine oltre alla perdita del personale (è improbabile che fosse ad equipaggio completo, ma di sicuro morti ce ne sono. L’equipaggio completo è di 39 marinai).
Soprattutto, l’eterna conferma che la Crimea resta il punto debole dell’architettura difensiva russa, né potrebbe essere altrimenti vista la sua conformazione, il territorio ancora in mano all’Ucraina, e l’interesse quasi maniacale che riveste sia per l’Ucraina (e mi pare logico) che per la NATO: al di là dei risultati ottenuti (non eccelsi, diciamo) nell’attacco di ieri sono stati coinvolti due aeroporti, almeno sette aerei, 12 Storm Shadow e nove droni navali; ossia, per lo stato attuale degli equipaggiamenti ucraini, un’enormità sia in termini di mezzi che di soldi.
Disponendo per ora di questi mezzi, per l’Ucraina è certamente una strategia vincente: il massimo danno, specie d’immagine, col minimo sforzo. Gli attacchi dunque continueranno – già ora ci sono altri aerei spia a incrociare nelle vicinanze della penisola.
Resta da chiedersi, al solito, cosa intenda fare la Russia. Le alternative a sua disposizione non sono moltissime e sono, verrebbe da dire, una peggio dell’altra in termini di potenziali conseguenze, per sé e per tutti (noi inclusi).
Finora, come è ben noto, la strategia è quella di attendere il collasso dell’infrastruttura politico-militare ucraina con una guerra di attrito, senza impegnarsi in operazioni militari rischiose e costose in termini di uomini e materiali. Possono lanciare tutti i droni che vogliono, in sintesi, ma se fra sei mesi non hanno più i soldi per pagare le pensioni non ne spareranno a lungo.
Il concetto non è molto diverso dall’idea occidentale di attendere comodamente il collasso della Russia sotto i colpi delle sanzioni e dell’opposizione interna, collasso che però, come stiamo esperendo, non c’è stato.
Non avendo raggiunto l’obiettivo, la NATO ha dunque aumentato il suo livello di coinvolgimento: resta da chiedersi se anche la Russia sarà disposta a farlo. Se il collasso ucraino non dovesse manifestarsi in tempi relativamente brevi (entro la fine del 2024, diciamo), né sul fronte di guerra né su quello interno, un impegno maggiore, e tutti i rischi del caso, potrebbe essere necessario.
Il che significherebbe per la leadership russa dovere affrontare tre problemi:
1) impegnarsi o meno direttamente contro gli asset militari della NATO, visto che senza gli aerei spia occidentali non sarebbe possibile per l’Ucraina organizzare questo tipo di operazioni. Questo significherebbe dovere abbattere uno di questi aerei (cominciando magari dai droni senza equipaggio), o magari distruggere un satellite con gli ovvi rischi di escalation che la cosa comporta. Oppure c’è la via indiretta, tipo fornire gli S-300 agli Houthi o gli Iskander alla Repubblica Centrafricana. O, per dire, l’atomica all’Iran. Per dire.
2) Impegnarsi o meno in un’operazione militare su larga scala con l’obiettivo di conquistare una larga parte del territorio ucraino (la zona smilitarizzata più estesa di cui ha parlato Putin appena ieri). Questo risolverebbe alla radice il problema delle incursioni, ma comporterebbe perdite molto più elevate e concentrate. Qual è il limite che sia la leadership che la società russa sono disposti ad accettare, fermo restando che entrambe non accetteranno ancora a lungo il livello di perdite corrente senza una reazione?
3) Che poi è una conseguenza del punto 2. Ipotizzare o meno operazioni militari su larga scala che prevedano la distruzione di città come Kharkiv, Poltava e soprattutto Odessa, che non potrebbero essere conquistare senza ridurle preventivamente in macerie. Per quanto la leadership e la società russa si sentano frenate dal fatto che quelle sono città “russe”, resta il fatto che da quelle città partono operazioni militari contro città e unità militari realmente russe, senza virgolette.
C’è poi anche un 4, la questione della Transnistria. La leadership moldava, pienamente sostenuta dalla Romania (cioè dalla NATO) non fa mistero di volerla recuperare, ma lì ci sono non soltanto gli abitanti della Transnistria ma 200.000 cittadini russi.
Se si prospettasse un nuovo Donbass al confine della NATO la Russia dovrebbe intervenire, ma per intervenire da quella parte torniamo ai punti 2 e 3: operazione militare su larga scala, quindi con grandi perdite, e distruzione delle “russe” Cherson e Odessa.
La scommessa di attendere è al momento quella che la Russia ha scelto, per fortuna di tutti: perché se alla fine si rivelasse una scommessa sbagliata le conseguenze non sarebbero la pace, ma un inasprimento del conflitto a livelli finora inimmaginabili.
EDIT: proprio ora è segnalata ulteriore attività di droni aerei e navali al largo della Crimea: Si tratta probabilmente di attività di osservazione, ma non è ancora chiaro.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento