Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

20/06/2025

Sciopero generale del 20 giugno. Successo di Unione Sindacale di Base

I trasporti sono bloccati o rallentati su tutto il territorio nazionale grazie alla massiccia adesione dei lavoratori del settore allo sciopero generale promosso da USB. Inoltre, in diverse città (Torino, Napoli, Firenze, Roma e Catania) l’USB sta attuando dei presidi nei pressi degli uffici e degli stabilimenti della Leonardo S.p.A.

Con queste iniziative l’USB vuole denunciare il ruolo che questa azienda, partecipata dal nostro Ministero delle Finanze per una quota capitale del 30,2%, sta svolgendo nei conflitti in corso nel mondo e, contemporaneamente, smascherare la retorica che si va costruendo sulla presunta utilità dell’industria militare alla nostra economia.

Il sindacato di base ricorda in una nota che Leonardo Spa è il primo produttore di armi nell’Unione Europea, il secondo in Europa, il 13° nel mondo (SIPRI). Nei fatti, l’ex Finmeccanica ha perseguito negli scorsi decenni la dismissione di quasi tutti i settori produttivi civili, per dedicarsi al core business della guerra.

Dagli ultimi bilanci emerge che più dell’80% del proprio fatturato la Leonardo lo realizza nel settore difesa, producendo quasi solo per clienti governativi (88%). E non è un’azienda a capitale ‘italiano’: a parte la quota del 30,2% detenuta dal Ministero delle finanze, il 51,8% del capitale è nelle mani di investitori istituzionali (cioè banche, fondi d’investimento, fondi pensione) per la gran parte britannici e statunitensi.

La componente produttiva militare è passata negli ultimi 15 anni dal 56% all’83%. Ma mentre compiva questa trasformazione da impresa mista civile-militare a impresa prevalentemente militare, Leonardo ha ridotto i suoi occupati in Italia del 24%. E questo è avvenuto nonostante le molte acquisizioni di commesse nel settore militare (come la partecipazione alla produzione dei nuovi caccia F-35 per la quale in Parlamento il governo aveva promesso 10.000 nuovi posti di lavoro) e le svariate acquisizioni d’impresa.

Leonardo ha chiuso il 2024 con numeri che certificano una crescita impetuosa: ricavi a 17,8 miliardi di euro (+11,1%), ordini per 20,9 miliardi (+16,8%) e un margine operativo lordo (EBITDA) di 1,525 miliardi (+12,9%). Una performance che ha superato le previsioni degli analisti e che testimonia come il perdurare delle tensioni geopolitiche alimenti i profitti dell’industria bellica.

Dopo aver consegnato nei mesi scorsi 30 aerei da addestramento M-346, l’azienda ha cominciato a inviare elicotteri AgustaWestland AW119Kx “Koala-Ofer” per addestrare i piloti della Israel Air Force (IAF) presso la base aerea di Hatzerim, nel deserto del Negev. Questi velivoli sostituiranno i più datati Bell-206 “Saifan”, offrendo avanzate tecnologie di avionica e capacità di volo notturno.

L’importante ruolo delle armi “Made in Italy” a Gaza è stato evidenziato dagli stessi israeliani, che hanno dichiarato al sito specializzato Israel Defense che i missili che hanno colpito la Striscia provenivano anche da cannoni fabbricati in Italia e venduti a Tel Aviv. Un dato citato anche dall’Osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei The Weapon Watch, che ha pubblicamente smentito l’azienda, dopo che quest’ultima aveva affermato che l’esercito israeliano non stesse utilizzando mezzi di sua produzione nella carneficina di Gaza.

La Leonardo SpA è presente con i suoi impianti industriali in Italia, Regno Unito, Stati Uniti d’America, Polonia e Israele. Israele non è solo un cliente, ma ospita stabilimenti e dipendenti di Leonardo, grazie ad un’operazione conclusasi nel luglio 2022 con l’acquisizione della società israeliana RADA Electronic Industries, specializzata in radar per la difesa a corto raggio e anti-droni e alla conseguente nascita della nuova società israeliana DRS RADA Technologies, che è controllata da Leonardo DRS Inc. con sede negli Stati Uniti. Ha 248 dipendenti in tre sedi israeliane (uffici a Netanya, stabilimento principale a Beit She’an, centro ricerche presso il Gav-Yam Negev Tech Park di Beer Sheva), oltre ai nuovissimi uffici a Germantown, Maryland, ai margini dell’area metropolitana di Washington, D.C.

DRS RADA Technologies ha partecipato alla realizzazione di ‘Iron Fist’, un sistema di protezione attivo montato sui nuovi AFV, mezzi corazzati da combattimento delle Israel Defence Forces (IDF), gli ‘Eitan’ a otto ruote destinati a sostituire i vecchi M113. La prima consegna dei nuovi blindati è avvenuta nel maggio 2023, alla 933a Brigata ‘Nahal’, con previsione di effettivo impiego operativo nel corso del 2024. Gli Eitan hanno partecipato all’invasione e alle operazioni militari di Gaza. D’ora in avanti, anche i nuovi blindati israeliani e i sistemi di protezione che montano – tra cui i radar tattici di DRS RADA, del gruppo Leonardo – potranno definirsi battle tested.

Non è questo il solo recente contributo di Leonardo alla guerra di Israele contro Gaza e la sua popolazione.

Secondo una tattica già utilizzata in altre precedenti invasioni di Gaza, l’avanzata delle truppe israeliane è accompagnata o seguita da giganteschi bulldozer blindati Caterpillar D9, che utilizzano un’impressionante potenza e un ragguardevole peso (450 HP per oltre 70 tonnellate, nell’ultima versione ‘T’) per il movimento terra, lo sminamento e per distruggere le abitazioni e le strutture palestinesi.

Soprannominato in Israele ‘Doobi’ (‘orsacchiotto’), è una macchina temibile, al cui impiego si dovette tra l’altro la morte della militante nonviolenta statunitense Rachel Corrie (1979-2003), schiacciata da un bulldozer militare nei pressi del confine tra Gaza e l’Egitto mentre si opponeva alla distruzione di abitazioni palestinesi.

Anche i bulldozer blindati dell’esercito israeliano saranno dotati dei sistemi di protezione attiva e dei radar tattici di DRS RADA.

Inoltre, il gruppo Leonardo – tramite le società controllate negli Stati Uniti – supporta la mobilità dei mezzi pesanti dell’IDF fornendo gli speciali carrelli a due assi capaci di un carico utile di 77 tonnellate, un modello nuovo di heavy-duty tank trailer (HDTT) prodotto dalla DRS Sustainment Systems Inc., con sede a Bridgeton, Missouri, azienda del gruppo Leonardo.

Il Trattato delle Nazioni Unite sul commercio delle armi, ratificato dall’Italia nel 2013, vieta l’esportazione di armamenti se vi è il rischio che vengano utilizzati contro obiettivi civili. Tuttavia, le forniture continuano, come dimostra la joint venture Leonardo Rheinmetall Military Vehicles, nata nel 2024, che rappresenta un progetto industriale strategico che coinvolge stabilimenti italiani, tra cui quelli ex Oto Melara di La Spezia e la fabbrica di Domusnovas in Sardegna, gestita da RWM Italia, controllata di Rheinmetall.

È certo inoltre che le bombe prodotte da RWM Italia in Sardegna sono state utilizzate dall’aviazione saudita nel conflitto yemenita, una guerra iniziata nel 2014 che ha visto la coalizione arabo-americana bombardare il paese, causando migliaia di vittime civili e una crisi umanitaria senza precedenti. Nonostante la revoca delle forniture di bombe e missili da parte del governo italiano nel 2019, le esportazioni sono riprese e intensificate dal 2024, con un aumento significativo delle vendite e del supporto militare.

Infine, ma non meno importante, va sottolineato il contributo della Leonardo SpA nell’ambizioso e costoso progetto delle forze armate degli Stati Uniti d’America per prepararsi alla guerra nucleare: la costruzione di dodici sottomarini a propulsione nucleare armati di missili balistici intercontinentali con testate atomiche da centinaia di kiloton.

A gennaio la controllata Leonardo DRS con quartier generale e stabilimenti negli USA ha sottoscritto un contratto del valore complessivo di 3 miliardi di dollari per fornire il sistema integrato di propulsione elettrica che sarà montato a bordo dei nuovi sistemi di guerra subacquea. Nello specifico Leonardo DRS curerà per conto di US Navy e della società contractor (General Dynamics Electric Boat) la progettazione e la realizzazione del motore elettrico di propulsione principale a magnete permanente e i relativi sistemi di conduzione e controllo.

La sede operativa più interessata da questo progetto è il porto di Genova, ma anche altri cantieri potrebbero essere interessati dalla proliferazione di navi a propulsione nucleare.

«Il nucleare con reattori più piccoli consente di essere utilizzato non solo su sommergibili e portaerei, ma anche sulle navi più piccole come incrociatori o, addirittura, le Fregate» aveva affermato Pierroberto Folgiero, ad di Fincantieri, intervenendo alla tavola rotonda promossa da Confindustria Udine l’11 marzo 2025.

È risaputo che il Ministero della Difesa italiano ha avviato un progetto per implementare reattori nucleari a bordo di navi militari, con Fincantieri e Ansaldo Nucleare in prima linea nel progetto. Altri progetti sul nucleare “dual use” coinvolgono Leonardo e Enel. Parallelamente, il 28 febbraio 2025 il governo Meloni ha approvato un disegno di legge «in materia di energia nucleare sostenibile» per favorire la proliferazione di queste “piccole centrali” (i moduli SMR, small modular reactor).

Ecco quindi i motivi per cui occorre intraprendere una campagna che smascheri il ruolo nefasto che questa società sta svolgendo in Italia e nel mondo:

- perché costruisce e vende armi e sistemi d’arma che vengono immediatamente utilizzati in teatri di guerra;

- perché contribuisce al sostegno militare all’esercito israeliano impegnato nel genocidio di Gaza e ora in nuovi conflitti in tutto il Medio Oriente;

- perché è impegnata nella produzione di nuovi sistema d’arma nucleari e direttamente interessata al rilancio del nucleare in Italia;

- perché nonostante i colossali profitti incassati con le guerre in corso Leonardo SpA diminuisce il suo personale negli stabilimenti italiani, dimostrando così che tanta produzione di morte non produce neanche significativi vantaggi alla nostra economia (la tesi bugiarda tanto sbandierata dai nostri ministri).

Venerdì 20 giugno sciopero generale contro l’economia di guerra con manifestazioni in tutta in Italia – a Roma, Napoli, Firenze e Torino davanti agli stabilimenti e agli uffici della Leonardo SpA.

USB

*****

Pubblichiamo di seguito una nota dei ricercatori che aderiscono al sindacato di base.

*****

Da mesi stiamo assistendo ad una deriva bellica che non accenna a fermarsi. Il genocidio in corso a Gaza da quasi due anni, ormai non può essere ignorato neanche dai più testardi sostenitori di Israele, che si conferma uno Stato terrorista e canaglia che bombarda senza timore di sanzioni e utilizza la fame come arma contro la popolazione civile.

Il recente attacco all’Iran, sostenuto dagli Stati Uniti e giustificato dall’Europa, è la conferma che siamo di fronte ad un’escalation che rende ogni giorno più concreta l’ipotesi della terza guerra mondiale.

Tra pochi giorni, il 24 e 25 giugno, si svolgerà in Olanda il vertice NATO, per determinare l’aumento delle spese militari che l’Europa vuole spacciarci come “esigenza di sicurezza”, ma che in realtà è l’atto propedeutico al passaggio da guerra economica a guerra guerreggiata, con annesso arricchimento dell’oligarchia che gestisce armi e strumenti tecnologici.

Noi, come lavoratori della ricerca pubblica, siamo coinvolti in tutto questo!

Perché la Ricerca è ormai sempre più finalizzata alla tecnologia dual use, quando non esclusivamente a scopo bellico.

Perché le risorse che non si trovano per rinnovare i nostri contratti o per stabilizzare i precari di Enti e Atenei, sono invece immediatamente disponibili per il RIARMO EUROPEO.

Perché una brigata meccanizzata di poche centinaia di soldati costa ogni anno più di un miliardo di euro, gli stessi soldi che servono a pagare gli stipendi di tutti i lavoratori e le lavoratrici degli enti di ricerca.

Perché questa è una guerra a difesa del Capitale e noi siamo solo carne da cannone.

Non vogliamo e non possiamo stare a guardare!

I lavoratori della Ricerca non si schierano nella guerra del capitale!

Noi stiamo, dalla parte opposta! Dalla parte giusta! Quella del progresso e del bene comune, della solidarietà, dei diritti, del disarmo e della pace.

Fonte

Quando i movimenti contro la guerra e la “politica” si dividono

Pillole di storia recente. Tratto da “La Storia anomala” (terzo volume) di imminente uscita.

“A luglio 2006 la missione italiana in Afghanistan deve essere rinnovata con il voto del Parlamento. Una pattuglia di senatori e deputati del Prc e del PdCI, più collegati con i movimenti contro la guerra che si erano attivati nel paese dal 2003 in poi, annunciano la disponibilità a votare contro il rinnovo della missione militare in Afghanistan, una scelta che indubbiamente avrebbe messo in minoranza il governo Prodi intenzionato invece a mantenere gli impegni militari con la Nato e gli Usa.

La pressione contro questa pattuglia di parlamentari diventa fortissima. I compagni della RdC, non da soli ovviamente, capiscono che intorno a questi senatori e deputati occorre costruire un forte cordone di protezione e consenso politico che ne sostenga la scelta antiguerra.

In pieno luglio viene organizzata una grande e partecipatissima assemblea al centro congresso Frentani a Roma. Sala gremita, attestati di solidarietà giungono da personalità di ambiti assai diversi (da Gino Strada a Beppe Grillo). Vengono create tutte le condizioni affinché chi in Parlamento si schiererà contro il proseguimento dell’impegno militare italiano sarà tutt’altro che isolato.

Ma al momento delle scelte prevale però l’opportunismo e con mille giravolte tutti i membri dei gruppi parlamentari del Prc e del PdCI alla fine voteranno a favore del rinnovo della missione militare in Afghanistan. Si consuma così una prima rottura tra movimenti e partiti di sinistra presenti in Parlamento. Nelle piazze volano parole grosse e nelle relazioni si incrinano amicizie e attestati di stima costruiti negli anni.

A marzo del 2007 le cose anche in Parlamento diventano più chiare. In una mozione sulla politica estera del governo Prodi, un deputato del Prc (Franco Turigliatto) e un senatore del PdCI (Ferdinando Rossi) rompono le righe e votano contro le indicazioni dei loro gruppi parlamentari, mandando sotto il governo e provocando un terremoto politico. Entrambi verranno espulsi dai rispettivi partiti. Altri deputati e senatori dei due partiti, sollecitati a fare altrettanto, invece tradiranno le aspettative di tante compagne e compagni e si allineeranno alle indicazioni dei gruppi parlamentari di Prc e PdCI a supporto del governo Prodi.

Si consuma così una seconda e forse più profonda rottura politica tra gli esponenti dei partiti della sinistra in Parlamento e il loro popolo.

Gli esiti di questa rottura diventeranno clamorosi l’anno successivo (il 2008) con il fallimento elettorale della Lista Arcobaleno (costituita da Prc, PdCI e Verdi) e l’esclusione di questi partiti dalla presenza parlamentare, una assenza che perdura tuttora.

Eppure la manifestazione più clamorosa di questa rottura si rivelerà il 9 giugno 2007 in occasione della visita del presidente Usa Bush in Italia.

I movimenti sociali e antiguerra insieme ai sindacati di base convocano una manifestazione nazionale a Roma da Piazza della Repubblica a Piazza Navona contro la visita di Bush. I partiti della sinistra parlamentare (Prc e PdCI), per non entrare in contraddizione con il loro sostegno al governo Prodi, non partecipano alla manifestazione ma convocano a Piazza del Popolo una piazza alternativa al corteo.

Prima del 9 giugno, come è consuetudine, parte un appello dei soliti “pontieri” per ricongiungere le due manifestazioni. La Rete dei Comunisti in un comunicato risponde così a questi appelli: “Vogliamo dire che non possiamo condividere il loro appello perché è ormai dal luglio del 2006 che con molti dei firmatari le strade si sono divise e che il movimento No War (o parte di esso) è stato costretto da solo in tutti questi mesi a dare continuità agli obiettivi e alle battaglie condivise fino... al luglio 2006.

Lo ha fatto a luglio mentre in Parlamento si votava a favore del mantenimento della missione militare in Afghanistan e poi mentre Israele bombardava il Libano, lo ha fatto a settembre segnalando perplessità e contrarietà sulla nuova missione militare italiana in Libano, lo ha fatto a Novembre sulla Palestina (anche lì dividendosi sui contenuti in due piazze diverse e distinte), lo ha fatto a febbraio a Vicenza, lo ha fatto a marzo con la manifestazione del 19 e con i presidi sotto il Senato mentre nelle aule parlamentari si votava nuovamente a favore della missione militare in Afghanistan. Lo farà anche a giugno perché gli elicotteri Mangusta, i carri armati e nuovi soldati vengono inviati in Afghanistan nonostante ad aprile molti avessero dichiarato che non avrebbero mai accettato l’invio dei Mangusta, di altri soldati e armamenti nel mattatoio afgano.

Il 9 giugno a Roma ci saranno due manifestazioni perché questa realtà è il risultato dei fatti concreti sopraelencati. Ci sarà un corteo che attraverserà la capitale numeroso, partecipato, pacifico e animato da quelli che in questi dieci mesi non hanno rinunciato a contenuti e iniziative contro la guerra e ci sarà una piazza tematica animata dai partiti e dalle associazioni che tuttora sostengono e collaborano con il governo Prodi e le sue scelte concrete (….) Oggi non si può chiedere ai movimenti No War né a nessun altro di “non disturbare il manovratore”, è tempo che si abbia finalmente rispetto dell’autonomia dei movimenti dalle contingenze della “politica”.

La rottura è totale e produce una onda lunga che si riverbererà nel tempo. Il 9 giugno un enorme corteo contro la visita di Bush, la guerra e il governo Prodi, sfila per le strade di Roma cogliendo il sentimento diffuso nella sinistra e nei movimenti sociali del paese. I partiti della sinistra parlamentare si ritrovano isolati in una Piazza del Popolo semi deserta ma soprattutto disertata. Contropiano esce con un titolo significativo: “Una sinistra senza popolo”.

Da “La Storia anomala” (terzo volume) di prossima uscita

Fonte

Niente Ucraina al prossimo vertice Nato, e allora Kiev lavora all’atomica

Non importa essere preveggenti o dotati di minima intuizione, per capire che in questi giorni, di fronte agli scenari mediorientali, le figurine con i volti dei diversi ras della junta di Kiev sarebbero rimaste incollate, al massimo, sull’album sfocato di via Solferino e, anche lì, non nelle pagine centrali e non nelle aperture di pagina.

È così che anche i colloqui di pace sull’Ucraina, cui in buona parte aveva dato impulso Donald Trump in primavera, stanno progressivamente scomparendo nell’agenda mediatica mondiale, lasciando il posto al conflitto iraniano-israeliano, su cui, invece, potrebbe risultare significativo il contributo di Mosca, a dispetto dei toni sarcastico-scandalizzati dei macronisti trans-e-cisalpini.

In compenso, tanto perché in qualche modo ci si ricordi della sua esistenza, torna ad affacciarsi la questione del semi-ricatto lanciato l’autunno scorso da Vladimir Zelenskij su «o la NATO o l’atomica», pur se questa volta, proprio per le premesse di cui sopra, con effetto molto più annacquato.

Se, come in molti prevedono, all’imminente vertice dell’Alleanza atlantica, previsto per la prossima settimana a L’Aja, non si farà menzione dell’Ucraina e, men che meno, di future adesioni ucraine alla NATO, allora non è escluso che la junta di Kiev punti proprio a far valere il secondo termine del ricatto.

In tal caso, sarebbe quantomeno curioso assistere ai salti mortali cui potrebbero ricorrere i soliti giornali “volenterosi” per assicurare i lettori che “NO; nessuno ha il «diritto di difendersi», attaccando le centrali ucraine in cui si lavora alla bomba”!

Ora, per dire quanto Kiev e le bizze del nazigolpista-capo stiano ancora a cuore a qualcuno in giro per il mondo, basterebbe citare qualche lancio della Reuters, secondo cui, nelle ultime settimane, l’amministrazione USA ha addirittura rinviato a tempo indeterminato i lavori del gruppo “interagenzia”, messo in piedi per elaborare una strategia volta a premere su Mosca perché acceleri i colloqui di pace sull’Ucraina. Secondo funzionari statunitensi, Trump non è interessato a un’escalation del confronto con la Russia, così che i compiti del gruppo, scrive l’agenzia britannica, sono diventati irrilevanti.

Del resto, la “svolta” coinvolge non solo gli USA: il recente G7 ha dimostrato che l’Ucraina sta perdendo sempre più terreno nella lista delle priorità dell’Occidente, in generale, come ammette su “Politeka” il politologo ucraino Ruslan Bortnik, rilevando la stessa assenza, a conclusione del vertice in Groenlandia, di un comunicato congiunto sull’Ucraina, a fronte di altre cinque-sei dichiarazioni su temi diversi. E sono ormai in molti ad attendersi che più o meno lo stesso si ripeta al vertice NATO nei Paesi Bassi.

Ripete la stessa lamentazione un altro politologo ucraino: con la guerra tra Israele e Iran, Trump ha guarito il mondo dall’Ucraina, afferma Konstantin Bondarenko. Nel febbraio 2022, «Putin ha guarito il mondo dal coronavirus e nel giugno 2025 Trump ha guarito il mondo dal tema ucraino», che è di botto scomparso – di sicuro dalle prime pagine, ma in molti casi anche da quelle interne – dei giornali.

Episodi di guerra e bombardamenti che, fino a qualche mese fa, avrebbero tenuto banco per settimane, piange Bondarenko, non occupano i media per più di un giorno e la vicenda del G7 è stata indicativa: all’arrivo di Zelenskij, nessuno lo ha salutato o ha manifestato interesse nei suoi confronti; lui stesso se n’è andato anzitempo, Trump non ha voluto incontrarlo. E Zelenskij «sta prendendo la cosa molto seriosamente».

Alla buon’ora, vorremmo dire – e lo stesso Bondarenko lo ammette: la minaccia di un conflitto atomico che possa deflagrare in Medio Oriente preoccupa certo il mondo almeno “un po’ di più” della perdita di Crimea e Donbass da parte di Kiev. Vladimir Zelenskij, ricorda il politologo ucraino, è rimasto «l’eroe di tutte le cronache finché questa guerra è stata presentata come il conflitto militare più importante del pianeta».

Stando così la faccenda, The Guardian può benissimo scrivere che addirittura alcune figure in vista della junta starebbero esprimendo dubbi sull’opportunità che il nazigolpista-capo si presenti al vertice NATO, visto come è stato snobbato da Trump in Groenlandia, tanto più che l’Ucraina è praticamente assente dall’ordine del giorno.

Con tutta l’attenzione rivolta al Medio Oriente, scrive News-front: «ci sono tutte le ragioni per credere che Israele, in vista del vertice NATO, aumenterà deliberatamente la posta in gioco e il livello di tensione. Quindi, non è che l’Ucraina rimarrà solo sullo sfondo, ma non apparirà proprio sulla scena».

Non è un caso che si vociferi che l’Ucraina non verrà menzionata nel comunicato finale. Zelenskij è diventato fastidioso, affonda News-front: «continua a muoversi con il tono della cosiddetta “autorità morale” del 2022. All’epoca, aveva la capacità di empatia che i leader occidentali gli avevano conferito, ma l’ha sprecata durante il conflitto». Un attore a fine carriera.

L’agenda mediorientale è la più importante per il mondo da ormai 80 anni, afferma il politologo Igor Shatrov a “Sputnik in Crimea” e qualsiasi azione in questo contesto mette in secondo piano altri conflitti, soprattutto quello ucraino. Il presidente USA ha chiarito che Zelenskij non gli interessa più: per lui, è Israele la priorità assoluta.

L’agenda ucraina è forse importante per l’Europa, ma forse solo per l’Europa orientale. È importante «per coloro che ora si definiscono “Ucraina”, che non è però il mondo intero. Dunque, gli interessi possono cambiare e l’attenzione si sposterà di nuovo sul conflitto israelo-palestinese, israelo-iraniano, iraniano-saudita, israelo-saudita... Solo Zelenskij vuole dimostrare a tutti che non c’è nulla di più importante degli interessi di Kiev. Sbaglia, ma non ha altra scelta che gonfiarsi come una bolla di sapone», ha detto Shatrov.

Vero è che qualcuno, in Ucraina, non si dà per vinto e si dispera perché la UE non farebbe abbastanza per trasformare il conflitto in Ucraina in una «guerra dell’Europa», dando ancora più soldi a Kiev o entrando direttamente in guerra.

Intervenendo a un incontro del “Centro Eurasiatico” (finanziato direttamente da Washington) l’ex deputata della Rada, Anna Gopko, si è detta stupita che «i partner europei e occidentali siano disposti a investire meno del 3,5% del PIL nei loro sistemi di difesa, mentre il loro aiuto militare all’Ucraina è inferiore allo 0,1% del PIL occidentale».

Potremmo suggerire alla signora Gopko di acquistare spazi su qualche giornale milanese o torinese, da cui lanciare i propri appelli alla generosità europeista per ancor meno sanità e pensioni e più fondi alla junta nazigolpista. Chissà... 

Intanto, proprio a via Solferino, hanno trovato uno spazio in taglio basso perché anche “Fredegonda”-Kallas potesse unirsi al segretario NATO Mark Rutte sul dovere di aiutare «ulteriormente l’Ucraina», altrimenti «dovremmo iniziare tutti a imparare il russo»; che poi, vista la sua età, dubitiamo che non avesse imparato già prima del 1991.

La signora Gopko potrebbe forse unire la propria voce a quella di “Fredegonda”, la quale intende «spiegare alla nostra gente perché dobbiamo spendere» per la difesa e «perché dobbiamo fare sacrifici» per l’Ucraina. Ecco: ce lo spieghino tutte e due queste signore ex-“sovietiche”... 

Ma, come si accennava all’inizio, non è ancora detto che l’Ucraina scompaia del tutto e così presto dalle cronache internazionali, anche per il fatto che, come si urlava mesi fa da Kiev, “o la NATO o l’atomica”, se la prima variante si va dileguando, potrebbe benissimo affacciarsi la seconda.

È infatti ora la volta di un altro ucraino, Vlad Mikhnenko, scienziato emigrato a Oxford, a sostenere quanto detto verso la fine del 2024 dal fisico ucraino (emigrato però in Russia) ed ex deputato della Rada, Oleg Tsarëv, e cioè che Kiev starebbe lavorando segretamente per tornare a dotarsi di armi nucleari – di cui si è privata in base al Memorandum di Budapest del 1994 – potendo anche disporre di tutto il necessario, plutonio incluso.

A detta di Mikhnenko, le centrali «elettriche nucleari sovietiche erano in realtà fabbriche di plutonio, mentre l’elettricità era solo un sottoprodotto... Nell’Ucraina occidentale, c’è ancora una di tali centrali, ma ce ne sono anche altre che possono produrre plutonio. Sento i parlamentari parlare sempre di più dell’opzione nucleare».

Ci sarà anche in quel caso qualcuno pronto a tirare pacche sulle spalle a chi farà «il lavoro sporco per tutti noi»?

Fonte

Nascondere i danni della guerra. Israele vieta trasmissioni di agenzie e televisioni straniere

Il quotidiano Times of Israel riferisce che la polizia israeliana ha interrotto giovedì mattina la trasmissione di diverse agenzie di stampa straniere che riferivano dai siti di impatto dei missili iraniani sulle città israeliane.

Il filmato di una agenzia – che secondo la polizia ha rivelato “luoghi precisi” – era apparentemente utilizzato dalla rete di notizie Al Jazeera, vietata in Israele dalla scorsa estate.

Un portavoce della polizia ha detto che le unità di pattuglia sono state inviate per agire “contro le agenzie di stampa utilizzate da Al Jazeera per trasmettere contenuti non autorizzati e illegali”

Sempre il Times of Israel riporta che nel filmato dell’azione della polizia condiviso dal Ministero della Sicurezza Nazionale, si vede un ufficiale che ordina a un cameraman di consegnare il suo dispositivo di registrazione.

Il cameraman resiste e gli si sente dire in ebraico: “Ti stanno vedendo alla CNN, ti vedono alla BBC, ti vedono in tutto il mondo, quindi calmati per un secondo”. Il cameraman chiede all’agente di parlare con il portavoce della polizia e aggiunge che non può farci niente se altri canali stanno usando la sua trasmissione.

La decisione è stata presa “in conformità con la politica del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir e sotto la direttiva del commissario di polizia Danny Levy”, afferma un portavoce della polizia.

All’inizio di questa settimana, la polizia ha fatto irruzione negli uffici delle troupe televisive straniere dopo aver trasmesso gli impatti dei missili nell’area di Haifa, dove gli sbarramenti avevano preso di mira strutture sensibili.

Ben Gvir si è impegnato a reprimere i media stranieri che trasmettono i luoghi degli impatti dei missili.

“Le trasmissioni che mostrano esattamente dove atterrano i missili sullo Stato di Israele sono un pericolo per la sicurezza dello Stato”, ha detto martedì da un punto di impatto missilistico a Petah Tikva. “Mi aspetto che chiunque lo faccia sia trattato come qualcuno che danneggia la sicurezza dello Stato”.

Le autorità israeliane hanno cercato di limitare le informazioni sui luoghi di impatto che sostengono possano essere utilizzate dall’Iran per puntare meglio i suoi missili, ma l’argomentazione è semplicemente illogica (i missili sono già arrivati sul bersaglio, se non abbattuti prima). Più probabile che si voglia invece evitare di “deprimere” la propria popolazione, abituata ad un propaganda che descrive Israele come “invulnerabile”.

La televisione Al Jazeera riferisce che l’Iran ha lanciato il più grande lotto di razzi e droni verso vaste aree di Israele, in 48 ore, ferendo almeno 137 persone e causando una distruzione diffusa all’interno di Tel Aviv. 

Uno dei razzi ha colpito l’ospedale Soroka di Beersheva, che lavora per curare i soldati feriti a Gaza, e ha causato il crollo completo di un edificio, secondo i media israeliani. L’agenzia di stampa statale iraniana ha riferito che l’obiettivo dell’attacco missilistico su Beersheva era il quartier generale dell’Idf, confinante con l’ospedale, che è stato danneggiato dall’esplosione.

I missili iraniani hanno colpito diversi obiettivi nelle città di Tel Aviv, Ramat Gan, dove l’edificio della borsa israeliana è stato danneggiato, Holon e Beersheba. Il canale israeliano Channel 12 ha riportato le prime notizie di vittime dirette nella Grande Tel Aviv e il suono di enormi esplosioni, e la casa del membro del Likud ed ex ministro dell’ambiente Danny Naveh è stata colpita.

Fonte

Le sanzioni dividono il mondo. Scontro all’Onu tra Sud globale e occidente

Con 116 voti a favore, 51 contrari e 6 astensioni (Bahamas, Kazakistan, Panama, Paraguay, Turchia, Emirati Arabi Uniti), l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato martedì una risoluzione sulla “Giornata internazionale contro le misure coercitive unilaterali” (documento A/79/L.93).

In base ai suoi termini, l’Assemblea ha deciso di proclamare il 4 dicembre Giornata internazionale contro le misure coercitive unilaterali, da osservare ogni anno, a partire dal 2025. Ha inoltre esortato gli Stati ad astenersi nuovamente dall’adottare, promulgare e applicare qualsiasi misura unilaterale economica, finanziaria o commerciale non conforme al diritto internazionale e alla Carta delle Nazioni Unite.

Introducendo la bozza di risoluzione, il rappresentante dell’Eritrea, parlando a nome del Gruppo di Amici in Difesa della Carta delle Nazioni Unite, ha affermato che tali misure – comunemente ammantate dal linguaggio fuorviante delle sanzioni – non sono strumenti di giustizia, ma “strumenti di costrizione politica ed economica”. Sono sempre più promulgati e applicati contro gli Stati del suo gruppo, ha osservato, aggiungendo che “puniscono milioni di persone in tutto il mondo, bloccando l’accesso al cibo, ai medicinali, alla tecnologia e allo sviluppo”.

I loro effetti extraterritoriali si estendono ancora di più, destabilizzando le catene di approvvigionamento globali e minacciando la cooperazione internazionale. Mentre alcuni potrebbero cercare di forzare un voto e liquidare questa risoluzione come simbolica, ha detto: “Siamo chiari: i simboli contano. Sono espressioni di coscienza collettiva, simpatia e comprensione” ed ha aggiunto che il suo paese è stato vittima di un mucchio di sanzioni ingiuste, i cui secondi fini politici sono troppo evidenti per meritare una spiegazione.

La Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe (SADC) osserva già il 24 ottobre come giornata anti-sanzioni, ha detto il delegato dello Zimbabwe, parlando a nome della Comunità, descrivendolo come un’espressione collettiva di solidarietà regionale.

La regione “non è estranea a questa ingiustizia”: per oltre due decenni, il suo paese ha subito un regime di sanzioni imposto unilateralmente, che ha “limitato l’accesso ai finanziamenti agevolati, interrotto il commercio e gli investimenti, ostacolato l’innovazione e rallentato lo sviluppo delle infrastrutture”, ha detto il delegato eritreo.

Tuttavia, il rappresentante dell’Unione Europea, parlando in qualità di osservatore, ha affermato che le sanzioni sono tra gli strumenti pacifici a disposizione del Consiglio di sicurezza per garantire il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. “Le terribili conseguenze di non agire per sostenere la Carta delle Nazioni Unite in situazioni così gravi dovrebbero essere una parte centrale delle discussioni”, ha detto.

Le gravi violazioni e gli abusi, tra cui l’uccisione di difensori dei diritti umani, nonché la proliferazione nucleare, sono priorità fondamentali sia per le Nazioni Unite che per l’Unione europea. “Questo non dovrebbe essere spazzato sotto il tappeto da una retorica semplicistica e divisiva delle misure coercitive unilaterali”, ha detto. Le misure del blocco sono adattate per colpire attori specifici, non per avere un impatto sull’accesso a cibo, medicinali o aiuti umanitari.

Sulla stessa linea, il rappresentante degli Stati Uniti ha affermato che le sanzioni autonome sono uno strumento efficace per rispondere alle “attività maligne” e “per affrontare le attività più aberranti e destabilizzanti del nostro tempo”, come il terrorismo, la proliferazione delle armi di distruzione di massa e il crimine organizzato transnazionale. Respingendo le accuse secondo cui le sanzioni del suo paese aggravano la sofferenza umana o minano lo sviluppo, ha affermato che sono necessarie azioni concrete per evitare qualsiasi impatto umanitario.

Diversi paesi, molti dei quali bersaglio di misure coercitive unilaterali, hanno messo in discussione questa narrazione. Elio Eduardo Rodríguez Perdomo, Vice Ministro degli Affari Esteri di Cuba, ha detto che l’embargo economico degli Stati Uniti contro Cuba è “una guerra assoluta, incrollabile, spietata”, imposta senza pietà per causare fame e penuria tra il popolo cubano. “L’obiettivo è spezzare la volontà politica del nostro paese” per “tagliare chiaramente il legame economico di Cuba con il resto del mondo”, ha detto.

Esprimendo solidarietà a Cuba e al suo popolo, Yván Gil Pinto, Ministro del Potere Popolare per gli Affari Esteri del Venezuela, ha affermato che le misure coercitive unilaterali violano i diritti sovrani e inalienabili degli Stati di scegliere il loro sistema economico senza coercizione.

Le eccezioni umanitarie a queste misure sono una “fantasia”, ha detto, chiedendo la creazione di uno “spazio sicuro” libero da tali misure. Ha anche indicato una nuova generazione di queste misure illegali. “Le cosiddette tariffe” che vengono imposte oggi perseguono obiettivi simili alle misure coercitive unilaterali che il governo degli Stati Uniti ha abbracciato per decenni, ha concluso.

Il rappresentante della Repubblica Popolare Democratica di Corea ha affermato che tali misure non sono solo “terrorismo economico”, ma anche una violazione di massa dei diritti umani poiché minano la sovranità e il diritto dei paesi in via di sviluppo di realizzare l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

Il delegato della Federazione Russa ha evidenziato le sanzioni imposte dall’Occidente al settore agricolo del suo Paese. Negli ultimi anni, i paesi occidentali hanno “superato se stessi”, essenzialmente razziando e sequestrando i beni della banca centrale della Federazione Russa, ha detto. Vogliono anche “privare” gli Stati del Sud del mondo della capacità di perseguire una politica interna ed estera indipendente, ha detto.

Diversi relatori del Sud del mondo hanno sottolineato l’impatto delle misure coercitive unilaterali sul loro sviluppo e sulla loro sopravvivenza. Il rappresentante dell’Iraq, parlando a nome del Gruppo dei 77 e della Cina, ha osservato come limitino l’accesso a cibo, medicinali, vaccini e attrezzature mediche, come è stato evidente durante la pandemia di COVID-19.

Il rappresentante del Gabon, parlando a nome del Gruppo africano, ha affermato che, in un momento in cui l’Africa sta emergendo come hub per lo sviluppo e i progressi tecnologici, queste misure limitano l’accesso a strumenti, partenariati e finanziamenti. Hanno inoltre ostacolato lo sviluppo, la ricostruzione e la costruzione della pace dopo il conflitto; dovrebbero essere rivisti nel contesto della pace e della giustizia, così come delle riparazioni per l’Africa.

Il delegato dell’Uganda, parlando a nome del Movimento dei Paesi Non Allineati, ha osservato che tali misure ed embarghi hanno persino portato all’incapacità degli Stati di soddisfare in modo tempestivo i loro contributi alle Nazioni Unite.

Altri oratori hanno sottolineato come le misure coercitive unilaterali rompono il multilateralismo stesso. Il delegato della Malesia, parlando a nome dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), ha affermato che l’imposizione di tali misure viene spesso fatta senza consultare il processo multilaterale: si tratta di un “approccio escludente”, che isola intere popolazioni dall’economia globale.

Il suo omologo cinese ha affermato che le misure “pongono le leggi nazionali di un paese al di sopra del diritto internazionale e delle leggi di altri paesi”. Le sanzioni imposte intenzionalmente senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza ignorano anche l’autorità del meccanismo decisionale collettivo di quell’organismo, ha sottolineato, aggiungendo che “sostituiscono il dialogo e la consultazione con la coercizione e la politica di potere”.

Dopo il voto, diversi delegati che hanno votato contro la risoluzione hanno spiegato perché non erano d’accordo con tale valutazione. Il portavoce del Canada ha affermato che il testo travisa la natura delle sanzioni autonome. Sono uno strumento legittimo di politica estera e non sono diretti contro i civili. Il suo paese li attua con giudizio e trasparenza, ha detto. Ha anche sottolineato i doppi standard che sono alla base di questa iniziativa, osservando che diversi paesi che sostengono questo testo impongono le proprie sanzioni autonome.

“Le nostre sanzioni si applicano solo alle persone del Regno Unito e alle interazioni con l’economia del Regno Unito”, ha detto il rappresentante di Londra. Esse hanno finalità chiaramente definite e l’elenco delle sanzioni è pubblico, con i motivi indicati per tale designazione. Inoltre, “questa risoluzione è stata deliberatamente elaborata per essere divisiva”, ha aggiunto.

Il delegato del Giappone ha anche detto che il testo ha lo scopo di incitare alla divisione, che è contrario allo spirito di una Giornata Internazionale. Inoltre, contraddice la decisione dell’Assemblea di considerare questo punto all’ordine del giorno ogni due anni, ha detto.

La risoluzione richiede ulteriori riunioni plenarie annuali per commemorare la Giornata internazionale, ma è ovviamente destinata a “neutralizzare ciò che l’Assemblea Generale ha già concordato”, ha detto. In aggiunta a ciò, il delegato australiano ha espresso preoccupazione per la proliferazione delle Giornate Internazionali.

Fonte

Gli Stati Uniti sono pronti ad attaccare l'Iran

Ad una settimana dall’inizio dell’aggressione militare israeliana all’Iran continuano gli scambi di colpi tra i due paesi.

Questa mattina presto diversi missili hanno colpito alcune località dello “stato ebraico”, causando danni e feriti a Ramat Gan e Tel Aviv. Uno di questi ha centrato l’ospedale di Soroka, nella regione di Beer Sheva, causando ingenti danni e un incendio. Secondo il portavoce dell’esercito iraniano Iman Tajik i droni e i proiettili di Teheran avrebbero in realtà preso di mira un centro di comando dell’intelligence situato sotto il nosocomio, circostanza però smentita dalle autorità israeliane.

Un’altra ondata di missili balistici è stata di nuovo lanciata da Teheran a metà pomeriggio.

In totale, secondo il ministero della Salute israeliano, gli attacchi iraniani hanno causato 271 feriti, di cui 4 gravi.

Anche i caccia, i missili e i droni israeliani hanno ripreso a martellare le infrastrutture iraniane. Tra queste, conferma l’AIEA (l’Agenzia internazionale per l’Energia Atomica), è stato bombardato anche il reattore di ricerca ad acqua pesante di Arak. Secondo l’Aiea il reattore era in via di realizzazione e non conteneva quindi combustibile nucleare.

Le forze armate israeliane hanno rivendicato di aver distrutto ormai quasi la metà delle rampe e dei lanciatori di missili balistici iraniani, riducendo in maniera significativa la possibilità da parte di Teheran di rispondere all’aggressione di Tel Aviv.

Alcuni membri del Comitato per la sicurezza nazionale del Parlamento di Teheran hanno però minacciato di chiudere lo stretto di Hormuz alla navigazione in risposta all’attacco in corso da parte di Israele, infliggendo un duro colpo al commercio internazionale di idrocarburi. «Se gli Stati Uniti entrassero ufficialmente e operativamente in guerra a sostegno dei sionisti, l’Iran avrebbe il legittimo diritto di esercitare pressione sugli Stati Uniti e sui paesi occidentali per ostacolare il transito del loro commercio di petrolio», ha affermato un parlamentare citato dalle agenzie di stampa di Teheran.

E mentre Cina e Russia tornano a chiedere “con forza” la fine delle ostilità – senza però mettere in campo alcuna iniziativa concreta in una regione dove nel giro di pochi mesi Israele ha prima inflitto un duro colpo a Hezbollah e poi ha occupato una vasta porzione della Siria dopo aver contribuito alla caduta di Bashar al Assad – è proprio sulla strategia statunitense che si concentra l’attenzione.

Negli ultimi giorni Donald Trump ha lasciato intendere che Washington sarebbe in procinto di sostenere Israele nello sforzo bellico contro l’Iran. Oggi l’ambasciatore israeliano in Francia, Joshua Zarka, ha dichiarato all’emittente francese Bfmtv che gli «americani sono pronti ad attaccare immediatamente» l’Iran.

Sempre oggi, però, il presidente degli Stati Uniti ha negato di aver approvato i piani di attacco contro l’Iran, come riferito ieri dal “Wall Street Journal”. Sul suo social, Truth, Trump ha scritto che «Il WSJ non ha alcuna idea di quali siano i miei pensieri riguardo all’Iran».

Secondo il quotidiano statunitense, che cita tre fonti a conoscenza del dossier, nella serata di martedì 17 giugno Trump avrebbe informato i suoi principali consiglieri di aver approvato i piani di attacco in Iran, ma di voler aspettare a dare il via libera per vedere se prima Teheran s’impegnerà ad abbandonare il programma nucleare (che sia secondo l’AIEA sia secondo l’intelligence di Washington era ancora molto lontano dal raggiungimento della capacità di realizzare ordigni atomici).

Non è un segreto che Trump starebbe seriamente valutando l’ipotesi di impegnare la propria aeronautica militare e la propria marina da guerra negli attacchi contro l’Iran, utilizzando in particolare le “bunker busters”, ordigni in grado di distruggere gli impianti di arricchimento dell’uranio sotterranei iraniani. In particolare Israele punta a eliminare il sito di Fordow, già colpito e parzialmente danneggiato, ma non possiede le “distruttrici di bunker” da 12 tonnellate adatte allo scopo.

Secondo gli stessi media statunitensi, Trump avrebbe già ordinato a tre portaerei – tra cui la “Nimitz”, finora dispiegata nel Mar Cinese Meridionale – e a una trentina di aerei cisterna di avvicinarsi all’Iran e avrebbe chiesto alla Gran Bretagna l’utilizzo di una base aerea.

Dopo che martedì Trump ha chiesto sui social media la “resa incondizionata” dell’Iran, la guida suprema del paese, Alì Khamenei, ha promesso in un discorso televisivo che qualsiasi intervento militare statunitense in Iran avrebbe provocato “danni irreparabili”.

Trump, che aveva più volte promesso di non coinvolgere gli Stati Uniti in nuove guerre, vuole evitare di rimanere invischiato in un nuovo conflitto dagli esiti incerti. All’interno dell’amministrazione statunitense si fa però strada l’idea di un intervento contro l’Iran di tipo limitato, a supporto delle operazioni militari israeliane.

«Mi piace decidere all’ultimo secondo. Con la guerra, tutto può cambiare da un momento all’altro» ha detto ieri il tycoon, che deve fare i conti con le diverse opinioni dei suoi consiglieri, alcuni dei quali sono decisamente contrari ad un coinvolgimento di Washington nell’ennesima guerra scatenata da Israele.

Netanyahu e il suo governo però stanno operando forti pressioni affinché Washington intervenga a fianco dell’Idf, in maniera da massimizzare i risultati dell’aggressione all’Iran.

Se l’obiettivo di Tel Aviv rimane formalmente la distruzione degli impianti nucleari iraniani e dei lanciamissili per impedire a Teheran di costituire una minaccia per lo “stato ebraico”, Netanyahu vuole portare a casa un risultato perseguito da Israele da quarant’anni: la distruzione delle infrastrutture militari, civili ed energetiche della Persia ed eventualmente un crollo del regime teocratico, da sostituire con un governo assai più sensibile agli interessi israeliani. In questo modo Tel Aviv non si sbarazzerebbe soltanto dell’unico avversario di rilievo nella regione, ma otterrebbe la disarticolazione del cosiddetto “asse della resistenza”, guidato proprio da Teheran.

I martellanti attacchi israeliani contro le città iraniane – che hanno causato finora diverse centinaia di morti e migliaia di feriti – stanno già infliggendo un duro colpo all’Iran. Ma Netanyahu chiede a Washington di intervenire per abbreviare i tempi e massimizzare i risultati, evitando così di esporre per troppo tempo la popolazione israeliana alle rappresaglie di Teheran che potrebbero presto provocare una levata di scudi dell’opinione pubblica contro il governo di estrema destra.

A Tel Aviv serve un contributo ancora più consistente delle forze statunitensi dispiegate in Medio Oriente nell’intercettazione dei droni e dei missili lanciati da Teheran contro il proprio territorio, che riescono spesso a eludere i sistemi di difesa israeliani. La dirigenza israeliana accarezza però anche l’idea che la determinante partecipazione statunitense agli attacchi potrebbe consentirgli di ottenere un risultato ancora più definitivo, cioè la disgregazione dell’Iran come stato unitario e la sua trasformazione in una mosaico di etnie e poteri locali più facilmente controllabile.

Mentre Russia e Cina rimangono in disparte, l’Iran deve affrontare – disponendo di alleati regionali fortemente indeboliti dai continui assalti israeliani degli ultimi anni – non solo Israele e gli Stati Uniti, ma anche i paesi europei che a parte qualche esortazione a “evitare l’escalation” si sono schierati compattamente a fianco di Netanyahu.

Fonte

“Noi Italia 2025”: 100 statistiche Istat per mostrare il declino italiano

È stata appena presentata la nuova edizione di “Noi Italia”, la pubblicazione dell’Istat che, dal 2008, raccoglie in maniera sintetica una serie di statistiche che aiutano a fotografare la situazione del paese. 100 indicatori statistici, divisi tra 6 aree tematiche e 19 settori, coprono ogni aspetto del paese. Non è possibile riassumerli qui tutti quanti, ma qualcuno di essi merita di essere evidenziato.

Nel 2023 la spesa media mensile delle famiglie residenti in Italia è stata pari, in valori correnti, a 2.738 euro, in aumento del 4,3% rispetto al 2022. Ma in termini reali si riduce dell’1,5% per effetto dell’inflazione. Il che significa che l’esborso è maggiore, ma quel che si acquista è meno di prima.

Non sorprende dunque il dato su povertà assoluta e relativa: nella prima categoria sono conteggiate 5,7 milioni di persone, nella seconda 8,4 milioni. Il PIL pro capite in termini reali aumenta, ma una volta misurato in PPS – lo strumento statistico pensato per calcolare il potere d’acquisto in maniera depurata dalle differenze di prezzo dei vari paesi UE, permettendo così un confronto – risulta che il valore italiano (37.508 euro) è al di sotto della media europea (38.132 euro).

Inoltre, rimangono sostanziali i divari territoriali. Nel 2022, il livello del PIL pro capite in termini reali nel Mezzogiorno era quasi la metà di quello del Centro-nord (44,5%), e comunque inferiore del 34,8% rispetto alla media nazionale. La questione meridionale risulta ancora una dei nodi fondamentali dello sviluppo italiano.

Significativi sono alcuni dati sul futuro del paese, inteso come formazione e giovani. Nel 2023 la spesa pubblica per l’istruzione era pari al 3,9% del PIL, di gran lunga minore della media europea (4,7%). Per il 2022 la spesa in Ricerca e Sviluppo (R&S) è stata calcolata sui 27,3 miliardi di euro, con un’incidenza sul PIL dell’1,37% e in aumento rispetto agli ultimi anni. Eppure, la media UE è maggiore di quasi un punto percentuale (2,21%).

“Nel 2024 – si legge nella sintesi per i media – la quota di giovani (18-24 anni) che abbandonano precocemente gli studi è pari al 9,8 per cento; nel Mezzogiorno il valore è più elevato (12,4 per cento)”. L’obiettivo postosi a livello europeo è di ridurre l’abbandono scolastico al 9% entro il 2030, e anche in questo caso l’Italia deve lavorare ancora molto.

Nel 2024 la percentuale delle persone tra i 25 e i 34 anni che vantava un titolo di studio universitario era del 31,6%. “Per l’Italia il valore è ancora molto lontano dall’obiettivo medio europeo stabilito per il 2030 dal Quadro strategico per la cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della formazione (almeno il 45 per cento nella classe di età 25-34 anni)”.

Sempre nel 2024, i cosiddetti NEET (persone che non sono in formazione e non lavorano) sono circa il 15,2% per cento della popolazione di età compresa tra i 15 e i 29 anni. Anche in questo caso, la quota nel Mezzogiorno è più del doppio di quella del Centro-nord (23,3% contro 10,7%). L’Italia risulta tra i paesi europei con la percentuale di NEET più elevata.

Sotto il punto di vista della salute, nel 2022 la spesa sanitaria pubblica italiana si è attestata a 130,3 miliardi di euro, pari al 6,7% del PIL, ovvero 2.212 euro annui per abitante. A parità di potere di acquisto, la spesa per abitante nel nostro paese è inferiore a quella di Repubblica Ceca, Finlandia, Belgio, Irlanda, Danimarca, Francia, Austria, Lussemburgo, Paesi Bassi, Svezia e Germania.

I posti letto sono appena 3 ogni mille abitanti, uno dei numeri più bassi in Europa, per di più con forti squilibri territoriali. Nel 2023 si è assistito anche a un incremento dell’emigrazione ospedaliera, dal Centro-sud al Centro-nord.

Il sunto che si può trarre da tutte queste informazioni è che l’Italia continua a galleggiare, ma come sistema-paese continua a imbarcare acqua, senza che la classe dirigente sia capace di trovare alternative.

Fonte