Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

06/11/2024

Presidenziali USA - Trump torna alla Casa Bianca

L’equilibrio alla fine non c’è stato. Il “testa-a-testa” descritto da quasi tutta la stampa europea era solo un wishful thinking, una “speranziella” con scarso fondamento.

“The Donald” torna da trionfatore alla guida degli Stati Uniti e si salva così dalla marea di processi che lo attendono, ormai inutilmente.

Gli “swing states”, quelli sempre incerti tra repubblicani e “democratici” sono stati tutti conquistati, spesso con largo margine. Lo scrutinio è ancora in corso mentre scriviamo – le 8 di mattina, ora italiana – ma lo scarto è quasi sempre tale che anche il voto per corrispondenza, tradizionalmente a favore dei “blu”, difficilmente potrà rovesciare il risultato finale.

In estrema sintesi: con il 95% delle schede scrutinate il Wisconsin dà a Trump il 51,3% contro il 47 a favore di Harris; in Michigan la conta è solo al 70%, ma il vantaggio per l’immobiliarista indebitato è di sette punti percentuali. La Penssylvania, mai davvero in bilico, ha portato i “grandi elettori” per Trump a 267, appena tre in meno della maggioranza assoluta necessaria.

Già così il numero di “grandi elettori” per il tycoon sarebbe sufficiente. In più ha già in tasca l’Alaska (quasi il 20% di scarto, anche se con appena un quarto di schede scrutinate). Solo nel semidesertico Nevada e in Arizona la situazione è ancora incerta, con un divario ridotto ma con pochi “grandi elettori” in gioco. Anche la maggioranza al Senato, decisiva per non dover contrattare continuamente con l’opposizione sulle misure da adottare, è solidamente nelle mani del palazzinaro di Queens.

Dunque i giochi sono fatti, anche se Harris ancora non ammette la sconfitta.

Cosa cambierà, a questo punto, per il mondo e l’America?

Trump ha già trascorso quattro anni alla presidenza, e non si può dire che abbia cambiato granché, né all’interno degli States né nella politica estera.

Certo, c’è stato più spazio per le tradizionali posizioni reazionarie su immigrati, aborto, minoranze etniche, ecc. E sicuramente la “classe media” (una categoria molto elastica che va dalla piccola borghesia alla classe operaia con contratti regolari non precari) non ha visto quasi nulla di concreto nelle mirabolanti promesse elettorali dispensate già otto anni fa.

Quello che è certamente cambiato, all’interno, è stata la dimensione della frattura politica ed istituzionale. Trump – come Berlusconi e le destre europee – ha messo fine al “gentleman agreement” per cui repubblicani e democratici si riconoscevano reciprocamente come legittimati a governare, unendo gli sforzi e cancellando differenze politiche molto superficiali quando si trattava di affermare “gli interessi dell’America”.

Il suprematismo yankee è – ed è stato sempre – il vero collante della classe politica, dell’imprenditoria di qualsiasi dimensione e in fondo dello stesso “sogno americano”.

La rottura introdotta da Trump in questo schema è in effetti notevole: ha tolto il riconoscimento alla controparte, ha cancellato il rispetto della legge e delle sentenze giudiziarie (negli Usa la magistratura inquirente – le Procure, insomma – viene eletta, mentre i giudici sono di carriera), involgarito il dibattito politico fino a ridurlo ad uno scambio di insulti personali da cui esce sempre come il più aggressivo, tranchant, feroce. E dunque “vincente”, come nell’immaginario demente del machismo universale.

Nella politica estera ha aumentato la distanza con l’Europa, quasi svuotato la Nato della sua importanza (e dei finanziamenti), chiamando i partner a farsi carico delle spese militari utili alla politica americana.

Ha sempre pienamente e fanaticamente sostenuto qualsiasi follia suprematista di Israele, indicando nell’Iran (e l’“asse della resistenza”) il nemico numero uno in Medio Oriente.

Ha provato a dividere Russia e Cina, lusingando in minima parte la prima e provocando – anche economicamente, con i dazi – la seconda. Ha ripreso la tradizionale politica di conquista e difesa del “cortile di casa”, ovvero il controllo (difficile) dell’America Latina e di quella Centrale. Dunque non è una buona notizia la sua rielezione, per Cuba, Venezuela e gli altri paesi dell’Alba. Così come lo è per i palestinesi e l’Iran.

A differenza di otto anni fa, quando entrò per la prima volta alla Casa Bianca, c’è però un fenomeno internazionale nuovo come i Brics+, che si vanno allargando e arricchendo di candidature proprio perché quasi tutti i paesi del mondo si rendono ormai conto di avere una possibilità di svilupparsi davvero solo sottraendosi al dominio del dollaro e dunque degli Stati Uniti.

E proprio questa differente catena di relazioni internazionali, che già ora comprende parti importanti del mondo musulmano, sia sciita che sunnita, sembra costituire un intralcio serio anche alla dichiarata volontà Usa (bipartisan, ma certo più estrema nella retorica trumpiana) di aggredire Tehran sia attraverso Tel Aviv che direttamente.

Come si vede, si tratta di un quadro parecchio più articolato – ed anche pericoloso – di quello tratteggiato dagli speranzosi “democratici” europei, che già vanno velocemente cancellando tutti i post e le dichiarazioni che lo indicavano come un “pericolo per la democrazia”, pronti come sempre a baciare la scarpa dell’Imperatore di Washington.

Un quadro che indubbiamente spinge a moltiplicare gli sforzi per irrobustire la resistenza antimperialista e antifascista, mettendo definitivamente in soffitta le illusioni sul ruolo “civilizzatore” degli Stati Uniti.

L’imperatore è nudo, fa schifo e si vede benissimo. Nessuna cipria lo può più nascondere. Va solo contrastato davvero.

Fonte

“Harris e Trump non sono uguali, ma sul modo di gestire la crisi egemonica americana si somigliano”

Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica all’Università Federico II di Napoli e promotore dell’appello su “Le condizioni economiche per la pace”, pubblicato dal “Financial Times” e “Le Monde” (autore dell’omonimo libro uscito quest’anno per i tipi di Mimesis), conduce da tempo una battaglia per aggiornare le analisi politiche internazionali utilizzando strumenti teorici critici all’altezza delle grandi trasformazioni in corso. Lo abbiamo intervistato per approfondire il tema centrale delle ragioni dei conflitti armati.

Professor Brancaccio, le guerre non si fermano. Anzi sembrano preludere a una escalation dalle conseguenze imprevedibili. Uno scenario inevitabile?

Uno scenario forgiato da forze profonde, che le analisi alla moda colpevolmente trascurano. Mi riferisco alle determinanti “economiche”, o più precisamente “materiali”, dei conflitti militari. Se ne parla poco, ma gli interessi “materiali” rappresentano un fattore chiave di attivazione dei conflitti militari.

Vale anche per il conflitto israelo-palestinese?

L’attacco di Hamas in territorio d’Israele e i massacri di palestinesi a opera dell’esercito israeliano, sia prima sia dopo il 7 ottobre, vengono solitamente considerati un tipo di guerra completamente estranea alle controversie economiche. I commentatori mainstream ritengono che lì la controversia sia semplicemente di natura etnica, religiosa, culturale o, al limite, territoriale. Si sbagliano.

In effetti, nel conflitto Israele-Palestina l’elemento terra è stato da sempre storicamente centrale...

Il fattore territoriale è certamente rilevante, anche per ragioni di pressione demografica. Diversamente da quel che avviene in Italia o in buona parte dell’Occidente, Israele e la Palestina hanno entrambi tassi di crescita della popolazione tuttora importanti. Questo elemento esercita una pressione fortissima su un territorio molto limitato. Tuttavia, la spiegazione “territoriale” da sola non basta per comprendere il quadro attuale. Esistono anche altri fattori di conflitto, ancora più rilevanti.

Quali altre ragioni della guerra sarebbero in campo?

Per capire di che parliamo dobbiamo partire da lontano e inquadrare tutte le guerre, incluso il conflitto israelo-palestinese, nell’attuale scenario di divergenza economica tra le grandi potenze. L’elemento chiave, in questo scenario, è la grande svolta di politica economica degli Stati Uniti verso il protezionismo. Dopo essere stati gli apologeti della globalizzazione capitalistica e dell’apertura dei mercati al libero commercio e alla libera finanza mondiale, a un certo punto gli Usa si sono resi conto che il processo di globalizzazione non stava facendo bene al capitalismo americano. Anzi, stava aprendo la via a una possibile crisi egemonica dell’economia americana.

Un’America che si pente della globalizzazione?

Lo possiamo notare guardando vari indicatori che evidenziano alcune difficoltà crescenti per l’economia americana. Uno di questi indicatori è l’indebitamento degli Stati Uniti verso l’estero. La cosiddetta “posizione netta verso l’estero” degli Stati Uniti (in economia è la differenza tra le attività e le passività finanziarie esterne di un Paese, ndr) va verso un passivo di ventimila miliardi di dollari. È un record negativo senza precedenti, che mostra come gli Stati Uniti siano entrati in contraddizione con la loro vecchia apologia del libero scambio.

Da qui parte il protezionismo americano?

Sì. I primi segni della svolta protezionista americana si registrano già dalla grande crisi finanziaria del 2008, sotto l’amministrazione Obama. La politica protezionista prosegue quindi in maniera più plateale con Donald Trump, va avanti anche sotto l’amministrazione Biden, e sarà certamente confermata dal prossimo presidente, che si tratti di Trump o di Harris.

Quindi, da questo punto di vista, secondo lei non c’è differenza tra i programmi dei due candidati alla presidenza Usa?

Le differenze sono nella politica economica interna, con Harris e i democratici più orientati a concedere qualcosa al rinascente movimento sindacale, mentre Trump e i repubblicani hanno un’agenda tutta centrata sulla difesa dei proprietari. Ma sul terreno delle relazioni internazionali le posizioni dei due candidati sono simili: dire addio al vecchio globalismo per imporre al mondo un nuovo regime di protezionismo commerciale e finanziario. A questa svolta gli americani hanno anche dato un nome: friend shoring. Significa che vogliono dividere l’economia mondiale in due blocchi, gli “amici” con cui proseguire gli affari e i “nemici” da tenere alla larga.

Una novità assoluta nel mondo contemporaneo: un mercato selezionato?

Sì, un protezionismo discriminante, che distingue tra Paesi e Paesi. Gli Stati Uniti ci spiegano che, da ora in poi, intendono portare avanti relazioni economiche solo con gli “amici” occidentali della Nato e i suoi alleati. Invece, vogliono elevare barriere commerciali e finanziarie con quei Paesi che non sono allineati alla politica di Washington e della Nato e che risultano anche creditori verso il resto del mondo. Ovviamente, nella lista di questi “nemici” c’è in primo luogo la Cina, che vanta un credito verso l’estero ormai di quattromila miliardi di dollari. Ma ci sono anche la Russia, diversi Paesi mediorientali esportatori di energia e che non sono allineati a Washington, e altri creditori non inquadrabili nella politica estera occidentale.

Quali saranno gli effetti di questa svolta protezionista americana?

Uno degli effetti è che gli Stati Uniti stanno cercando di contrastare in tutti i modi i tentativi di espansione internazionale delle vie commerciali e finanziarie promosse dalla Cina. Pensiamo alla “nuova Via della Seta”, un sistema di infrastrutture materiali e immateriali con cui i cinesi stanno cercando di connettersi sempre di più verso l’Ovest del mondo. Gli Stati Uniti osteggiano in tutti i modi questo progetto e premono sugli altri Paesi occidentali per impedir loro di aderire. Questa pressione diplomatica americana, come sappiamo, ha funzionato molto bene con il governo italiano. Giorgia Meloni ha deciso di stracciare gli accordi infrastrutturali che il governo Conte aveva precedentemente stipulato con i cinesi. Così, l’Italia prima ha aderito alla “nuova Via della Seta” cinese, poi è stata costretta a rimangiarsi la parola.

Quindi l’obiettivo americano principale è di boicottare le vie commerciali e finanziarie cinesi verso l’Occidente?

Non solo. Gli Stati Uniti promuovono anche vie di interscambio alternative alla via della seta. Una di queste vie si chiama Imeec: il “corridoio India-Medio Oriente-Europa”. È un grande progetto che mira a costruire collegamenti commerciali, logistici e di telecomunicazioni che, partendo dall’India, dovrebbero attraversare le zone calde del Medio Oriente per giungere all’estremità occidentale dell’Europa. È un corridoio fortemente voluto dagli Stati Uniti proprio come grande alternativa strategica e protezionistica alla politica cinese della “nuova Via della Seta”. L’Imeec tuttavia ha un grosso problema...

Quale?

Gli americani sanno che per completare l’Imeec è necessario “stabilizzare” l’area mediorientale attraverso cui il corridoio deve passare. La stabilizzazione politica, infatti, è un requisito essenziale per favorire lo sviluppo dei commerci e delle relazioni economiche di un’area, tanto più se la si vuole trasformare in una zona di transito di enormi volumi di merci, informazioni e denaro. A questo scopo, il primo problema da risolvere è la cosiddetta “normalizzazione” dei rapporti diplomatici tra Israele e i principali Paesi dell’area mediorientale. Per perseguire questo obiettivo, gli Stati Uniti hanno promosso i cosiddetti “accordi di Abramo”. Questa iniziativa diplomatica comincia sotto l’amministrazione Trump, prosegue con Biden e dovrebbe andare avanti anche in futuro, che vinca Harris o Trump. Anche in questo caso abbiamo continuità di obiettivi tra i candidati.

Dopo il 7 ottobre 2023, però, gli accordi di Abramo sono saltati...

Poche settimane prima dell’attacco di Hamas in territorio israeliano, si stava quasi per giungere a una firma cruciale, per la “normalizzazione” dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita. Dopo il 7 ottobre il processo si è bloccato. Il problema degli accordi di Abramo è che sotto il tavolo delle trattative diplomatiche hanno sempre lasciato una grossa “bomba” innescata: è la questione palestinese, che non è stata mai seriamente affrontata nelle trattative. Quegli accordi hanno sciolto tutta una serie di nodi di ordine economico e diplomatico, ma hanno lasciato in sospeso il dramma palestinese. A un certo punto, com’era prevedibile, la “bomba” è esplosa. Così, anche gli accordi di Abramo e l’avanzamento del corridoio Imeec si sono interrotti.

Come si affronta dunque il nuovo scenario dopo il 7 ottobre?

Ci sono due strategie diplomatiche, una “morbida” e l’altra “dura”. La strategia “morbida” è quella ufficiale degli Stati Uniti, che almeno stando alle dichiarazioni vorrebbero seguire la via degli accordi di Abramo per continuare a normalizzare i rapporti con Israele e stabilizzare il Medio Oriente per via consensuale e diplomatica, nonostante tutto. La strategia “dura” è invece quella israeliana del governo Netanyahu, che considera apertamente falliti tutti i tentativi consensuali di stabilizzazione dell’area. Per il governo israeliano, la fase storica è ormai completamente cambiata. Per normalizzare i rapporti in Medio Oriente e sviluppare il corridoio Imeec alternativo alla via della seta cinese, la strategia “morbida” basata su meri avanzamenti diplomatici non è più perseguibile. L’unica opzione realistica rimasta in campo è quella “dura”: vale a dire, il tallone di ferro, la forza militare, inclusi i massacri di civili, per dimostrare che Israele è l’unico soggetto dotato della forza militare necessaria per proteggere lo sviluppo dei commerci della zona lungo direttrici filo-occidentali. Se ci pensiamo bene, questo è uno dei motivi per cui il governo israeliano ha alzato la tensione anche con il Libano e l’Iran, e ha di fatto aperto un conflitto diplomatico e militare con l’Onu e le sue forze di interposizione. Insomma, Israele sta usando dosi massicce di violenza in tutta l’area, allo scopo di proporsi come il dominatore indiscusso del Medio Oriente, e quindi anche come l’unico attore in grado di garantire il corridoio Imeec al quale gli americani tanto tengono. Alla fine, sembra proprio che la strategia israeliana stia prevalendo. Negli Usa siamo in una fase elettorale, c’è molta riluttanza ad affrontare apertamente il punto. Ma al di là dei comizi e delle parole di circostanza, sembra che a Washington ormai in tanti condividano la strategia israeliana della violenza per stabilizzare il Medio Oriente, e dare così via libera agli affari lungo il corridoio anti-cinese. Anche su questo punto, le differenze tra i due candidati alla presidenza Usa non sembrano sostanziali.

Possiamo considerare questo scivolamento verso la violenza militare in Medio Oriente come una conseguenza indiretta del friend shoring americano?

Il friend shoring ha avuto certamente un ruolo. In fin dei conti, la svolta Usa verso una linea protezionista che punta apertamente a dividere l’economia globale in due blocchi, di “amici” e “nemici”, porta come logica conseguenza che le vie di transito e le linee di interscambio commerciale e finanziario vengano scortate da ammassi sempre più imponenti di truppe e di cannoni. Vale per tutte le aree calde del mondo, e quindi anche per il Medio Oriente.

Però i conflitti nell’area mediorientale scoppiavano anche prima del 2008, anno della svolta americana verso il friend shoring. Pensiamo all’invasione dell’Iraq del 2003, per esempio.

Certo, ma anche in quella circostanza gli interessi materiali erano dominanti. Quella era la fase in cui gli Stati Uniti portavano avanti una linea di politica economica estera che si basava su quello che ho definito un “circuito militar-monetario”. In parole semplici, significa che all’epoca gli Usa impiegavano ingenti risorse finanziarie per sostenere i costi delle loro guerre nel mondo, dall’Afghanistan all’Iraq. Queste guerre avevano una natura tipicamente “imperialista”, nel senso che erano attivate da enormi interessi economico-finanziari. Tra questi, c’era il controllo dei grandi giacimenti di risorse naturali dei Paesi aggrediti al fine di migliorare la bilancia energetica americana, all’epoca in pesante passivo verso l’estero.

Dopodiché i soldati si sono ritirati e gli Usa pare abbiano scelto un’altra posizione nei confronti dei conflitti all’estero. Ci sono sempre spiegazioni economiche di questi cambi di rotta?

Le ragioni economiche essenzialmente sono due. In primo luogo, la nuova tecnologia per estrarre petrolio, detta fracking, ha indubbiamente consentito agli Stati Uniti di migliorare un po’ la bilancia energetica verso l’estero, riducendo così l’urgenza di andare a conquistare giacimenti nel mondo attraverso la forza. Ma soprattutto, a causa dell’indebitamento generale verso l’estero è entrato in crisi quel modello di “circuito militar-monetario” con cui gli Usa si indebitavano verso l’estero anche per sostenere le varie campagne militari nel mondo necessarie a preservare gli obiettivi “imperialistici” del capitalismo americano. In sostanza, le campagne militari a un certo punto sono entrate in contraddizione con i limiti dell’indebitamento americano verso l’estero. Il ritiro delle truppe dai luoghi di conflitto è il segno più plateale della crisi del vecchio “circuito militar-monetario” americano.

Le difficoltà degli Stati Uniti si registrano anche riguardo al ruolo del dollaro. La cosiddetta “de-dollarizzazione” è una possibilità concreta?

È certamente un obiettivo dichiarato dei cosiddetti Brics, il raggruppamento dei Paesi emergenti riuniti intorno alla Cina per cercare di creare un sistema di relazioni internazionali diverso da quello che ruota intorno agli Stati Uniti e al biglietto verde. Bisogna però dire che il processo di “de-dollarizzazione” sta avanzando anche per le scelte strategiche degli stessi americani. L’esempio più lampante è proprio il protezionismo del friend shoring. Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali stanno comunicando alla Cina e agli altri grandi creditori d’Oriente che i capitali in dollari, che hanno accumulato nel corso degli anni attraverso l’esportazione e i liberi commerci, non possono più essere utilizzati in Occidente, perché adesso vigono le barriere commerciali e finanziarie. È chiaro che questa strategia ha uno spiacevole effetto collaterale: indebolisce il ruolo del dollaro come moneta di riserva e di scambio internazionale, perché ora i possessori orientali non sono più certi di poter usare i biglietti verdi per i loro affari. Insomma, avendo svoltato verso il protezionismo, gli Usa devono conseguentemente anche accettare un indebolimento del dollaro come moneta di riserva internazionale. Ciò significa che proprio il friend shoring americano contribuisce al processo di “de-dollarizzazione”. È uno dei grandi paradossi di questo tempo, che si manifesta sul grande nodo della moneta perno del sistema mondiale. La storia del capitalismo insegna che questa è una questione cruciale. Come avvenne con la crisi della sterlina e dell’impero britannico esplosa all’inizio del secolo scorso, gli scontri sulla moneta di riferimento del sistema possono rivelarsi un innesco chiave di conflitti militari di vasta portata.

Un’ultima domanda sulle elezioni Usa. Lei sostiene che sull’agenda di politica estera i due candidati si somigliano. Però Trump dichiara di avere una soluzione per chiudere la guerra in Ucraina, sembra più orientato a trovare un accordo con Putin. La convince l’agenda “pacifista” del candidato repubblicano?

No. Trump vorrebbe portare avanti una strategia simile a quella di Nixon: dividere Russia e Cina per preservare l’egemonia americana. La novità è che, mentre Nixon cercava accordi coi cinesi per isolare la Russia sovietica dell’epoca, Trump vuol fare accordi coi russi per isolare la Cina. L’idea è che i cinesi sono i veri nemici economici dell’America ed è quindi su di essi che gli Stati Uniti dovranno concentrare le barriere, le sanzioni e i cannoni. Più che un’agenda “pacifista”, mi sembra una linea retta verso l’escalation militare globale.

Fonte

Presidenziali USA - Pechino pronta allo scontro globale, che sia Harris o Trump il presidente

Tra gli spettatori molto interessati al risultato delle presidenziali americane c’è anche la Cina, superpotenza dell’Asia che gli Stati Uniti considerano una “nemica” da contenere ad ogni costo, e non solo economicamente.

Nella visione di Pechino se alla Casa Bianca il prossimo anno ci sarà Kamala Harris o Donald Trump non farà molta differenza: Washington continuerà la sua politica ostile. E l’Europa, a ruota degli Usa, rischia di pagare un costo alto per questa politica di scontro.

Ne abbiamo parlato con il giornalista e analista Michelangelo Cocco, esperto di Cina.

Fonte

05/11/2024

Raw - Una cruda verità (2016) di Julia Ducournau - Minirece

Presidenziali USA - Cosa cambierà il voto per la Russia?

Nonostante Donald Trump si sia vantato, negli ultimi giorni di campagna elettorale, di avere avuto una politica dura nei confronti di Mosca durante la sua presidenza, buona parte dell’opinione pubblica russa spera in una vittoria dell’ex presidente repubblicano.

Un piano di pace con l’Ucraina potrebbe in effetti essere più probabile con Trump alla Casa Bianca ma rimane il dubbio sulla fine delle sanzioni, obiettivo di primo piano per Vladimir Putin.

Ne abbiamo parlato con Francesco Dall’Aglio, studioso ed esperto di Europa orientale.

Fonte

Italia - A che punto è la transizione energetica?

Calano le emissioni di gas serra (nel 2023 si sono ridotte del 6% rispetto a quelle del 2022), ma il Paese è ancora molto dipendente dalle fonti fossili; non si arresta il consumo di suolo che interessa il 7,14% del territorio nazionale e aumentano le immatricolazioni delle auto (poche quelle elettriche). L’Italia delle green economy a tratti marcia nella direzione giusta, a tratti discontinua, quando non lontana anni luce dagli obiettivi. Ed è la fotografia scattata nella Relazione sullo Stato della Green Economy presentata in apertura degli Stati Generali della Green Economy 2024, la due giorni green a Rimini nell’ambito di Ecomondo. Lo ha detto lo stesso ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin che, intervenuto a Ecomondo, ha parlato di nucleare (annunciando una legge delega, ndr), fossili e pure della legge sul consumo di suolo, che ancora non c’è. “Il nostro è un Paese – ha detto – ancora molto dipendente dal fossile anche se tra pochi mesi cominciamo a chiudere con il carbone, almeno nella parte continentale. Sicuramente non oltre l’autunno 2025”. Al di là dei fallimenti e dei risultati fin qui ottenuti, restano le sfide da affrontare.

Edo Ronchi: “Non tutti marciano nella stessa direzione” – “L’aggravamento della crisi climatica, molto rapido in Italia, resta la principale sfida che dobbiamo affrontare” ha spiegato Edo Ronchi, presidente della Fondazione Sviluppo Sostenibile. Nel 2023 sono stati 3.400 gli eventi meteoclimatici estremi che hanno colpito l’Italia, alcuni dei quali veri e propri disastri che trovano territori e politica nazionale impreparati. Qualcosa è stato fatto. Oltre alla riduzione delle emissioni di gas serra, Ronchi ha ricordato che “le rinnovabili elettriche hanno ripreso a crescere e facciamo passi avanti anche nella circolarità della nostra economia. Ma è ancora troppo poco – ha aggiunto – non solo perché la sfida è globale e di vasta portata, ma perché non remiamo insieme, tutti nella stessa direzione. Alcuni rallentano l’impegno per altri obiettivi e altre priorità”. Un esempio è proprio quanto avviene con le stesse rinnovabili. Il risultato? “Il quadro complessivo della transizione ecologica, risulta variegato, con alti e bassi, con poco slancio, con difficoltà, al di sotto dei suoi potenziali”.

Calano le emissioni, rinnovabili in ripresa (ma dovrebbero correre il doppio) – Sono diminuite di oltre 26 milioni di tonnellate le emissioni di gas serra, oltre il 6%, per la prima volta sotto i 390 milioni di tonnellate di gas serra. È la più grande riduzione registrata in Italia dal 1990, se si escludono il 2009, il 2013 e il 2020, tutti anni di importanti crisi economiche. Mantenendo questo trend l’Italia raggiungerebbe l’obiettivo del -55% al 2030. Nel 2023, l’elettricità da fonte rinnovabile in Italia ha superato il 44% della produzione totale. La nuova capacità di generazione è salita a circa 3 gigawatt nel 2022 e a quasi 6 gigawatt nel 2023. Nel primo semestre del 2024 è aumentata di 3.691 MW, +41% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Un trend positivo per il fotovoltaico, ancora insufficiente per l’eolico. I dati preliminari per il 2023 vedono miglioramenti per le rinnovabili elettriche: lo scorso anno per la prima volta sole e vento hanno generato oltre 50 TWh di energia elettrica, ossia un quinto della produzione nazionale di elettricità. Per raggiungere gli obiettivi europei al 2030, però, la potenza installata dei nuovi impianti dovrebbe aumentare a 11/12 gigawatt all’anno. A Ecomondo, però, il ministro Pichetto Fratin ha parlato del nucleare, su cui in Italia il dibattito è più che mai acceso e ha annunciato che la legge delega arriverà “entro un paio di mesi. Stiamo definendo l’articolato” ha precisato. Attirando le critiche di Sergio Costa, vicepresidente della Camera: “Trovo sorprendente e fuori luogo che il ministro Pichetto scelga il palco di Ecomondo, una fiera dedicata sostenibilità e transizione ecologica, per annunciare una legge delega sul nucleare”.

Il ministro Pichetto Fratin: “Il Pnacc non è su un binario morto” – Nel frattempo, però, gli effetti del cambiamento climatico uccidono e seminano danni in diverse regioni. “Dobbiamo correre ai ripari più in fretta possibile” ha commentato il ministro dell’Ambiente, secondo cui “da un lato sono necessarie tante piccole opere di manutenzione, dall’altro tante grandi opere non fatte per anni, perché non se ne sentiva l’esigenza. Non si percepiva lo stato di gravità”. E ancora: “Si tratta di creare invasi per raccogliere l’acqua quando ne viene troppa e rilasciarla quando c’è siccità, si tratta di creare aree di esondazione, si tratta di valutare con equilibrio gli argini dei fiumi e dei torrenti rispetto alla tutela ambientale della biodiversità, ma anche alla vivibilità delle persone che abitano intorno”. Però questi interventi (e tutti gli altri necessari) non sono già indicati nel Piano di adattamento ai cambiamenti climatici, da più parti definito poco concreto e più di indirizzo rispetto a ciò che effettivamente devono fare i vari attori coinvolti. “Il Pnacc non è finito su di un binario morto” ha spiegato Pichetto, rispondendo a una domanda, ma “indica 361 azioni. Alcune sono energetiche, e sono in attuazione. Altre sono ambientali, e sono anche loro in attuazione. Altre sono indirizzi che vanno nei vari decreti. Altre ancora sono grandi opere, che investono lavori per decenni”.

Continua il consumo di suolo, 19,4 ettari al giorno – Molto, però, già si potrebbe fare (e non viene fatto) sul fronte dell’adattamento. A iniziare dal consumo di suolo. Eppure la legge chiesta da anni non c’è ancora. Pichetto dice di puntare alla sua approvazione “entro la fine della legislatura”. Nel frattempo, tra il 2021 e il 2022 il consumo di suolo è stato di 70,8 chilometri quadrati, pari a 19,4 ettari al giorno e non ha risparmiato neanche le aree a pericolosità idraulica. È il valore più elevato a partire dal 2012, a fronte di una diminuzione della popolazione di circa 206mila unità. Il suolo consumato copre il 7,14% del territorio nazionale. Nel 2022 i principali interventi di artificializzazione del territorio si sono verificati in pianura Padana e lungo la fascia costiera Adriatica. La crisi climatica, però, porta anche periodi prolungati di siccità e una riduzione della disponibilità media annua di acqua, con le perdite della rete pari al 42,2% a livello nazionale e al 50,5 % nel Sud. In questo contesto, nel 2023 la crisi climatica ha portato a una riduzione delle produzioni del 2,5%. Tra i segnali positivi c’è l’aumento delle superfici coltivate con metodo biologico, che al 31 dicembre 2023, sono aumentate del 4,5 % (dell’86,5% negli ultimi 10 anni). La Sicilia è la regione con la maggiore estensione in valore assoluto (413.202 ha, con un incremento del 6,7% rispetto al 2022), seguita da Puglia e Toscana. Stando ai dati, in Italia le coltivazioni biologiche corrispondono al 19,8% della superficie agricola utilizzata totale.

Efficienza energetica: bene edifici e industria, male i trasporti – Nella relazione sugli Stati generali della Green economy si spiega, poi, che nel 2023 i consumi di energia in Italia sono calati di 4 Mtep (mega tonnellate equivalenti di petrolio) quelli di gas di 5,6 Mtep, di carbone di 2,2 Mtep e di prodotti petroliferi di 1 Mtep. Gli edifici, al 2023, sono il settore più energivoro con oltre il 40% della domanda nazionale di energia, anche se hanno ridotto i propri consumi del 5,5%. I trasporti sono il secondo settore per consumi di energia (35%) e sono l’unico in cui anche nel 2023 i consumi sono aumentati del 2,2%. L’industria, con il 21% dei consumi finali nazionali nel 2023, ha fatto registrare un taglio del 6%. Ma i trasporti vanno male per diverse ragioni. In Italia nel 2023 si sono raggiunte 41 milioni di auto circolanti, e nel 2023 sono cresciute del 19% le immatricolazioni. Con 694 auto ogni mille abitanti è il Paese europeo con più auto nonostante l’industria sia in declino da anni: per stare nella media Ue di 560, ci dovrebbero essere 8 milioni di auto in meno. Nel 2023 le immatricolazioni delle auto alimentate a benzina sono aumentale del 22,5%, quelle dei diesel del 6% e quelle con alimentazioni alternative solo dell’1%. Il parco circolante sfiora i 41 milioni di auto, l’84% a benzina o diesel. Ancora bassa la quota di elettriche circolanti nel 2023: circa 66mila a batteria (BEV), il 4,2% del totale, e 69mila, plug-in. Su cui pure piovono critiche. Per quanto riguarda l’economia circolare, per ogni chilogrammo di risorsa consumata, l’Italia ha generato 3,6 euro di Pil (il 62% in più rispetto alla media Ue), un risultato che la pone al primo posto in Unione europea, seguita da Spagna e Francia (3,1). L’Italia è anche prima in Europa per tasso di riciclo dei rifiuti con il 72%. “Nel 2022, il tasso di riciclo dei soli rifiuti urbani – si spiega nella relazione – si è attestato al 49,2% (+1% rispetto al 2021) mentre i rifiuti speciali sono diminuiti del 2,1%.

Fonte

Valencia, la crisi climatica è qui: ma chi lo dice rischia la galera

Quest’anno gli orrori del mondo reale hanno sostituito quelli posticci dell’orrenda invenzione statunitense di Halloween. Orrori prodotti dalla dominazione occidentale del mondo, si tratti del genocidio del popolo palestinese, che gli occupanti israeliani stanno facendo morire di fame e malattie col sostegno dei loro complici, tra cui il governo Meloni, o della catastrofe di Valencia con centinaia di vittime annegate.

Il colpevole di quest’ultima? Verrebbe di dare ipocritamente la colpa al cambiamento climatico, ma sarebbe come addebitare al fuoco vittime e danni di un incendio appiccato da un piromane.

La scienza ha fatto da tempo chiarezza su cause e conseguenze del cambiamento climatico, provocato dall’effetto serra generato dal modello energetico imperniato sul fossile (petrolio, carbone, gas).

Ma una classe dirigente zoticona ha fatto tesoro della propria sconfortante e irrecuperabile ignoranza per poter svolgere al meglio il proprio ruolo di marionette della grande finanza, i padroni del mondo ben descritti nel bel numero di MillenniuM in edicola, che continuano ad investire nel fossile e in altri settori ad altra efficacia distruttiva come gli armamenti.

Di florilegi della distruttiva ignoranza di troppa parte dei “nostri” politici sono ahimè piene le sconsolanti cronache da vari anni a questa parte. Si vedano da ultime le sconcertanti esternazioni di Salvini sul fatto che d’inverno fa freddo e d’estate fa caldo, “che c’è di strano”? Banalità allucinanti ben funzionali a coprire l’ecocidio di cui il ministro dei Trasporti è un aficionado, come dimostrato fra l’altro dal devastante progetto del Ponte sullo Stretto.

In questo senso la classe politica italiana, quanto meno quella di governo, ma non è detto che il PD sia sempre meglio, è addirittura peggio di quella spagnola, anche se va detto che le determinanti di fondo sono le stesse in tutto l’Occidente: predominio delle lobby finanziarie, taglio della spesa pubblica a finalità ambientale, incuria del territorio, smantellamento delle strutture di protezione civile, incapacità totale di orientare il sistema produttivo verso le energie rinnovabili come confermato dal misero fallimento delle politiche europee in materia.

Si vedano da ultimi i pesanti tagli ai bilanci del ministero dell’Ambiente e alle somme stanziate per incentivare la produzione di automobili elettriche, un settore, come anche quello in genere delle fonti rinnovabili, nel quale la Cina è molto più avanti grazie alla superiorità del sistema (la pianificazione -ndR) socialista.

E non basta. Non solo il governo liquida in anticipo la risposta preventiva al cambiamento climatico, ma procede altresì sordamente colla repressione dei movimenti che ne denunciano responsabilità e conseguenze: è infatti noto che tra i bersagli del famigerato disegno di legge 1660, indebitamente intitolato alla sicurezza, ci sono proprio gli attivisti ambientali.

Se l’Italia non fosse la penosa caricatura di Stato che è, dovrebbero invece essere proprio loro, e non già i rampolli delle dinastie che hanno basato su mafia e corruzione le loro fortune, a ricevere le onorificenze della nostra povera Repubblica.

I loro meriti sono infatti grandi, dato che sfidano la polizia, impropriamente degradata a violento servizio d’ordine delle lobby, e il carcere per tentare di aprire gli occhi di un popolo bovino e rassegnato che vive alla giornata e ha perso ogni dignità di soggetto collettivo, abbandonando il proprio presente e il proprio futuro al potere economico e politico fautore della guerra e della devastazione ambientale.

Un popolo visibilmente frastornato da oltre trent’anni di berlusconismo e centro-sinistra, che attende rassegnato la prossima catastrofe, sia essa ambientale o bellico-nucleare.

A testimonianza della tristezza estrema della situazione italiana stanno anche la povertà e l’inconcludenza della giurisprudenza in materia di sanzionamento della responsabilità del cambiamento climatico, a fronte di quella ben più coraggiosa di altri Paesi. Una recente sentenza del Tribunale di Roma è giunta addirittura ad affermare l’esistenza di un difetto assoluto di giurisdizione in materia.

Peraltro tali penose vicende, unitamente ad altre, quali la reticenza a prendere in considerazione l’esposto-denuncia contro le complicità italiane nel genocidio palestinese, dimostrano come l’intento di “impaurire i magistrati” giustamente denunciato dall’Associazione nazionale magistrati si sia almeno in parte realizzato.

Non si può del resto pretendere che siano i magistrati a raddrizzare un sistema, pure profondamente illegale e anticostituzionale che, per riprendere il paragone idraulico, fa acqua da tutte le parti e che andrebbe rovesciato al più presto e sostituito con un altro che metta finalmente al centro delle sue preoccupazioni l’essere umano e la natura e non i profitti e gli interessi del pugno di ricchissimi alienati che dominano il pianeta in corsa verso la catastrofe.

Ma quali le forze politiche, sociali e culturali adatte a tale compito?

Fonte

Gaza - Accordo tra Al Fatah e Hamas sul futuro della Striscia

Lo scorso fine settimana, Fatah e Hamas hanno firmato un accordo al Cairo per istituire un governo tecnico congiunto per governare Gaza come parte della ricostruzione postbellica, lo riferisce l’agenzia di stampa Anadolu. L’Egitto ha ospitato colloqui tra i due gruppi palestinesi sabato scorso per discutere la formazione di un comitato congiunto per gestire Gaza dopo la guerra.

Secondo il rapporto, l’accordo cerca di istituire un’unica amministrazione per gestire lo sforzo di ricostruzione e fornire servizi di base a Gaza.

Il nuovo governo, composto da tecnocrati di entrambi i partiti, si concentrerà sulla fornitura di servizi essenziali e sulla ricostruzione, afferma il rapporto.

“Siamo fermi sul benessere del popolo di Gaza e attendiamo con impazienza un unico governo palestinese che metta la ricostruzione e i bisogni umani al di sopra della competizione politica”, ha detto un portavoce di Hamas.

Domenica scorsa Taysir Nasrallah, dirigente di Al Fatah, si era detto ottimista sui colloqui in corso con Hamas per formare un comitato congiunto per governare la Striscia di Gaza dopo la brutale guerra di Israele contro l’enclave, riferisce l’agenzia Anadolu.

“L’incontro cerca di unificare le visioni sulla ricostruzione di Gaza e sulla situazione nell’enclave dopo la fine dell’aggressione israeliana”, ha detto Taysir Nasrallah, “La tendenza generale va verso la ricostruzione dell’enclave, la fornitura di aiuti e la gestione del territorio in coordinamento tra i due gruppi, sotto l’egida dell’Autorità palestinese”.

Secondo un funzionario di Hamas, alcuni colloqui avvenuti al Cairo con Fatah, insieme con rappresentanti dell’intelligence egiziana, si sono conclusi con un accordo per la formazione di un comitato che amministrerà Gaza dopo la guerra, riferisce il quotidiano del Qatar Al Araby al Jadeed. La fonte ha riferito che Hamas ha presentato un progetto dettagliato anche sui poteri del comitato, mentre la delegazione di Fatah ha chiesto una revisione della sua leadership centrale, che richiede ulteriori incontri.

In precedenza, il giornale qatariota aveva rivelato che, dopo consultazioni interne, Hamas ha mostrato flessibilità riguardo alla proposta di formare un comitato che dovrà essere decretato dal presidente dell’Autorità palestinese e composto da tecnici. Secondo al Araby al Jadeed, il comitato dovrebbe gestire gli affari civili e di soccorso nella Striscia, oltre a supervisionare il lavoro dei valichi.

Fonti diplomatiche vicine al ‘dossier’ indicano che sia l’Egitto che il Qatar stanno cercando di superare le “nuove sfide” poste dalle proposte discusse nei giorni scorsi a Doha e al Cairo, incentrate su “una tregua breve” che servirebbe a “generare fiducia per raggiungere un accordo integrato”. Tuttavia, diversi “ostacoli” sono emersi in questa proposta, che indica una tregua a Gaza indipendente dalla situazione in Libano, cosa che né Hezbollah né Hamas sembrano disposti ad accettare, chiedendo in cambio un piano globale di cessate il fuoco.

Ma sul versante israeliano procedono invece i progetti per rendere l’occupazione di Gaza irreversibile. Con lo slogan “Gaza è nostra, per sempre”, un gran numero di estremisti israeliani e politici di destra si sono incontrati nell’insediamento di Be’eri, vicino alla regione di confine con Gaza, il 20 e 21 ottobre scorsi. Tra loro c’erano i ministri israeliani Itamar Ben-Gvir, May Golan e Bezalel Smotrich, così come dieci deputati del Likud di Netanyahu.

L’evento, intitolato “Prepararsi a reinsediare Gaza”, è stato organizzato da uno dei movimenti di coloni più estremisti di Israele, Nachala, guidato dalla famigerata Daniella Weiss.

Fonte