17/01/2025
“Nosferatu”: il fuoco e il corpo del vampiro
È un vampiro profondamente ‘fisico’ e ‘corporeo’ quello costruito da Robert Eggers nel suo suggestivo e ben congegnato Nosferatu (2024), un remake sia del celebre film di Murnau del 1922 che di un altro suo precedente remake, il lungometraggio di Werner Herzog dal titolo Nosferatu. Il principe della notte (Nosferatu. Phantom der Nacht, 1979). All’interno di uno scenario profondamente estetizzante, realizzato con grande maestria dal regista statunitense, la figura del vampiro è caratterizzata da una fisicità dirompente e carnevalesca: ma, in fin dei conti, si tratta di un carnevale funereo come quello che ci mostra Herzog nella parte finale del suo film. Quello di Nosferatu è un corpo carnevalesco segnato dalla funerea ala della putrefazione, come è giusto che sia per la figura di un vampiro, un non morto, un essere che emerge ogni notte dal sepolcro. Se i film di Murnau e quello di Herzog – per non parlare di una miriade di film tratti dal Dracula di Bram Stoker – ci presentavano un essere perennemente avvolto dello stesso più o meno elegante abito nero, quello di Eggers ci mostra il corpo nudo del vampiro, un corpo fatto di carne segnata dalla putrefazione e dalla morte, mostrato interamente nella sua nudità anche all’interno del sepolcro, nel momento in cui il personaggio di Hutter lo scoperchia.
L’agente immobiliare Thomas Hutter (interpretato da Nicholas Hoult il quale, tra l’altro, aveva recentemente interpretato il personaggio di Renfield, aiutante di Dracula, in una commedia nera del 2023, Renfield di Chris McKay) che, nell’opera di Murnau sostituiva il personaggio stokeriano di Jonathan Harker, compie un lungo viaggio dalla tedesca Wisborg fino alla Transilvania per stipulare un contratto con il misterioso conte Orlok. Ad attenderlo in città rimane la moglie Ellen (Lily-Rose Depp), che vediamo nel suo elegante salotto insieme ai gattini presenti fin dalla pellicola di Murnau oppure in atmosfere plumbee e gotiche, a passeggiare di fronte al mare evocando solo una pallida allusione alla splendida interpretazione di Isabelle Adjani nel film di Herzog che, rivestendo i panni del corrispondente personaggio di Lucy, era caratterizzata come una perfetta e languida dark lady. La stessa cittadina di Wisborg, come è ritratta da Eggers, pure se non assume le connotazioni romanticamente macabre datele da Herzog (nel cui film si chiamava Wismar), appare pervasa di una connotazione ‘fisica’ e corporea: è una città affollata e popolare, in cui masse di persone si muovono in modo disordinato attraverso le strade, lontana anni luce dall’ovattata perfezione che vedevamo nelle pellicole di Murnau e Herzog. In contrasto con le strade in cui si muove il popolo appaiono gli interni borghesi che ci mostra il regista, interni in puro “Biedermeier”, uno stile artistico che si sviluppa in Germania fra il 1815 e il 1848 (il film non a caso si ambienta nel 1838), tipico della media e alta borghesia. La stessa fisicità la incontriamo anche nella rappresentazione degli esterni della locanda dove il personaggio si ferma per una sosta prima di giungere al castello del vampiro, nella caratterizzazione degli zingari e delle loro danze sfrenate. L’interno della locanda – a differenza del film di Herzog, dove era tratteggiato in modo più realistico – appare inserito in una dimensione onirica ed infernale: gli spazi sono fumosi e caratterizzati da un enorme fuoco che brucia nel camino, il quale conferisce un’atmosfera irreale all’intero ambiente. La locanda è una sorta di antinferno, di luogo liminale che segna il viaggio verso l’inferno vero e proprio. Lo stesso fuoco e la stessa fumosità lo incontreremo nel salone del castello, inferno nel quale adesso è giunto l’inconsapevole Hutter.
Il conte Orlok, vampiro, come abbiamo visto, straordinariamente fisico (in questa direzione si era mosso anche il Dracula di Bram Stoker di Francis Ford Coppola), appare molto diverso dalla connotazione herzoghiana: il regista tedesco aveva infatti caratterizzato il suo personaggio come un vero e proprio folle, un emarginato desideroso d’amore. Il vampiro di Eggers, nella sua macabra corporeità, appare da subito come un dominatore, un nobile che aspira a dominare anche il borghese universo occidentale basato sul commercio e sulla ricchezza. Egli stesso è ricchissimo, e lo dimostra appoggiando sprezzantemente sul tavolo, per offrirlo a Hutter, un involto di denaro estratto da uno scrigno di oggetti preziosi. È un nobile, e pretende con violenza di essere trattato come tale, ma è anche un borghese che intende sfruttare e, fuor di metafora, succhiare il sangue al popolo (il vampiro come metafora dell’accumulazione capitalistica, tra l’altro, è assai presente anche nell’opera marxiana: cfr. Cangianti 2018).
Oltre che dominatore e sfruttatore, egli incarna anche una figura mitologica creata dalla modernità. Come scrive Furio Jesi, nella cultura tedesca legata al pietismo, si può incontrare “una vera e propria esposizione della donna – madre, sorella, sposa – al mostro – morto, spettro «vampiro»” (Jesi 2007: 50). Si tratta di un vero e proprio “rapporto erotico con un aldilà negativo” (ivi: 51). Sembra che esista una sottile continuità fra l’universo folklorico e mitologico legato alle credenze sui vampiri dell’Europa orientale e il mondo borghese e ‘illuminato’ tedesco dell’Ottocento. Mentre Hutter è alla locanda, in Transilvania, da una finestra vede il rituale della ricerca della tomba di un vampiro che, secondo le credenze del luogo, si poteva scovare facendo cavalcare una vergine su un cavallo bianco (Cfr. Barber 1988). La ragazza zingara è esposta al vampiro, chiuso nella sua tomba, nello stesso modo in cui Ellen, moglie di Hutter, nelle sequenze finali è esposta al conte Orlok. Tale esposizione trasforma l’universo borghese in un mondo magico e misterico, solcato dall’inquietante corpo putrefatto del vampiro che assume le parvenze di una specie di lupo mannaro (le somiglianze fra vampiro e lupo mannaro sono del resto assai strette: cfr. Braccini 2011: 110). Come ricorda Jesi, lo stesso “conte Dracula di Stoker è, in termini di processo similare, sintomo di una rinascita di una violenza magica sull’abbandono mistico. Quella violenza è tipica delle esperienze tra esoteriche e religiose che trovano l’occasione di sostituirsi entro certi limiti alle grandi religioni istituzionalizzate e al loro patrimonio mistico” (Jesi 2007: 52). Seguace di Orlok è il perfetto borghese e capitalista Knock, capo di Hutter, che in casa sua officia un rituale esoterico e ‘massonico’ auspicando l’arrivo del vampiro; come afferma quando è ormai rinchiuso in manicomio, egli avrebbe voluto essere il re dei ratti che, portati dal vampiro, conducono la peste in città. Si potrebbe chiamare in causa ancora una volta la cultura tedesca ricordando come il re dei topi sia un personaggio malvagio di una fiaba natalizia di Hoffmann, Schiaccianoci e il re dei topi, pubblicata nel 1816. Tra l’altro, Eggers sposta l’ambientazione del suo film nel periodo natalizio: l’arrivo della peste e del vampiro va quasi a coincidere con l’arrivo del Natale e quei ricchi interni borghesi Biedermeier, in cui campeggiano eleganti e perfetti alberi di Natale, stanno per essere annientati.
Contro la macchina mitologica vampirica si erge il professor Albin Eberhart von Franz (van Helsing), interpretato da un grande Willem Dafoe, forse memore dell’interpretazione dello scienziato Godwin Baxter in Povere creature! (Poor Things, 2023) di Yorgos Lanthimos e ammiccante anche alla figura del professor Abronsius di The Fearless Vampire Killers (1967) di Roman Polanski, reso in italiano col ridicolo titolo Per favore non mordermi sul collo. Con la sua formazione alchemica, paradossalmente, si oppone alla mitologia borghese illuminata e razionale che cova al suo interno risvolti esoterici e misterici, incarnati perfettamente dal vampiro. Ed è l’unico che sa leggere e ‘interpretare’ il corpo del vampiro come il lato oscuro di quella stessa società borghese: quel lato oscuro che essa non vuole ammettere e che forse ignora di possedere in sé, nelle sue buie viscere e che è scoperchiato e portato alla luce, e illuminato col fuoco, da questa riuscitissima rilettura di Eggers della storia di Nosferatu.
Riferimenti bibliografici:
Barber, Paul, Vampires, Burial and Death: Folklore and Reality, New Haven-London, 1988.
Braccini, Tommaso, Prima di Dracula. Archeologia del vampiro, Il Mulino, Bologna, 2011.
Cangianti, Luca, FantaMarx. Critica dell’economia immaginaria, in AA.VV., Immaginari alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell’immaginario, Mimesis, Milano, 2018, pp. 75-100.
Jesi, Furio, L’accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita, introduzione di David Bidussa, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
Fonte
L’agente immobiliare Thomas Hutter (interpretato da Nicholas Hoult il quale, tra l’altro, aveva recentemente interpretato il personaggio di Renfield, aiutante di Dracula, in una commedia nera del 2023, Renfield di Chris McKay) che, nell’opera di Murnau sostituiva il personaggio stokeriano di Jonathan Harker, compie un lungo viaggio dalla tedesca Wisborg fino alla Transilvania per stipulare un contratto con il misterioso conte Orlok. Ad attenderlo in città rimane la moglie Ellen (Lily-Rose Depp), che vediamo nel suo elegante salotto insieme ai gattini presenti fin dalla pellicola di Murnau oppure in atmosfere plumbee e gotiche, a passeggiare di fronte al mare evocando solo una pallida allusione alla splendida interpretazione di Isabelle Adjani nel film di Herzog che, rivestendo i panni del corrispondente personaggio di Lucy, era caratterizzata come una perfetta e languida dark lady. La stessa cittadina di Wisborg, come è ritratta da Eggers, pure se non assume le connotazioni romanticamente macabre datele da Herzog (nel cui film si chiamava Wismar), appare pervasa di una connotazione ‘fisica’ e corporea: è una città affollata e popolare, in cui masse di persone si muovono in modo disordinato attraverso le strade, lontana anni luce dall’ovattata perfezione che vedevamo nelle pellicole di Murnau e Herzog. In contrasto con le strade in cui si muove il popolo appaiono gli interni borghesi che ci mostra il regista, interni in puro “Biedermeier”, uno stile artistico che si sviluppa in Germania fra il 1815 e il 1848 (il film non a caso si ambienta nel 1838), tipico della media e alta borghesia. La stessa fisicità la incontriamo anche nella rappresentazione degli esterni della locanda dove il personaggio si ferma per una sosta prima di giungere al castello del vampiro, nella caratterizzazione degli zingari e delle loro danze sfrenate. L’interno della locanda – a differenza del film di Herzog, dove era tratteggiato in modo più realistico – appare inserito in una dimensione onirica ed infernale: gli spazi sono fumosi e caratterizzati da un enorme fuoco che brucia nel camino, il quale conferisce un’atmosfera irreale all’intero ambiente. La locanda è una sorta di antinferno, di luogo liminale che segna il viaggio verso l’inferno vero e proprio. Lo stesso fuoco e la stessa fumosità lo incontreremo nel salone del castello, inferno nel quale adesso è giunto l’inconsapevole Hutter.
Il conte Orlok, vampiro, come abbiamo visto, straordinariamente fisico (in questa direzione si era mosso anche il Dracula di Bram Stoker di Francis Ford Coppola), appare molto diverso dalla connotazione herzoghiana: il regista tedesco aveva infatti caratterizzato il suo personaggio come un vero e proprio folle, un emarginato desideroso d’amore. Il vampiro di Eggers, nella sua macabra corporeità, appare da subito come un dominatore, un nobile che aspira a dominare anche il borghese universo occidentale basato sul commercio e sulla ricchezza. Egli stesso è ricchissimo, e lo dimostra appoggiando sprezzantemente sul tavolo, per offrirlo a Hutter, un involto di denaro estratto da uno scrigno di oggetti preziosi. È un nobile, e pretende con violenza di essere trattato come tale, ma è anche un borghese che intende sfruttare e, fuor di metafora, succhiare il sangue al popolo (il vampiro come metafora dell’accumulazione capitalistica, tra l’altro, è assai presente anche nell’opera marxiana: cfr. Cangianti 2018).
Oltre che dominatore e sfruttatore, egli incarna anche una figura mitologica creata dalla modernità. Come scrive Furio Jesi, nella cultura tedesca legata al pietismo, si può incontrare “una vera e propria esposizione della donna – madre, sorella, sposa – al mostro – morto, spettro «vampiro»” (Jesi 2007: 50). Si tratta di un vero e proprio “rapporto erotico con un aldilà negativo” (ivi: 51). Sembra che esista una sottile continuità fra l’universo folklorico e mitologico legato alle credenze sui vampiri dell’Europa orientale e il mondo borghese e ‘illuminato’ tedesco dell’Ottocento. Mentre Hutter è alla locanda, in Transilvania, da una finestra vede il rituale della ricerca della tomba di un vampiro che, secondo le credenze del luogo, si poteva scovare facendo cavalcare una vergine su un cavallo bianco (Cfr. Barber 1988). La ragazza zingara è esposta al vampiro, chiuso nella sua tomba, nello stesso modo in cui Ellen, moglie di Hutter, nelle sequenze finali è esposta al conte Orlok. Tale esposizione trasforma l’universo borghese in un mondo magico e misterico, solcato dall’inquietante corpo putrefatto del vampiro che assume le parvenze di una specie di lupo mannaro (le somiglianze fra vampiro e lupo mannaro sono del resto assai strette: cfr. Braccini 2011: 110). Come ricorda Jesi, lo stesso “conte Dracula di Stoker è, in termini di processo similare, sintomo di una rinascita di una violenza magica sull’abbandono mistico. Quella violenza è tipica delle esperienze tra esoteriche e religiose che trovano l’occasione di sostituirsi entro certi limiti alle grandi religioni istituzionalizzate e al loro patrimonio mistico” (Jesi 2007: 52). Seguace di Orlok è il perfetto borghese e capitalista Knock, capo di Hutter, che in casa sua officia un rituale esoterico e ‘massonico’ auspicando l’arrivo del vampiro; come afferma quando è ormai rinchiuso in manicomio, egli avrebbe voluto essere il re dei ratti che, portati dal vampiro, conducono la peste in città. Si potrebbe chiamare in causa ancora una volta la cultura tedesca ricordando come il re dei topi sia un personaggio malvagio di una fiaba natalizia di Hoffmann, Schiaccianoci e il re dei topi, pubblicata nel 1816. Tra l’altro, Eggers sposta l’ambientazione del suo film nel periodo natalizio: l’arrivo della peste e del vampiro va quasi a coincidere con l’arrivo del Natale e quei ricchi interni borghesi Biedermeier, in cui campeggiano eleganti e perfetti alberi di Natale, stanno per essere annientati.
Contro la macchina mitologica vampirica si erge il professor Albin Eberhart von Franz (van Helsing), interpretato da un grande Willem Dafoe, forse memore dell’interpretazione dello scienziato Godwin Baxter in Povere creature! (Poor Things, 2023) di Yorgos Lanthimos e ammiccante anche alla figura del professor Abronsius di The Fearless Vampire Killers (1967) di Roman Polanski, reso in italiano col ridicolo titolo Per favore non mordermi sul collo. Con la sua formazione alchemica, paradossalmente, si oppone alla mitologia borghese illuminata e razionale che cova al suo interno risvolti esoterici e misterici, incarnati perfettamente dal vampiro. Ed è l’unico che sa leggere e ‘interpretare’ il corpo del vampiro come il lato oscuro di quella stessa società borghese: quel lato oscuro che essa non vuole ammettere e che forse ignora di possedere in sé, nelle sue buie viscere e che è scoperchiato e portato alla luce, e illuminato col fuoco, da questa riuscitissima rilettura di Eggers della storia di Nosferatu.
Riferimenti bibliografici:
Barber, Paul, Vampires, Burial and Death: Folklore and Reality, New Haven-London, 1988.
Braccini, Tommaso, Prima di Dracula. Archeologia del vampiro, Il Mulino, Bologna, 2011.
Cangianti, Luca, FantaMarx. Critica dell’economia immaginaria, in AA.VV., Immaginari alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell’immaginario, Mimesis, Milano, 2018, pp. 75-100.
Jesi, Furio, L’accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita, introduzione di David Bidussa, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
Fonte
L’oligarchia miliardaria della ‘Nuova Era’
È stato necessario attendere il suo discorso d’addio alla presidenza e alla vita politica attiva per poter sentire una parola di Biden che non fosse aria fritta o sostegno a regimi criminali/genocidi.
“Un’oligarchia sta prendendo forma in America, composta da estrema ricchezza, potere e influenza, che minaccia letteralmente l’intera democrazia, i nostri diritti fondamentali, la libertà e la possibilità di garantire a tutti un’opportunità equa”.
Siccome è pur sempre il pallido terminale dell’establishment che da tempo immemore occupa tutte le posizioni rilevanti ai vertici degli Usa, il vecchio rimbambito è rimasto concentrato a sufficienza per non fare nomi. Ma il contesto è tale da non lasciare molti dubbi su chi siano i principali oligarchi che da qualche anno (almeno tre decenni) stanno concentrando nelle proprie mani un potere tale da non avere confronti con quello del passato.
Non c’è soltanto un neo-vecchio presidente che di mestiere ha sempre fatto lo speculatore immobiliare, specializzato soprattutto in abusi, debiti e ricatti, e non c’è neanche solo Elon Musk, ormai classificato ‘uomo più ricco del mondo’ (anche se la stima delle sue ricchezze risente delle quotidiane oscillazioni di valore delle azioni che possiede).
I giornali Usa, da settimane, sono pieni con i nomi di straricchi che stanno traslocando dalla tifoseria “liberal” a quella trumpiana, pur avendo detto sempre peste e corna del mondo “Maga” (“make America great again”), giustamente identificato con il buzzurrame complottista, evangelico, suprematista bianco (col Ku Klux Klan in gran spolvero), ma ora capace di conquistare anche coloured di tutte le origini e sfumature.
Hanno fatto scalpore le “conversioni” di Jeff Bezos (Amazon), Mark Zuckerberg (Meta), Tim Cook (Apple) e ora anche Sundar Pichai (Google), mentre il fondo di investimento più potente, BlackRock, ha deciso di uscire dalla Net Zero Asset Managers Initiative (dove vanno gli investimenti per combattere il cambiamento climatico), più tanti altri i cui nomi sono decisamente meno famosi ma i portafogli altrettanto gonfi.
Lo ha spiegato con insolita franchezza David Solomon, di Goldman Sachs: “la nuova amministrazione offre una gradita opportunità per annullare alcune delle regole più severe emanate durante l’amministrazione del presidente Biden e piegare la politica fiscale e normativa a loro favore”.
Ma non c’è soltanto il solito effetto “carro del vincitore” e la prospettiva di guadagni migliori per alcune società. A scorrere l’elenco delle nomine fatte da Trump per il governo, i vice, gli ambasciatori, le agenzie governative (servizi segreti e Fbi compresi), si nota una quantità di imprenditori impressionante, tanto da far apparire quasi fuori posto i pochi “funzionari di carriera”.
Anche questa presenza non è affatto nuova. I Bush padre e figlio erano petrolieri (in affari anche con la famiglia Bin Laden, peraltro), ma perlomeno George Herbert “il vecchio” aveva fatto carriera pubblica nella Cia (guidò da remoto lo sbarco alla Baia dei Porci, a Cuba... non proprio un successo).
E i loro vice e ministri, da Dick Cheney (a.d. di Halliburton, una “multiservizi” che spazia dai lavori pubblici agli impianti petroliferi, ai mercenari) a Donald Rumsfeld (ceo della Searle, produttrice del dolcificante cancerogeno chiamato aspartame), da Condoleeza Rice (presente nei cda di Chevron, Transamerica, Hewlett-Packard, Exxon) a Frank Carlucci (Carlyle Group, società di investimenti), non erano da meno.
C’è però una differenza. Quelli erano a tutti gli effetti funzionari costruiti per fare la carriera politica, che in alcune fasi della vita si davano da fare “per arrotondare” in aziende già strutturate, in attesa di rientrare in qualche ruolo chiave dello Stato, portandosi dietro la rete di contatti con l’amministrazione Usa che potevano tornare utili anche a fare business. Era il sistema delle “porte girevoli”, ai piani alti tra pubblico e privato...
Quelli attuali, invece, sono proprio e soltanto mega-imprenditori di successo (o avvocati d’affari, una variante sul tema) che decidono di prendersi la macchina dello Stato per farla funzionare secondo i propri progetti, anche individuali (Musk vorrebbe far arrivare i suoi razzi su Marte, se smettono di esplodere sulla rampa di lancio...).
Non è un processo che riguardi solo gli Stati Uniti, naturalmente. In Italia abbiamo sperimentato 30 anni fa l’irruzione di Silvio Berlusconi, con la sua corte variopinta e raffazzonata. Ma anche in Francia non va sottovalutato il fatto che un banchiere (Macron) abbia monopolizzato prima il ministero dell’economia in un governo “socialista” e poi la presidenza della Repubblica.
Protagonisti che contrassegnano una generale “crisi della politica” nel rappresentare-guidare la società nel suo complesso, ovviamente secondo gli interessi della classe dominante.
Cambia però in questo caso radicalmente la “composizione sociale” e quindi anche la “cultura dominante” nel gruppo dirigente dello Stato. E non di uno Stato qualsiasi, ma del cuore dell’imperialismo occidentale.
Gli imprenditori di successo si erano fin qui astenuti dal partecipare in prima persona ai governi degli Stati capitalistici, se non in casi rarissimi, preferendo continuare a gestire il proprio business e condizionare la classe politica per ottenere ciò che serviva loro. Quello Stato era in fondo il “comitato d’affari della borghesia tutta”...
Ora gli imprenditori si buttano in massa sulle leve del potere politico, per fare ciò che il ceo di Goldman Sachs ammette apertis verbis: “piegare la politica fiscale e normativa a loro favore”, e anche un po’ di più...
Ma la “cultura aziendale” è piramidale e gerarchica, non prevede pluralità di centri di comando, contrappesi, “rappresentanze di interessi” diversi da quelli azionari (dove ci si pesa in base al numero di azioni). Neanche dei propri dipendenti, chiamati “collaboratori” solo nelle lettere di assunzione e licenziamento, ma senza sindacati tra i piedi, neanche “complici” (un costo inutile, ormai...).
Tutti possono ricordare il video con Elon Musk che entra nella sede di Twitter, appena acquistata, portando in braccio un lavandino per simboleggiare le “pulizie” che aveva intenzione di fare in quell’azienda (come poi effettivamente avvenuto).
Chiaro insomma che “la democrazia” esce piuttosto malconcia da questa irruzione massiva di amministratori delegati. Anzi, ne viene demolita anche la sola pretesa di chiamarsi tale, perché nessuna istituzione pubblica può più permettersi di “limitare” il potere esecutivo. Altro che “i tre poteri” di Montesquieu...
Al confronto, il “premierato” che vorrebbe imporre la Meloni è quasi una concessione al “pluralismo”, visto che continua a pensare la “classe politica” come una funzione importante, invece che “accessoria”...
È un cambiamento radicale nella gestione del potere politico capitalistico per come lo abbiamo conosciuto e subìto nel secondo dopoguerra. Viene di fatto azzerata ogni finzione di “legalità concertata”, sia nella gestione degli affari interni di un paese che nelle relazioni internazionali. Contano e conteranno solo i rapporti di forza, economici o militari. In attesa di poterli cambiare, certo...
Un “preavviso” che era già arrivato – sotto il filo-genocida Biden, che ora finge di preoccuparsene – con il disconoscimento delle Corti internazionali, dell’Onu e di tutte le sue agenzie, in parte della stessa Nato, ricondotta rigidamente ad esecutrice degli ordini statunitensi.
Dal punto di vista delle classi quel che cambia davvero sono i rapporti interni alle varie frazioni di borghesia. Nella nuova configurazione contano solo gli interessi multimiliardari e “innovativi”, scrollandosi di dosso il peso negativo delle “rendite di posizione” anche a livello industriale (il “complesso militare-industriale” stesso, scottato dai pessimi risultati della guerra in Ucraina, dovrà rivedere rapidamente le sue abitudini e i suoi prezzi iper-gonfiati).
Il rapporto con il resto della società segue. Se le modifiche nell’architettura economica del sistema permetteranno nicchie di profittabilità nei nuovi “indotti”, bene. Altrimenti chissenefrega...
Il controllo della popolazione, del resto, è già stato testato e verificato proprio grazie all’“economia delle piattaforme”. Il network tra Google, X, Whatsapp, Instagram, ecc., permette già ora di condizionare pesantemente la “formazione dell’opinione pubblica”, soppiantando i “professionisti dell’informazione”, che peraltro già si erano felicemente adattati al nuovo panorama (basta guarda a quanti articoli di “politica” vengono da anni scritti consultando proprio i post su X, arricchiti magari con una telefonata al portavoce del “potente di turno”).
Questo è il nuovo Occidente. Che sia “democratico” non si può proprio più dire. Ma lasceranno le scadenze elettorali per mantenerne la parvenza. Tanto la “volontà politica del popolo” sanno di poterla controllare da remoto...
E comunque, se non dovesse andare come dispongono, allora “non vale”. Chiedete a rumeni o ai georgiani, tanto per cominciare...
Fonte
“Un’oligarchia sta prendendo forma in America, composta da estrema ricchezza, potere e influenza, che minaccia letteralmente l’intera democrazia, i nostri diritti fondamentali, la libertà e la possibilità di garantire a tutti un’opportunità equa”.
Siccome è pur sempre il pallido terminale dell’establishment che da tempo immemore occupa tutte le posizioni rilevanti ai vertici degli Usa, il vecchio rimbambito è rimasto concentrato a sufficienza per non fare nomi. Ma il contesto è tale da non lasciare molti dubbi su chi siano i principali oligarchi che da qualche anno (almeno tre decenni) stanno concentrando nelle proprie mani un potere tale da non avere confronti con quello del passato.
Non c’è soltanto un neo-vecchio presidente che di mestiere ha sempre fatto lo speculatore immobiliare, specializzato soprattutto in abusi, debiti e ricatti, e non c’è neanche solo Elon Musk, ormai classificato ‘uomo più ricco del mondo’ (anche se la stima delle sue ricchezze risente delle quotidiane oscillazioni di valore delle azioni che possiede).
I giornali Usa, da settimane, sono pieni con i nomi di straricchi che stanno traslocando dalla tifoseria “liberal” a quella trumpiana, pur avendo detto sempre peste e corna del mondo “Maga” (“make America great again”), giustamente identificato con il buzzurrame complottista, evangelico, suprematista bianco (col Ku Klux Klan in gran spolvero), ma ora capace di conquistare anche coloured di tutte le origini e sfumature.
Hanno fatto scalpore le “conversioni” di Jeff Bezos (Amazon), Mark Zuckerberg (Meta), Tim Cook (Apple) e ora anche Sundar Pichai (Google), mentre il fondo di investimento più potente, BlackRock, ha deciso di uscire dalla Net Zero Asset Managers Initiative (dove vanno gli investimenti per combattere il cambiamento climatico), più tanti altri i cui nomi sono decisamente meno famosi ma i portafogli altrettanto gonfi.
Lo ha spiegato con insolita franchezza David Solomon, di Goldman Sachs: “la nuova amministrazione offre una gradita opportunità per annullare alcune delle regole più severe emanate durante l’amministrazione del presidente Biden e piegare la politica fiscale e normativa a loro favore”.
Ma non c’è soltanto il solito effetto “carro del vincitore” e la prospettiva di guadagni migliori per alcune società. A scorrere l’elenco delle nomine fatte da Trump per il governo, i vice, gli ambasciatori, le agenzie governative (servizi segreti e Fbi compresi), si nota una quantità di imprenditori impressionante, tanto da far apparire quasi fuori posto i pochi “funzionari di carriera”.
Anche questa presenza non è affatto nuova. I Bush padre e figlio erano petrolieri (in affari anche con la famiglia Bin Laden, peraltro), ma perlomeno George Herbert “il vecchio” aveva fatto carriera pubblica nella Cia (guidò da remoto lo sbarco alla Baia dei Porci, a Cuba... non proprio un successo).
E i loro vice e ministri, da Dick Cheney (a.d. di Halliburton, una “multiservizi” che spazia dai lavori pubblici agli impianti petroliferi, ai mercenari) a Donald Rumsfeld (ceo della Searle, produttrice del dolcificante cancerogeno chiamato aspartame), da Condoleeza Rice (presente nei cda di Chevron, Transamerica, Hewlett-Packard, Exxon) a Frank Carlucci (Carlyle Group, società di investimenti), non erano da meno.
C’è però una differenza. Quelli erano a tutti gli effetti funzionari costruiti per fare la carriera politica, che in alcune fasi della vita si davano da fare “per arrotondare” in aziende già strutturate, in attesa di rientrare in qualche ruolo chiave dello Stato, portandosi dietro la rete di contatti con l’amministrazione Usa che potevano tornare utili anche a fare business. Era il sistema delle “porte girevoli”, ai piani alti tra pubblico e privato...
Quelli attuali, invece, sono proprio e soltanto mega-imprenditori di successo (o avvocati d’affari, una variante sul tema) che decidono di prendersi la macchina dello Stato per farla funzionare secondo i propri progetti, anche individuali (Musk vorrebbe far arrivare i suoi razzi su Marte, se smettono di esplodere sulla rampa di lancio...).
Non è un processo che riguardi solo gli Stati Uniti, naturalmente. In Italia abbiamo sperimentato 30 anni fa l’irruzione di Silvio Berlusconi, con la sua corte variopinta e raffazzonata. Ma anche in Francia non va sottovalutato il fatto che un banchiere (Macron) abbia monopolizzato prima il ministero dell’economia in un governo “socialista” e poi la presidenza della Repubblica.
Protagonisti che contrassegnano una generale “crisi della politica” nel rappresentare-guidare la società nel suo complesso, ovviamente secondo gli interessi della classe dominante.
Cambia però in questo caso radicalmente la “composizione sociale” e quindi anche la “cultura dominante” nel gruppo dirigente dello Stato. E non di uno Stato qualsiasi, ma del cuore dell’imperialismo occidentale.
Gli imprenditori di successo si erano fin qui astenuti dal partecipare in prima persona ai governi degli Stati capitalistici, se non in casi rarissimi, preferendo continuare a gestire il proprio business e condizionare la classe politica per ottenere ciò che serviva loro. Quello Stato era in fondo il “comitato d’affari della borghesia tutta”...
Ora gli imprenditori si buttano in massa sulle leve del potere politico, per fare ciò che il ceo di Goldman Sachs ammette apertis verbis: “piegare la politica fiscale e normativa a loro favore”, e anche un po’ di più...
Ma la “cultura aziendale” è piramidale e gerarchica, non prevede pluralità di centri di comando, contrappesi, “rappresentanze di interessi” diversi da quelli azionari (dove ci si pesa in base al numero di azioni). Neanche dei propri dipendenti, chiamati “collaboratori” solo nelle lettere di assunzione e licenziamento, ma senza sindacati tra i piedi, neanche “complici” (un costo inutile, ormai...).
Tutti possono ricordare il video con Elon Musk che entra nella sede di Twitter, appena acquistata, portando in braccio un lavandino per simboleggiare le “pulizie” che aveva intenzione di fare in quell’azienda (come poi effettivamente avvenuto).
Chiaro insomma che “la democrazia” esce piuttosto malconcia da questa irruzione massiva di amministratori delegati. Anzi, ne viene demolita anche la sola pretesa di chiamarsi tale, perché nessuna istituzione pubblica può più permettersi di “limitare” il potere esecutivo. Altro che “i tre poteri” di Montesquieu...
Al confronto, il “premierato” che vorrebbe imporre la Meloni è quasi una concessione al “pluralismo”, visto che continua a pensare la “classe politica” come una funzione importante, invece che “accessoria”...
È un cambiamento radicale nella gestione del potere politico capitalistico per come lo abbiamo conosciuto e subìto nel secondo dopoguerra. Viene di fatto azzerata ogni finzione di “legalità concertata”, sia nella gestione degli affari interni di un paese che nelle relazioni internazionali. Contano e conteranno solo i rapporti di forza, economici o militari. In attesa di poterli cambiare, certo...
Un “preavviso” che era già arrivato – sotto il filo-genocida Biden, che ora finge di preoccuparsene – con il disconoscimento delle Corti internazionali, dell’Onu e di tutte le sue agenzie, in parte della stessa Nato, ricondotta rigidamente ad esecutrice degli ordini statunitensi.
Dal punto di vista delle classi quel che cambia davvero sono i rapporti interni alle varie frazioni di borghesia. Nella nuova configurazione contano solo gli interessi multimiliardari e “innovativi”, scrollandosi di dosso il peso negativo delle “rendite di posizione” anche a livello industriale (il “complesso militare-industriale” stesso, scottato dai pessimi risultati della guerra in Ucraina, dovrà rivedere rapidamente le sue abitudini e i suoi prezzi iper-gonfiati).
Il rapporto con il resto della società segue. Se le modifiche nell’architettura economica del sistema permetteranno nicchie di profittabilità nei nuovi “indotti”, bene. Altrimenti chissenefrega...
Il controllo della popolazione, del resto, è già stato testato e verificato proprio grazie all’“economia delle piattaforme”. Il network tra Google, X, Whatsapp, Instagram, ecc., permette già ora di condizionare pesantemente la “formazione dell’opinione pubblica”, soppiantando i “professionisti dell’informazione”, che peraltro già si erano felicemente adattati al nuovo panorama (basta guarda a quanti articoli di “politica” vengono da anni scritti consultando proprio i post su X, arricchiti magari con una telefonata al portavoce del “potente di turno”).
Questo è il nuovo Occidente. Che sia “democratico” non si può proprio più dire. Ma lasceranno le scadenze elettorali per mantenerne la parvenza. Tanto la “volontà politica del popolo” sanno di poterla controllare da remoto...
E comunque, se non dovesse andare come dispongono, allora “non vale”. Chiedete a rumeni o ai georgiani, tanto per cominciare...
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Gaza - Firmato l’accordo. Ma il Likud fa sapere che non significa la fine della guerra
di Eliana Riva
Firmato finalmente, questa mattina, l’accordo annunciato mercoledì tra Israele e Hamas sul cessate il fuoco a Gaza e lo scambio di prigionieri. Le ultima ore sono state colme di trattative, dichiarazioni e manifestazioni in Israele. Quando tutto sembrava ormai certo, Netanyahu ha dichiarato che non avrebbe riunito il consiglio di sicurezza, come previsto nella mattinata di giovedì, incolpando Hamas di provare ad inserire nuove clausole dell’ultimo minuto. Il movimento islamico ha smentito e diverse fonti, anche interne israeliane, hanno fatto sapere che il ritardo era in realtà dovuto ai tentativi del premier di salvare la sua coalizione governativa.
Ieri i rappresentanti di Potere ebraico e Sionismo religioso, i ministri Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, hanno tenuto due conferenze stampa separate per annunciare mosse e decisioni nel tentativo di bloccare l’accordo o, in alternativa, stabilire una contropartita. Ben Gvir è apparso subito inamovibile rispetto a Smotrich e ha dichiarato, senza apparentemente lasciar spazio a ripensamenti, che lascerà il governo se l’accordo dovesse essere votato a maggioranza. Il ministro delle Finanze, dal canto suo, ha fatto sapere invece che si sarebbe “accontentato” di ricevere garanzie sul fatto che la guerra a Gaza riprenderà dopo il rilascio degli ostaggi. E che Israele non andrà mai via dal corridoio Filadelfia, mantenendo il controllo completo sull’ingresso degli aiuti nella Striscia.
In risposta, il partito di Netanyahu, il Likud, ha rilasciato una dichiarazione con la quale ha nella pratica smentito tutti i punti più importanti dell’accordo stesso: “Contrariamente ai commenti di Ben-Gvir, l’accordo esistente consente a Israele di tornare a combattere sotto le garanzie americane, ricevere le armi e i mezzi di guerra di cui ha bisogno, massimizzare il numero di ostaggi viventi che saranno rilasciati, mantenere il pieno controllo del corridoio Filadelfia e il cuscinetto di sicurezza che circonda l’intera Striscia di Gaza e ottenere importanti risultati che garantiranno la sicurezza di Israele per generazioni”. Smotrich, rassicurato, ha fatto sapere che non voterà l’accordo ma che continuerà a sostenere il governo.
Sempre in serata, i media israeliani hanno scritto che Netanyahu avrebbe voluto posticipare di un giorno l’inizio della tregua. La Casa Bianca ha reagito con rabbia e stupore e lo stesso Biden ha dichiarato di non essere per nulla contento. Dopo notizie, smentite e rimpalli, questa mattina l’ufficio del premier ha sciolto gli indugi, confermando che, come comunicato in un primo momento, la tregua entrerà in vigore domenica 19 gennaio, quando verranno rilasciati i primi ostaggi. Israele ha pubblicato la lista dei nomi dei 33 prigionieri che Hamas consegnerà entro la fine della prima fase dell’intesa, che durerà 42 giorni.
Il ministro della difesa Israel Katz ha dichiarato che in risposta alla liberazione israeliana dei prigionieri politici palestinesi, libererà immediatamente i coloni israeliani in detenzione amministrativa: “Ho deciso di rilasciare i coloni in prigione in detenzione amministrativa e di trasmettere un chiaro messaggio di rafforzamento e incoraggiamento degli insediamenti”. La violenza dei coloni, soprattutto da quando l’ultimo governo Netanyahu, di estrema destra, si è insediato, è cresciuta enormemente in Cisgiordania. Gli israeliani che vivono negli insediamenti all’interno dei Territori palestinesi occupati, in violazione del diritto internazionale, effettuano raid all’interno dei villaggi palestinesi, aggrediscono gli abitanti, danno alle fiamme case, automobili, abitazioni e alberi d’ulivo e hanno ucciso diverse persone. In Cisgiordania, Israele applica la legge militare, che permette la detenzione, anche per anni, senza condanne né accuse. Nei due anni da ministro della difesa, Yoav Gallant ha applicato la misura di detenzione amministrativa contro 12 coloni che avevano guidato (e a differenza di centinaia di altri erano stati identificati) gravi azioni violente. Di questi, cinque erano già tornati a casa. Israel Katz, che ha preso il posto di Gallant, su cui pende un mandato di arresto della Corte penale internazionale per crimini di Guerra a Gaza, ha annunciato a novembre che la detenzione amministrativa non sarebbe più stata applicabile, in Cisgiordania, per gli abitanti ebrei delle colonie illegali ma solo per i palestinesi sotto occupazione. Così, in una mossa che sa tanto di propaganda, ha annunciato che scarcererà al più presto i sette coloni attualmente in detenzione amministrativa. Più di 700.000 coloni (il 10% della popolazione israeliana) vivono in 150 insediamenti e 128 avamposti sparsi in tutta la Cisgiordania occupata e a Gerusalemme Est.
A Gaza, intanto, la popolazione, all’oscuro delle manovre interne alla politica israeliana, continua a morire. 113 persone hanno perso la vita dall’annuncio dell’accordo. Gli abitanti hanno dichiarato che la violenza degli attacchi è la stessa, terribile, del primo mese di guerra. Video mostrano droni che fanno cadere bombe sugli edifici che ospitano sfollati, sulle tende dei campi profughi. Ancora intere famiglie sono state assassinate nella distruzione completa degli edifici residenziali. Da mercoledì sera 28 bambini e 31 donne sono stati massacrati.
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Firmato finalmente, questa mattina, l’accordo annunciato mercoledì tra Israele e Hamas sul cessate il fuoco a Gaza e lo scambio di prigionieri. Le ultima ore sono state colme di trattative, dichiarazioni e manifestazioni in Israele. Quando tutto sembrava ormai certo, Netanyahu ha dichiarato che non avrebbe riunito il consiglio di sicurezza, come previsto nella mattinata di giovedì, incolpando Hamas di provare ad inserire nuove clausole dell’ultimo minuto. Il movimento islamico ha smentito e diverse fonti, anche interne israeliane, hanno fatto sapere che il ritardo era in realtà dovuto ai tentativi del premier di salvare la sua coalizione governativa.
Ieri i rappresentanti di Potere ebraico e Sionismo religioso, i ministri Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, hanno tenuto due conferenze stampa separate per annunciare mosse e decisioni nel tentativo di bloccare l’accordo o, in alternativa, stabilire una contropartita. Ben Gvir è apparso subito inamovibile rispetto a Smotrich e ha dichiarato, senza apparentemente lasciar spazio a ripensamenti, che lascerà il governo se l’accordo dovesse essere votato a maggioranza. Il ministro delle Finanze, dal canto suo, ha fatto sapere invece che si sarebbe “accontentato” di ricevere garanzie sul fatto che la guerra a Gaza riprenderà dopo il rilascio degli ostaggi. E che Israele non andrà mai via dal corridoio Filadelfia, mantenendo il controllo completo sull’ingresso degli aiuti nella Striscia.
In risposta, il partito di Netanyahu, il Likud, ha rilasciato una dichiarazione con la quale ha nella pratica smentito tutti i punti più importanti dell’accordo stesso: “Contrariamente ai commenti di Ben-Gvir, l’accordo esistente consente a Israele di tornare a combattere sotto le garanzie americane, ricevere le armi e i mezzi di guerra di cui ha bisogno, massimizzare il numero di ostaggi viventi che saranno rilasciati, mantenere il pieno controllo del corridoio Filadelfia e il cuscinetto di sicurezza che circonda l’intera Striscia di Gaza e ottenere importanti risultati che garantiranno la sicurezza di Israele per generazioni”. Smotrich, rassicurato, ha fatto sapere che non voterà l’accordo ma che continuerà a sostenere il governo.
Sempre in serata, i media israeliani hanno scritto che Netanyahu avrebbe voluto posticipare di un giorno l’inizio della tregua. La Casa Bianca ha reagito con rabbia e stupore e lo stesso Biden ha dichiarato di non essere per nulla contento. Dopo notizie, smentite e rimpalli, questa mattina l’ufficio del premier ha sciolto gli indugi, confermando che, come comunicato in un primo momento, la tregua entrerà in vigore domenica 19 gennaio, quando verranno rilasciati i primi ostaggi. Israele ha pubblicato la lista dei nomi dei 33 prigionieri che Hamas consegnerà entro la fine della prima fase dell’intesa, che durerà 42 giorni.
Il ministro della difesa Israel Katz ha dichiarato che in risposta alla liberazione israeliana dei prigionieri politici palestinesi, libererà immediatamente i coloni israeliani in detenzione amministrativa: “Ho deciso di rilasciare i coloni in prigione in detenzione amministrativa e di trasmettere un chiaro messaggio di rafforzamento e incoraggiamento degli insediamenti”. La violenza dei coloni, soprattutto da quando l’ultimo governo Netanyahu, di estrema destra, si è insediato, è cresciuta enormemente in Cisgiordania. Gli israeliani che vivono negli insediamenti all’interno dei Territori palestinesi occupati, in violazione del diritto internazionale, effettuano raid all’interno dei villaggi palestinesi, aggrediscono gli abitanti, danno alle fiamme case, automobili, abitazioni e alberi d’ulivo e hanno ucciso diverse persone. In Cisgiordania, Israele applica la legge militare, che permette la detenzione, anche per anni, senza condanne né accuse. Nei due anni da ministro della difesa, Yoav Gallant ha applicato la misura di detenzione amministrativa contro 12 coloni che avevano guidato (e a differenza di centinaia di altri erano stati identificati) gravi azioni violente. Di questi, cinque erano già tornati a casa. Israel Katz, che ha preso il posto di Gallant, su cui pende un mandato di arresto della Corte penale internazionale per crimini di Guerra a Gaza, ha annunciato a novembre che la detenzione amministrativa non sarebbe più stata applicabile, in Cisgiordania, per gli abitanti ebrei delle colonie illegali ma solo per i palestinesi sotto occupazione. Così, in una mossa che sa tanto di propaganda, ha annunciato che scarcererà al più presto i sette coloni attualmente in detenzione amministrativa. Più di 700.000 coloni (il 10% della popolazione israeliana) vivono in 150 insediamenti e 128 avamposti sparsi in tutta la Cisgiordania occupata e a Gerusalemme Est.
A Gaza, intanto, la popolazione, all’oscuro delle manovre interne alla politica israeliana, continua a morire. 113 persone hanno perso la vita dall’annuncio dell’accordo. Gli abitanti hanno dichiarato che la violenza degli attacchi è la stessa, terribile, del primo mese di guerra. Video mostrano droni che fanno cadere bombe sugli edifici che ospitano sfollati, sulle tende dei campi profughi. Ancora intere famiglie sono state assassinate nella distruzione completa degli edifici residenziali. Da mercoledì sera 28 bambini e 31 donne sono stati massacrati.
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La NATO militarizza il Baltico per difendere i cavi sottomarini
Avevamo già previsto che la NATO avrebbe proceduto ad ampliare la cortina bellica intorno alla Russia, rendendo anche il Baltico un terreno dello scontro tra l’imperialismo euroatlantico e l’emergere di un mondo multipolare. E non era una profezia molto difficile da fare, viste le dichiarazioni esternate da Mark Rutte poche settimane fa.
La riunione degli otto alleati atlantici che sono toccati dal Baltico, organizzata a Helsinki da Finlandia ed Estonia in maniera congiunta, si è conclusa con il lancio dell’operazione Baltic Sentry, ovvero “Sentinella Baltica”. Le attività saranno poste sotto l’autorità del Comando Supremo Alleato in Europa, presieduto dal generale Christopher Cavoli.
L’attenzione, come detto, è rivolta soprattutto alle infrastrutture fondamentali per le linee energetiche e internet poste sul fondale marino. I timori, in questo scenario, sono stati sollevati negli ultimi mesi dal danneggiamento di alcuni cavi sottomarini, la cui responsabilità è stata affibbiata a navi cinesi o a imbarcazioni della “flotta ombra” russa.
Concretamente, si tratta dello sforzo per una maggiore integrazione dei sistemi di sorveglianza dei vari paesi che si affacciano sul Baltico, e di impegnarsi in attività di pattugliamento che coinvolgeranno mezzi sia marittimi sia aerei. Allo stesso tempo, sarà anche un laboratorio per testare nuove tecnologie, “tra cui una piccola flotta di droni navali per fornire una sorveglianza e una deterrenza migliorate”.
Baltic Sentry, infatti, si svolgerà in collegamento anche con il Critical Undersea Infrastructure Network, la rete a cui ha dato vita di recente l’alleanza atlantica che coinvolge anche il settore privato nella ricerca di nuovi metodi e strumenti per rafforzare la protezione delle infrastrutture sottomarine.
Del resto, anche nel programma di investimenti strategici del Pentagono l’industria dei robot sottomarini era indicata come un settore chiave del futuro. Come abbiamo spesso sottolineato, ci troviamo di fronte a una mobilitazione totale e pervasiva dei sistemi occidentali verso l’escalation bellica, in cui la vita civile viene sottomessa alle esigenze militari.
Sempre Rutte ha reso chiaro, pochi giorni fa, che la guerra è l’unico orizzonte che prevede l’Occidente collettivo, e di certo i porti russi sul Baltico sono nodi da tenere sotto osservazione. Intanto, Svezia e Polonia hanno già dichiarato la loro piena adesione a Baltic Sentry, e dalla Lituania arrivano dichiarazioni molto pesanti.
“Dobbiamo prendere il controllo del traffico marittimo”, ha sostenuto il ministro degli Esteri di Vilnius, Kestutis Budrys, “criminalizzare le violazioni e dispiegare le forze navali della NATO per affermare il nostro dominio e la nostra sicurezza nel Mar Baltico”. Parole che dietro la tutela di infrastrutture strategiche nascondono – nemmeno troppo bene – mire di potenza.
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La riunione degli otto alleati atlantici che sono toccati dal Baltico, organizzata a Helsinki da Finlandia ed Estonia in maniera congiunta, si è conclusa con il lancio dell’operazione Baltic Sentry, ovvero “Sentinella Baltica”. Le attività saranno poste sotto l’autorità del Comando Supremo Alleato in Europa, presieduto dal generale Christopher Cavoli.
L’attenzione, come detto, è rivolta soprattutto alle infrastrutture fondamentali per le linee energetiche e internet poste sul fondale marino. I timori, in questo scenario, sono stati sollevati negli ultimi mesi dal danneggiamento di alcuni cavi sottomarini, la cui responsabilità è stata affibbiata a navi cinesi o a imbarcazioni della “flotta ombra” russa.
Concretamente, si tratta dello sforzo per una maggiore integrazione dei sistemi di sorveglianza dei vari paesi che si affacciano sul Baltico, e di impegnarsi in attività di pattugliamento che coinvolgeranno mezzi sia marittimi sia aerei. Allo stesso tempo, sarà anche un laboratorio per testare nuove tecnologie, “tra cui una piccola flotta di droni navali per fornire una sorveglianza e una deterrenza migliorate”.
Baltic Sentry, infatti, si svolgerà in collegamento anche con il Critical Undersea Infrastructure Network, la rete a cui ha dato vita di recente l’alleanza atlantica che coinvolge anche il settore privato nella ricerca di nuovi metodi e strumenti per rafforzare la protezione delle infrastrutture sottomarine.
Del resto, anche nel programma di investimenti strategici del Pentagono l’industria dei robot sottomarini era indicata come un settore chiave del futuro. Come abbiamo spesso sottolineato, ci troviamo di fronte a una mobilitazione totale e pervasiva dei sistemi occidentali verso l’escalation bellica, in cui la vita civile viene sottomessa alle esigenze militari.
Sempre Rutte ha reso chiaro, pochi giorni fa, che la guerra è l’unico orizzonte che prevede l’Occidente collettivo, e di certo i porti russi sul Baltico sono nodi da tenere sotto osservazione. Intanto, Svezia e Polonia hanno già dichiarato la loro piena adesione a Baltic Sentry, e dalla Lituania arrivano dichiarazioni molto pesanti.
“Dobbiamo prendere il controllo del traffico marittimo”, ha sostenuto il ministro degli Esteri di Vilnius, Kestutis Budrys, “criminalizzare le violazioni e dispiegare le forze navali della NATO per affermare il nostro dominio e la nostra sicurezza nel Mar Baltico”. Parole che dietro la tutela di infrastrutture strategiche nascondono – nemmeno troppo bene – mire di potenza.
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Georgia - La UE finanzia i media “indipendenti”
La vicenda della Georgia, dopo le elezioni che hanno visto la vittoria del partito Sogno Georgiano e il disconoscimento dei risultati da parte delle opposizioni e dell’ormai ex presidente Salomé Zourabichvili, ha preso i contorni delle scontro internazionale giocato attraverso gli strumenti della guerra ibrida.
Alle proteste di piazza si sono affiancate le dichiarazioni di condanna dei vertici occidentali e l’inasprimento del regime dei visti – da parte di USA e paesi baltici – per i funzionari georgiani. Intanto, Tbilisi ha messo in pausa il processo di adesione alla UE, e di conseguenza il tema è rientrato anche nel dibatitto intorno ai possibili nuovi membri della Comunità Europea.
Marta Kos, commissaria all’Allargamento, in audizione alla Commissione Affari Esteri del Parlamento Europeo, si è infatti espressa sui candidati ad entrare nella UE. Ha innanzitutto ricordato i limiti di un percorso che vede almeno 150 decisioni da prendere all’unanimità, rendendo dunque necessaria un’ampia collaborazione tra tutti gli stati membri.
Ha ovviamente accennato all’Ucraina, al Montenegro e alla Moldavia, della quale la vita politica, a suo avviso, è fortemente condizionata da influenze russe. Ma se per questi paesi, per ora, il processo di adesione continua, la Georgia rappresenta il caso in cui “possono verificarsi anche battute d’arresto”, ha detto.
Ovviamente, questo ha portato anche a congelare i fondi europei di cui Tbilisi aveva fino ad oggi goduto. “La Commissione – ha specificato – ha già trattenuto più di 100 milioni di euro di finanziamenti, a diretto beneficio delle autorità georgiane, e stiamo valutando ulteriori riassegnazioni”.
Proprio la questione delle riassegnazioni ha assunto i contorni dell’idiozia che siamo ormai fin troppo abituati a vedere nell’Occidente in crisi. Di questi milioni bloccati, infatti, 8,5 sono già stati riallocati verso “organizzazioni della società civile e media indipendenti”, e altri 7 potrebbero essere ridestinati ad “attività di comunicazione”.
L’obiettivo è quello di contrastare “la disinformazione diffusa dalla leadership di Sogno Georgiano”. Si tratta, insomma, di un imponente intervento straniero sui media, e dunque sulla dialettica politica del paese caucasico: proprio quel tipo di “influenza straniera” che era al centro delle limitazioni della legge approvata da Tbilisi a maggio, e da cui sono originate le proteste sostenute dall’Occidente.
Non che l’opinione pubblica georgiana sia ferocemente anti-occidentale, anzi. Un sondaggio effettuato a fine 2023 dal National Democratic Institute (NDI), con sede a Washington e certamente non di simpatie filo-russe, ha registrato che quasi i tre quarti della popolazione del paese preferisce affiliarsi all’Occidente, quando si parla di politica estera.
Allo stesso tempo, però, la metà di questo 75% vuole mantenere buone relazioni con Mosca, per evidenti necessità di ‘buon vicinato’, se così vogliamo chiamarlo. Ma la logica che ormai governa le centrali imperialiste euroatlantiche non contempla più vie di mezzo: o si è completamente asserviti agli interessi occidentali, o si è dei nemici.
La sospensione dell’accordo per facilitare i visti tra UE e Georgia per i titolari di passaporti per il servizio diplomatico verrà votata definitivamente a fine gennaio. Un’altra mossa che serve, da parte di Bruxelles, a continuare il braccio di ferro verso il governo georgiano, in questa corsa all’escalation che non accenna a fermarsi.
Fonte
Alle proteste di piazza si sono affiancate le dichiarazioni di condanna dei vertici occidentali e l’inasprimento del regime dei visti – da parte di USA e paesi baltici – per i funzionari georgiani. Intanto, Tbilisi ha messo in pausa il processo di adesione alla UE, e di conseguenza il tema è rientrato anche nel dibatitto intorno ai possibili nuovi membri della Comunità Europea.
Marta Kos, commissaria all’Allargamento, in audizione alla Commissione Affari Esteri del Parlamento Europeo, si è infatti espressa sui candidati ad entrare nella UE. Ha innanzitutto ricordato i limiti di un percorso che vede almeno 150 decisioni da prendere all’unanimità, rendendo dunque necessaria un’ampia collaborazione tra tutti gli stati membri.
Ha ovviamente accennato all’Ucraina, al Montenegro e alla Moldavia, della quale la vita politica, a suo avviso, è fortemente condizionata da influenze russe. Ma se per questi paesi, per ora, il processo di adesione continua, la Georgia rappresenta il caso in cui “possono verificarsi anche battute d’arresto”, ha detto.
Ovviamente, questo ha portato anche a congelare i fondi europei di cui Tbilisi aveva fino ad oggi goduto. “La Commissione – ha specificato – ha già trattenuto più di 100 milioni di euro di finanziamenti, a diretto beneficio delle autorità georgiane, e stiamo valutando ulteriori riassegnazioni”.
Proprio la questione delle riassegnazioni ha assunto i contorni dell’idiozia che siamo ormai fin troppo abituati a vedere nell’Occidente in crisi. Di questi milioni bloccati, infatti, 8,5 sono già stati riallocati verso “organizzazioni della società civile e media indipendenti”, e altri 7 potrebbero essere ridestinati ad “attività di comunicazione”.
L’obiettivo è quello di contrastare “la disinformazione diffusa dalla leadership di Sogno Georgiano”. Si tratta, insomma, di un imponente intervento straniero sui media, e dunque sulla dialettica politica del paese caucasico: proprio quel tipo di “influenza straniera” che era al centro delle limitazioni della legge approvata da Tbilisi a maggio, e da cui sono originate le proteste sostenute dall’Occidente.
Non che l’opinione pubblica georgiana sia ferocemente anti-occidentale, anzi. Un sondaggio effettuato a fine 2023 dal National Democratic Institute (NDI), con sede a Washington e certamente non di simpatie filo-russe, ha registrato che quasi i tre quarti della popolazione del paese preferisce affiliarsi all’Occidente, quando si parla di politica estera.
Allo stesso tempo, però, la metà di questo 75% vuole mantenere buone relazioni con Mosca, per evidenti necessità di ‘buon vicinato’, se così vogliamo chiamarlo. Ma la logica che ormai governa le centrali imperialiste euroatlantiche non contempla più vie di mezzo: o si è completamente asserviti agli interessi occidentali, o si è dei nemici.
La sospensione dell’accordo per facilitare i visti tra UE e Georgia per i titolari di passaporti per il servizio diplomatico verrà votata definitivamente a fine gennaio. Un’altra mossa che serve, da parte di Bruxelles, a continuare il braccio di ferro verso il governo georgiano, in questa corsa all’escalation che non accenna a fermarsi.
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Frontex ammonita perché ha condiviso illegalmente dati con l’Europol
Si susseguono da anni gli scandali intorno a Frontex, l’agenzia che si occupa di gestire gli ingressi nell’area comunitaria. È stata più volte accusata di respingimenti nel Mediterraneo, o di aver fatto finta di nulla di fronte a barconi che sono stati dunque lasciati in mano ai trafficanti di esseri umani.
Ora il Garante europeo della protezione dei dati (EDPS) ha ammonito l’organismo per aver trasmesso illegalmente i dati dei migranti all’Europol, che coordina le forze dell’ordine dei paesi membri. Le informazioni raccolte da interviste del 2022 sono diventate oggetto di una condivisione perseguita “in modo sistematico e proattivo” con l’istituto di polizia.
Tutto si è risolto in una semplice ammonizione per il fatto che Frontex ha tagliato lo scambio con Europol (tranne che in un caso) non appena le prime valutazioni dell’EDPS, iniziate verso la fine del 2022, hanno portato a una relazione in merito nel maggio 2023. Per mesi e mesi, però, in tanti sono finiti nei sistemi Europol, senza alcuna verifica di associazione a crimini transfrontalieri.
Ancora nell’aprile del 2024 il garante esprimeva preoccupazione per il trattamento dei dati da parte di Frontex, che in sei casi ha passato all’Europol anche quelli di personale di ONG. Se l’ammonimento non sortirà effetti, l’EDPS potrebbe decidere di portare l’agenzia di fronte alla Corte di Giustizia dell’UE, e vista la gravità della situazione sembra tutto fuorché esagerato.
“Il trattamento dei dati in una banca dati delle forze dell’ordine dell’UE può avere profonde conseguenze sulle persone coinvolte”, ha commentato il Garante. “Gli individui corrono il rischio di essere ingiustamente collegati a un’attività criminale in tutta l’UE, con tutto il danno potenziale che ciò comporta per la loro vita personale e familiare, per la libertà di movimento e di occupazione”.
Insomma, ci troviamo di fronte a una sorta di schedatura, infondata di fronte ai termini legali, ma che allo stesso tempo può rovinare la vita di persone che stanno scappando da miseria e guerra. Frontex non è un’agenzia di sicurezza, e il modo e la forma con cui venivano raccolte opinioni politiche, religiose e l’orientamento sessuale non trova riscontri in nessuna regola condivisa.
È chiaro invece che questo modus operandi è perfettamente in linea con il la logica di fondo che Frontex ha sempre espresso: un approccio securitario dei confini europei, demandando all’esterno la gestione dei flussi migratori in concomitanza con accordi sul Mediterraneo allargato. In cui i migranti diventano merce di scambio di partenariati strategici utili all’imperialismo europeo.
In questo senso, si comprende perché porre in una condizione di ricattabilità molte delle persone passate sotto la propria autorità. Il sistema pervasivo di controllo di possibili elementi di disturbo va perfettamente a braccetto con quello di disciplinamento della forza lavoro che comunque serve in tanti settori del ciclo economico continentale.
Non è solo un problema umanitario, o un problema di privacy. È innanzitutto un problema di incrudimento dello spirito coloniale e di sfruttamento di una UE che è pronta al tutto per tutto per fare un salto di qualità nel panorama globale.
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Ora il Garante europeo della protezione dei dati (EDPS) ha ammonito l’organismo per aver trasmesso illegalmente i dati dei migranti all’Europol, che coordina le forze dell’ordine dei paesi membri. Le informazioni raccolte da interviste del 2022 sono diventate oggetto di una condivisione perseguita “in modo sistematico e proattivo” con l’istituto di polizia.
Tutto si è risolto in una semplice ammonizione per il fatto che Frontex ha tagliato lo scambio con Europol (tranne che in un caso) non appena le prime valutazioni dell’EDPS, iniziate verso la fine del 2022, hanno portato a una relazione in merito nel maggio 2023. Per mesi e mesi, però, in tanti sono finiti nei sistemi Europol, senza alcuna verifica di associazione a crimini transfrontalieri.
Ancora nell’aprile del 2024 il garante esprimeva preoccupazione per il trattamento dei dati da parte di Frontex, che in sei casi ha passato all’Europol anche quelli di personale di ONG. Se l’ammonimento non sortirà effetti, l’EDPS potrebbe decidere di portare l’agenzia di fronte alla Corte di Giustizia dell’UE, e vista la gravità della situazione sembra tutto fuorché esagerato.
“Il trattamento dei dati in una banca dati delle forze dell’ordine dell’UE può avere profonde conseguenze sulle persone coinvolte”, ha commentato il Garante. “Gli individui corrono il rischio di essere ingiustamente collegati a un’attività criminale in tutta l’UE, con tutto il danno potenziale che ciò comporta per la loro vita personale e familiare, per la libertà di movimento e di occupazione”.
Insomma, ci troviamo di fronte a una sorta di schedatura, infondata di fronte ai termini legali, ma che allo stesso tempo può rovinare la vita di persone che stanno scappando da miseria e guerra. Frontex non è un’agenzia di sicurezza, e il modo e la forma con cui venivano raccolte opinioni politiche, religiose e l’orientamento sessuale non trova riscontri in nessuna regola condivisa.
È chiaro invece che questo modus operandi è perfettamente in linea con il la logica di fondo che Frontex ha sempre espresso: un approccio securitario dei confini europei, demandando all’esterno la gestione dei flussi migratori in concomitanza con accordi sul Mediterraneo allargato. In cui i migranti diventano merce di scambio di partenariati strategici utili all’imperialismo europeo.
In questo senso, si comprende perché porre in una condizione di ricattabilità molte delle persone passate sotto la propria autorità. Il sistema pervasivo di controllo di possibili elementi di disturbo va perfettamente a braccetto con quello di disciplinamento della forza lavoro che comunque serve in tanti settori del ciclo economico continentale.
Non è solo un problema umanitario, o un problema di privacy. È innanzitutto un problema di incrudimento dello spirito coloniale e di sfruttamento di una UE che è pronta al tutto per tutto per fare un salto di qualità nel panorama globale.
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L’offensiva di Elon Musk e della sua X in Europa
Il magnate della finanza e proprietario del social network X, Elon Musk, è passato all’offensiva, tuffandosi a capofitto nel dibattito politico europeo.
L’uomo che sta emergendo come una potente pedina del futuro governo di Donald Trump non ha fatto mistero della sua ambizione di diventare il protagonista principale e negli ultimi giorni ha mosso pezzi nella partita a scacchi internazionale. Anticipando, così, che dal comodo potere repubblicano alla Casa Bianca potrebbe diventare un attivo promotore di quella che si sta configurando come un’internazionale di estrema destra. Niente di meno che una “internazionale reazionaria”, come molti media europei l’hanno già definita.
La stretta relazione di Musk con il capo del governo italiano Giorgia Meloni ha facilitato l’incontro della leader italiana all’inizio di gennaio con il futuro presidente Donald Trump. Questa vicinanza delinea senza dubbio quello che sarà l’asse ideologico USA-Europa di questa nuova alleanza internazionale.
La relazione molto stretta del presidente Javier Milei sia con Musk che con Meloni proietterebbe il leader argentino come “gamba” latinoamericana di questa costruzione conservatrice.
L’innesco
L’ultimo fine settimana di dicembre Musk, miliardario sudafricano naturalizzato canadese e statunitense, ha rilasciato un commento al quotidiano tedesco Welt am Sonntag (edizione domenicale di Die Welt) che ha avuto l’effetto di una bomba politica nel Paese. Secondo Musk, l’Alternativa per la Germania (AfD) di estrema destra è “l’ultima scintilla di speranza” per la Germania, che, ha osservato, “è sull’orlo del collasso economico e culturale”.
Il commento è stato pubblicato insieme a quello di Jan Philipp Burgard, nuovo caporedattore del gruppo Welt, secondo cui “la diagnosi di Musk è corretta, ma il suo approccio terapeutico, secondo cui solo l’AfD può salvare la Germania, è fatalmente errato”. Burgard ha definito l’AfD “un pericolo per i nostri valori e la nostra economia” e ha ricordato che Björn Höcke, uno dei leader dell’AfD, “è stato condannato più volte per aver usato uno slogan nazista vietato”.
L'intervista a Musk ha ampliato un messaggio pubblicato qualche giorno prima sul suo social network X, in cui aveva già anticipato in modo sintetico la sua analisi della situazione tedesca. Un’analisi che ha generato malessere in settori importanti della classe politica tedesca, che sta facendo campagna elettorale per le elezioni anticipate del 23 febbraio prossimo. Nei sondaggi preliminari, l’AfD, che gode del sostegno di Musk dagli Stati Uniti, appare con quasi il 20% dei voti.
Un giorno dopo il suo controverso commento alla Welt am Sonntag, il quotidiano francese Le Monde ha chiesto: “Fino a che punto Elon Musk estenderà la sua influenza nella campagna elettorale tedesca?” In ogni caso, scrive Le Monde, “il miliardario sembra determinato a svolgere un ruolo attivo nei dibattiti a meno di dodici settimane dalle elezioni legislative anticipate”.
La visione di Musk
A differenza delle sue brevi opinioni in X, osserva Le Monde, questa volta Elon Musk “si è preso il tempo di argomentare, giustificando la sua interferenza nel dibattito pubblico tedesco con il suo status di investitore”, riferendosi al suo gruppo imprenditoriale Tesla, la cui unica fabbrica di automobili europea si trova a Grünheide, vicino a Berlino. Secondo il quotidiano, l’aperto sostegno di Musk all’Alleanza di destra per la Germania è molto problematico, dal momento che lo considera un partito “rispettabile”. Opportunamente, le uniche richieste dell’Alleanza che Musk cita nella sua rubrica di opinione fanno parte anche dei manifesti elettorali dell’Unione Cristiano-Democratica (CDU e CSU) e dei liberali del Partito Democratico Liberal (FDP): tagli alle tasse e deregolamentazione economica, controlli più severi sull’immigrazione e riforma della politica energetica a favore di un ritorno all’energia nucleare.
Nel suo commento della scorsa settimana, il magnate statunitense ha inoltre sostenuto che solo l’AfD è degno di fiducia, poiché gli altri partiti “hanno fallito”, e ha difeso la sua posizione con argomenti banali: “A coloro che condannano l’AfD come estremista, dico: ‘Non lasciate che l’etichetta che vi è stata data vi preoccupi’”. E ha citato come prova di non essere estremista di destra o anti-straniero il fatto che Alice Weidel, la principale leader dell’Alleanza e candidata cancelliera, ha una relazione saffica con la sua compagna di vita, la produttrice cinematografica dello Sri Lanka Sarah Bossard.
L’opinione di Musk ha provocato le immediate dimissioni della redazione del settimanale e le immediate reazioni dei leader politici, tra cui il cancelliere Olaf Sholz. Il suo impatto è stato tale da smuovere le acque di un dibattito che sta ancora infuriando nella prima metà di gennaio e che si è già esteso oltre la Germania ad altri Paesi europei, come il Regno Unito.
Offensiva europea
Giovedì 9 gennaio, Musk ha nuovamente fornito una piattaforma mediatica di primo piano alla sua alleata tedesca Alice Weidel, con un’intervista di oltre un’ora trasmessa in diretta sulla rete digitale del magnate, che in alcuni momenti ha superato i 200.000 follower.
Musk ha manifestato un particolare interesse per la politica britannica da quando il partito laburista socialdemocratico ha vinto le elezioni nel luglio 2024. Negli ultimi sei mesi, ad esempio, si è espresso a favore dei conservatori del Paese e ha chiesto l’incriminazione di Keir Starmer, il primo ministro britannico accusato dall’opposizione di aver coperto lo sfruttamento sessuale di giovani ragazze da parte di bande di immigrati in diverse città quando era direttore della pubblica accusa.
Il sondaggio che Musk ha appena lanciato tra i suoi utenti, con la proposta secondo la quale “l’America dovrebbe liberare il popolo britannico dal suo dominio tirannico”, parla della sua audacia. Al momento il Regno Unito, che ha affinità storiche con gli Stati Uniti, e la Germania, spina dorsale dell’Unione Europea, sono i bersagli preferiti dei dardi lanciati dal futuro ministro degli Stati Uniti.
Nella prima settimana di gennaio, Starmer, Scholz, Emmanuel Macron e Pedro Sánchez hanno criticato Musk per il suo sostegno all’estrema destra europea e per la sua ingerenza nella politica interna del continente. Il 7 gennaio, il presidente francese ha denunciato Musk per “promuovere un’internazionale reazionaria” che minaccia la democrazia, per essersi intromesso nella campagna elettorale tedesca e per le pressioni dei grandi “conglomerati tecnologici”.
Un giorno prima, l’Unione Europea ha criticato Musk e il suo social network per non aver rispettato le norme sulla trasparenza e il regolamento sui servizi digitali dell’UE e lo ha esortato a mantenere la sua piattaforma neutrale nelle prossime elezioni tedesche.
Secondo l’emittente pubblica svizzera TSR, il 4 gennaio Scholz ha condannato le “dichiarazioni erratiche” di Musk, definendolo un “pazzo” e un “imbecille incompetente” e descrivendo il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier come un “tiranno”. TSR ha anche ricordato che il primo ministro norvegese Jonas Gahr Støre ha espresso alla radio pubblica NRK la sua preoccupazione “per il fatto che un uomo con un considerevole accesso ai social network e con significative risorse finanziarie si coinvolga in questo modo e direttamente negli affari interni di altri Paesi”.
Ma è stato forse il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez a spingersi più in là nelle sue critiche e mercoledì 8 gennaio, in occasione della cerimonia di apertura del 50° anniversario della scomparsa del dittatore Francisco Franco, è passato all’attacco. Al Museo Reina Sofía di Madrid ha affermato che non è necessario essere di destra o di sinistra per guardare indietro con grande tristezza e terrore agli anni bui del regime di Franco e “temere che questa regressione si ripeta”. Sánchez ha aggiunto che “il fascismo che pensavamo di esserci lasciati alle spalle è ora la terza forza in Europa. E l’internazionale di destra guidata dall’uomo più ricco del pianeta” (riferendosi a Musk senza nominarlo), “attacca apertamente le nostre istituzioni, fomenta l’odio e invita a sostenere gli eredi del nazismo in Germania”. La libertà non è mai conquistata in modo definitivo, ma può essere persa, ha concluso il leader socialdemocratico spagnolo.
Un potere molto speciale
France Inter si è recentemente chiesta: “Quale altro privato cittadino al mondo ha il potere di suscitare così tante reazioni?” La conclusione è stata che Musk non è chiaramente un cittadino come gli altri: “È, allo stesso tempo, l’uomo più ricco del mondo, a capo di aziende emblematiche come Tesla o Space X; è vicino a Donald Trump, che gli ha affidato il compito di tagliare le spese federali e, soprattutto, è il proprietario del social network X, l’ex Twitter, di cui ha fatto la sua personale cassa di risonanza e delle cause che difende”.
La stessa analisi si riferiva alla “alleanza shock” tra il magnate e la nuova leadership statunitense: “Elon Musk non parla a nome di Donald Trump, ma, per il momento, è in sintonia con lui. Ha adottato i suoi codici di comunicazione e usa e abusa del potere della sua piattaforma X”. Ha sottolineato che l’unione di Musk e di altri giganti tecnologici con Donald Trump preannuncia il matrimonio tra i nuovi padroni del capitalismo statunitense e il promotore di Make America Great Again [MAGA].
E ha anticipato che questa formidabile alleanza avrà un impatto e un’influenza diretta sugli alleati degli Stati Uniti, a cominciare dagli europei.
Tra questi, il capo governo italiano Meloni, praticamente l’unico leader dei principali paesi europei che ha abbracciato con gioia la linea Trump-Musk. Meloni ha appena definito Musk un “genio” e uno “straordinario innovatore”. Proprio il ruolo che la rete X (come molti altri social media) sta già svolgendo come strumento di polarizzazione politica, come documenta uno studio pubblicato nel novembre 2024 su Nature Communications dalla City St. George’s School of Science and Technology, University of London, con il supporto dell’Alan Turing Institute.
Pur riconoscendo i propri limiti – include solo nove Paesi e l’analisi dei 375 milioni di interazioni su X è limitata a un solo giorno del settembre 2022 – questo studio serve comunque a indicare le tendenze. E conclude che i messaggi tossici influenzano e limitano il dialogo democratico nei nove Paesi studiati, promuovendo l’abuso o l’uso improprio di contenuti politici.
Più che mai il mondo reale, presentato a modo suo dalla comunicazione digitale in rete – in gran parte costruita dalla nuova intelligenza artificiale – controllata dagli uomini più ricchi del pianeta, sta diventando teatro di una crescente polarizzazione politico-ideologica che non si vedeva dalla fine della guerra fredda e che minaccia di infiammarsi in nuove guerre finora impensabili.
Fonte
L’uomo che sta emergendo come una potente pedina del futuro governo di Donald Trump non ha fatto mistero della sua ambizione di diventare il protagonista principale e negli ultimi giorni ha mosso pezzi nella partita a scacchi internazionale. Anticipando, così, che dal comodo potere repubblicano alla Casa Bianca potrebbe diventare un attivo promotore di quella che si sta configurando come un’internazionale di estrema destra. Niente di meno che una “internazionale reazionaria”, come molti media europei l’hanno già definita.
La stretta relazione di Musk con il capo del governo italiano Giorgia Meloni ha facilitato l’incontro della leader italiana all’inizio di gennaio con il futuro presidente Donald Trump. Questa vicinanza delinea senza dubbio quello che sarà l’asse ideologico USA-Europa di questa nuova alleanza internazionale.
La relazione molto stretta del presidente Javier Milei sia con Musk che con Meloni proietterebbe il leader argentino come “gamba” latinoamericana di questa costruzione conservatrice.
L’innesco
L’ultimo fine settimana di dicembre Musk, miliardario sudafricano naturalizzato canadese e statunitense, ha rilasciato un commento al quotidiano tedesco Welt am Sonntag (edizione domenicale di Die Welt) che ha avuto l’effetto di una bomba politica nel Paese. Secondo Musk, l’Alternativa per la Germania (AfD) di estrema destra è “l’ultima scintilla di speranza” per la Germania, che, ha osservato, “è sull’orlo del collasso economico e culturale”.
Il commento è stato pubblicato insieme a quello di Jan Philipp Burgard, nuovo caporedattore del gruppo Welt, secondo cui “la diagnosi di Musk è corretta, ma il suo approccio terapeutico, secondo cui solo l’AfD può salvare la Germania, è fatalmente errato”. Burgard ha definito l’AfD “un pericolo per i nostri valori e la nostra economia” e ha ricordato che Björn Höcke, uno dei leader dell’AfD, “è stato condannato più volte per aver usato uno slogan nazista vietato”.
L'intervista a Musk ha ampliato un messaggio pubblicato qualche giorno prima sul suo social network X, in cui aveva già anticipato in modo sintetico la sua analisi della situazione tedesca. Un’analisi che ha generato malessere in settori importanti della classe politica tedesca, che sta facendo campagna elettorale per le elezioni anticipate del 23 febbraio prossimo. Nei sondaggi preliminari, l’AfD, che gode del sostegno di Musk dagli Stati Uniti, appare con quasi il 20% dei voti.
Un giorno dopo il suo controverso commento alla Welt am Sonntag, il quotidiano francese Le Monde ha chiesto: “Fino a che punto Elon Musk estenderà la sua influenza nella campagna elettorale tedesca?” In ogni caso, scrive Le Monde, “il miliardario sembra determinato a svolgere un ruolo attivo nei dibattiti a meno di dodici settimane dalle elezioni legislative anticipate”.
La visione di Musk
A differenza delle sue brevi opinioni in X, osserva Le Monde, questa volta Elon Musk “si è preso il tempo di argomentare, giustificando la sua interferenza nel dibattito pubblico tedesco con il suo status di investitore”, riferendosi al suo gruppo imprenditoriale Tesla, la cui unica fabbrica di automobili europea si trova a Grünheide, vicino a Berlino. Secondo il quotidiano, l’aperto sostegno di Musk all’Alleanza di destra per la Germania è molto problematico, dal momento che lo considera un partito “rispettabile”. Opportunamente, le uniche richieste dell’Alleanza che Musk cita nella sua rubrica di opinione fanno parte anche dei manifesti elettorali dell’Unione Cristiano-Democratica (CDU e CSU) e dei liberali del Partito Democratico Liberal (FDP): tagli alle tasse e deregolamentazione economica, controlli più severi sull’immigrazione e riforma della politica energetica a favore di un ritorno all’energia nucleare.
Nel suo commento della scorsa settimana, il magnate statunitense ha inoltre sostenuto che solo l’AfD è degno di fiducia, poiché gli altri partiti “hanno fallito”, e ha difeso la sua posizione con argomenti banali: “A coloro che condannano l’AfD come estremista, dico: ‘Non lasciate che l’etichetta che vi è stata data vi preoccupi’”. E ha citato come prova di non essere estremista di destra o anti-straniero il fatto che Alice Weidel, la principale leader dell’Alleanza e candidata cancelliera, ha una relazione saffica con la sua compagna di vita, la produttrice cinematografica dello Sri Lanka Sarah Bossard.
L’opinione di Musk ha provocato le immediate dimissioni della redazione del settimanale e le immediate reazioni dei leader politici, tra cui il cancelliere Olaf Sholz. Il suo impatto è stato tale da smuovere le acque di un dibattito che sta ancora infuriando nella prima metà di gennaio e che si è già esteso oltre la Germania ad altri Paesi europei, come il Regno Unito.
Offensiva europea
Giovedì 9 gennaio, Musk ha nuovamente fornito una piattaforma mediatica di primo piano alla sua alleata tedesca Alice Weidel, con un’intervista di oltre un’ora trasmessa in diretta sulla rete digitale del magnate, che in alcuni momenti ha superato i 200.000 follower.
Musk ha manifestato un particolare interesse per la politica britannica da quando il partito laburista socialdemocratico ha vinto le elezioni nel luglio 2024. Negli ultimi sei mesi, ad esempio, si è espresso a favore dei conservatori del Paese e ha chiesto l’incriminazione di Keir Starmer, il primo ministro britannico accusato dall’opposizione di aver coperto lo sfruttamento sessuale di giovani ragazze da parte di bande di immigrati in diverse città quando era direttore della pubblica accusa.
Il sondaggio che Musk ha appena lanciato tra i suoi utenti, con la proposta secondo la quale “l’America dovrebbe liberare il popolo britannico dal suo dominio tirannico”, parla della sua audacia. Al momento il Regno Unito, che ha affinità storiche con gli Stati Uniti, e la Germania, spina dorsale dell’Unione Europea, sono i bersagli preferiti dei dardi lanciati dal futuro ministro degli Stati Uniti.
Nella prima settimana di gennaio, Starmer, Scholz, Emmanuel Macron e Pedro Sánchez hanno criticato Musk per il suo sostegno all’estrema destra europea e per la sua ingerenza nella politica interna del continente. Il 7 gennaio, il presidente francese ha denunciato Musk per “promuovere un’internazionale reazionaria” che minaccia la democrazia, per essersi intromesso nella campagna elettorale tedesca e per le pressioni dei grandi “conglomerati tecnologici”.
Un giorno prima, l’Unione Europea ha criticato Musk e il suo social network per non aver rispettato le norme sulla trasparenza e il regolamento sui servizi digitali dell’UE e lo ha esortato a mantenere la sua piattaforma neutrale nelle prossime elezioni tedesche.
Secondo l’emittente pubblica svizzera TSR, il 4 gennaio Scholz ha condannato le “dichiarazioni erratiche” di Musk, definendolo un “pazzo” e un “imbecille incompetente” e descrivendo il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier come un “tiranno”. TSR ha anche ricordato che il primo ministro norvegese Jonas Gahr Støre ha espresso alla radio pubblica NRK la sua preoccupazione “per il fatto che un uomo con un considerevole accesso ai social network e con significative risorse finanziarie si coinvolga in questo modo e direttamente negli affari interni di altri Paesi”.
Ma è stato forse il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez a spingersi più in là nelle sue critiche e mercoledì 8 gennaio, in occasione della cerimonia di apertura del 50° anniversario della scomparsa del dittatore Francisco Franco, è passato all’attacco. Al Museo Reina Sofía di Madrid ha affermato che non è necessario essere di destra o di sinistra per guardare indietro con grande tristezza e terrore agli anni bui del regime di Franco e “temere che questa regressione si ripeta”. Sánchez ha aggiunto che “il fascismo che pensavamo di esserci lasciati alle spalle è ora la terza forza in Europa. E l’internazionale di destra guidata dall’uomo più ricco del pianeta” (riferendosi a Musk senza nominarlo), “attacca apertamente le nostre istituzioni, fomenta l’odio e invita a sostenere gli eredi del nazismo in Germania”. La libertà non è mai conquistata in modo definitivo, ma può essere persa, ha concluso il leader socialdemocratico spagnolo.
Un potere molto speciale
France Inter si è recentemente chiesta: “Quale altro privato cittadino al mondo ha il potere di suscitare così tante reazioni?” La conclusione è stata che Musk non è chiaramente un cittadino come gli altri: “È, allo stesso tempo, l’uomo più ricco del mondo, a capo di aziende emblematiche come Tesla o Space X; è vicino a Donald Trump, che gli ha affidato il compito di tagliare le spese federali e, soprattutto, è il proprietario del social network X, l’ex Twitter, di cui ha fatto la sua personale cassa di risonanza e delle cause che difende”.
La stessa analisi si riferiva alla “alleanza shock” tra il magnate e la nuova leadership statunitense: “Elon Musk non parla a nome di Donald Trump, ma, per il momento, è in sintonia con lui. Ha adottato i suoi codici di comunicazione e usa e abusa del potere della sua piattaforma X”. Ha sottolineato che l’unione di Musk e di altri giganti tecnologici con Donald Trump preannuncia il matrimonio tra i nuovi padroni del capitalismo statunitense e il promotore di Make America Great Again [MAGA].
E ha anticipato che questa formidabile alleanza avrà un impatto e un’influenza diretta sugli alleati degli Stati Uniti, a cominciare dagli europei.
Tra questi, il capo governo italiano Meloni, praticamente l’unico leader dei principali paesi europei che ha abbracciato con gioia la linea Trump-Musk. Meloni ha appena definito Musk un “genio” e uno “straordinario innovatore”. Proprio il ruolo che la rete X (come molti altri social media) sta già svolgendo come strumento di polarizzazione politica, come documenta uno studio pubblicato nel novembre 2024 su Nature Communications dalla City St. George’s School of Science and Technology, University of London, con il supporto dell’Alan Turing Institute.
Pur riconoscendo i propri limiti – include solo nove Paesi e l’analisi dei 375 milioni di interazioni su X è limitata a un solo giorno del settembre 2022 – questo studio serve comunque a indicare le tendenze. E conclude che i messaggi tossici influenzano e limitano il dialogo democratico nei nove Paesi studiati, promuovendo l’abuso o l’uso improprio di contenuti politici.
Più che mai il mondo reale, presentato a modo suo dalla comunicazione digitale in rete – in gran parte costruita dalla nuova intelligenza artificiale – controllata dagli uomini più ricchi del pianeta, sta diventando teatro di una crescente polarizzazione politico-ideologica che non si vedeva dalla fine della guerra fredda e che minaccia di infiammarsi in nuove guerre finora impensabili.
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