Mentre in Italia il giornalismo mostra tutta la sua pochezza e, soprattutto, il suo asservimento, in merito alle polemiche intorno a Francesca Albanese e alla due giorni di mobilitazioni del 28 e 29 novembre, contro la finanziaria di guerra e per la Palestina libera, anche nel resto della UE la tendenza ormai è la stessa: l’informazione deve essere piegata alle esigenze strategiche delle capitali europee, e anzi è bene ampliare la sorveglianza indiscriminata e la schedatura, che in questi tempi di crisi il dissenso fa male ai mercati.
Avevamo già visto la nascita a Bruxelles di un vero e proprio “ministero della Verità”, di orwelliano sapore. Ora rincara la dose il presidente francese Emmanuel Macron, che ricordiamo aver cambiato più governi che cravatte, probabilmente, negli ultimi mesi. Il Napoleone dei nostri tempi (ahinoi!) ha lanciato una proposta controversa, ovvero quella di istituire un “marchio di qualità” per distinguere i siti di informazione “degni di fiducia” da quelli che non lo sono.
Sebbene Macron assicuri che tale potere non sarà in mano allo Stato ma a “professionisti dell’informazione” (come Reporters sans frontières e la sua Journalism Trust Initiative), la sostanza del problema rimane. Perché, dicono le voci critiche a questa proposta, che secondo il settimanale – di centrodestra, è bene ricordarlo – Le Point sono già più di 500 organi di stampa, non c’è garanzia rispetto alla neutralità di chi certifica il “marchio di qualità”.
E sia chiaro: è giusto avere opinioni sui fatti del Mondo. Noi pubblichiamo ogni giorno un giornale che indica in maniera ben chiara la sua posizione, già nella testata. Ma imporre un meccanismo di controllo amministrativo preventivo significa screditare a priori qualsiasi contenuto, etichettandolo come disinformazione.
Non a caso, questa misura sarebbe in contrasto persino con una legge francese del 1881, che garantisce la libertà di pubblicazione salvo specifici reati giudicati, come la cultura giuridica vuole, a posteriori. Macron sta insomma proponendo una misura che sarebbe in linea coi tempi di Napoleone III, non a caso.
A Bruxelles, invece, la recente approvazione del nuovo regolamento “Chat Control”, apre le porte al pericolo di espansione indiscriminata della sorveglianza preventiva, di violazione sistematica della privacy, di schedatura di massa. E infine, come è sempre più evidente in ogni atto della UE, di minare la libertà di espressione.
Quello a cui il Consiglio Europeo ha dato il via libera si presenta come uno strumento per una lotta nobile: si tratta del Regolamento per prevenire e combattere l’abuso sessuale dei minori, altrimenti detto CSAR. In realtà, si tratta del tentativo di definire un’infrastruttura permanente di verifica e scansione dei messaggi che gli utenti delle varie piattaforme digitali possono scambiarsi.
Il meccanismo tecnico si fonda sul client-side scanning, che permette l’analisi dei contenuti sul dispositivo dell’utente prima che questi vengano crittografati. La versione che dovrà essere votata in Parlamento Europeo nelle prossime settimane sembra edulcorata rispetto a quella iniziale. Infatti, non sarà più un funzionario pubblico a verificare i materiali, ma sarà alle piattaforme titolari dei diritti sulle chat che sarà affidato il controllo di ultima istanza.
Nei fatti, significa delegare i colossi digitali, il privato, alla verifica di ciò che inviamo o ci viene inviato, offrendo loro una leva ulteriore di potere, essendo legata a possibili incriminazioni. Inoltre, lo stesso European Data Protection Supervisor, l’autorità indipendente di sorveglianza per la UE, e diverse associazioni per i diritti digitali hanno sottolineato che le scansioni automatiche di messaggi privati sono una violazione della privacy garantita dall’articolo 7 della Carta dei Diritti Fondamentali UE.
Insomma, quella stessa architettura che viene millantata come garante della pace e dei diritti sta venendo picconata, giorno dopo giorno, per costruire una UE che sia adatta alla guerra, esterna e interna, che Bruxelles vuole condurre per riuscire a contare qualcosa nella competizione internazionale.
Fonte
Presentazione
Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Da ciascuno secondo le proprie possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni
03/12/2025
12 ottobre 1492, le radici dell’Occidente: pulizia etnica, segregazione, genocidio
Contributo collettivo scritto a più mani, verso il dibattito che si terrà a Roma giovedì 4 dicembre su “Le radici dell’Occidente: colonialismo e genocidio”. Qui maggiori info.
*****
Negli ultimi due anni, grazie alla mobilitazione in solidarietà con il popolo palestinese, hanno ripreso a circolare nello spazio pubblico terminologie (colonialismo di insediamento, genocidio, apartheid, capitalismo razziale) e tesi (le radici coloniali della modernità capitalistica, la tendenza genocida dello Stato-Nazione, la decolonizzazione delle pratiche e dei saperi, ecc.) che sembravano sopite o, al massimo, chiuse negli armadietti ammuffiti dell’accademia e del suo “anticolonialismo da tavolino”.
Oggi più che mai è fondamentale invece dare una dimensione pratica e attiva alla possibilità di imporre una narrazione che aggredisca le radici coloniali e razziali sulle quali si basa la nostra architettura sociale, in primis il suo mercato del lavoro.
In sintesi, si tratta di dare una dimensione pratica e politica alla consapevolezza di quello che Anibal Quijano avrebbe chiamato “la colonialità del potere capitalistico globale”.
Abbiamo deciso di dare inizio a un percorso di confronto e attivazione che rifletta sulle radici coloniali e genocide dell’Occidente, l’intreccio costitutivo tra capitalismo, colonialismo e razzismo. Un intreccio che interroga non solo le nostre coscienze, ma anche e costantemente le nostre categorie a partire dal rapporto tra razza e classe.
Ripercorrere l’uso delle azioni e delle narrazioni coloniali significa comprendere la loro capacità di riflettere dei rapporti materiali e, allo stesso tempo, come detto dal critico letterario indiano Homi Bhabha, di “costituire un apparato discorsivo in grado di produrre uno spazio materiale adatto alle popolazioni soggette”.
Significa essere in grado di interrogare non solo le somiglianze con la regolamentazione tra le classi in Europa o con le modalità di costruzione dell’immaginario sul nostro “mezzogiorno” funzionale allo sviluppo del nord produttivo, ma soprattutto con l’uso del confine come dispositivo di differenziazione gerarchizzata della manodopera straniera messa in luce da una ormai enorme massa di studi che trovano la loro anticipazione nella famosa espressione di Sartre “colonizzazione a domicilio”.
Sia chiaro che tutto questo non è pensato né come un white-washing, né come la versione intellettual-radicale del cristiano procedere per l’espiazione di un senso di colpa: porci come coscienza anticoloniale significa mettersi in dialettica con pratiche e discorsi provenienti da diverse tradizioni rivoluzionarie per costruire nuovi spazi del conflitto di classe.
In un dibattito di questa estate, un compagno del Movimento per il diritto all’abitare auspicava la costruzione di un nuovo Lenin, di un Lenin che avesse letto Fanon, facendo un esplicito riferimento alla necessità posta dallo psichiatra martinicano di ampliare le stesse analisi marxiste nella situazione coloniale dove la razza è struttura e non sovrastruttura. È questo tipo di Lenin collettivo che bisogna articolare, non mettersi a piangere sul nostro privilegiato ombelico.
Il punto di partenza che ci siamo dati è il simbolico 1492, la conquista delle Americhe e l’inizio del colonialismo da predazione come volano dell’accumulazione capitalistica europea: nel sud l’oro e il circuito europeo; l’aristocrazia parassitaria spagnola, i corsari inglesi, la tratta degli schiavi e lo sfruttamento della manodopera. Al nord invece la battaglia per le pelli pregiate e l’occupazione delle terre nelle tre modalità del New England, della Virginia e della Carolina, fino alla rottura con la corona inglese e l’espansione verso l’ovest: una battaglia di indipendenza che divenne una nuova forma di colonialismo.
Dalla diffusione del vaiolo, il genocidio si intensificò agli inizi dell’Ottocento: Andrew Jackson passa alla storia come grande uccisore di nativi, costretti nel 1812 a cedere il 66% delle loro terre. Pochi anni dopo, il ministro della guerra di Monroe ordina la deportazione oltre il Mississippi, e, nel 1830, l’Indian Removal Act li rinchiudeva in un pezzo di terra che oggi è parte dell’Oklahoma, dove furono costretti a stanziarsi anche i famosi Cherokee quando si diffuse la notizia della presenza di oro nei loro territori della Carolina e della Georgia.
È in questo punto specifico dello spazio e del tempo che bisogna guardare per comprendere lo stretto legame tra subumanizzazione o deumanizzazione dell’altro, gerarchizzazione razziale della manodopera e governo della sua eccedenza, e sfruttamento delle risorse. Sono questi i pilastri delle tre fasi dell’espansione coloniale interna americana: la pulizia etnica e la deportazione dall’est; il genocidio sul Pacifico; la segregazione nelle aree centrali.
Quando Cristoforo Colombo mise piede nel continente, ai Caraibi vivevano un milione di indigeni, ridotti a circa mille appena trent’anni dopo: la storia ci racconta di mani e piedi tagliati, donne violentate e un numero di morti che si stima complessivamente intorno ai 50-60 milioni.
Nel nord, dove francesi e inglesi si contendevano il dominio, la popolazione nativa si ridusse a 400mila nel 1900, dei 600mila del 1800 e dei circa 10-12 milioni di qualche secolo prima: le pessime condizioni di vita ridussero le nascite, l’espansione degli europei favorì la diffusione di malattie mortali per gli indios: il vaiolo, il tifo esantematico.
Da ultimo, la violenza culturicida europea con la sua opera di “evangelizzazione dei selvaggi”, proibiva un intero mondo simbolico fatto di saperi terapeutici, divinità locali, rituali, forme di socialità (spesso scevre dalla presenza del denaro e di poteri centralizzati): molte persone, per non sottomettersi, preferirono il suicidio.
Le missioni evangelizzatrici – e secoli dopo la medicina e la psichiatra – favorirono quella razionalizzazione dei corpi allo scopo dello sfruttamento, riflesso della patriarcale opera di normalizzazione dei corpi femminili che l’inquisizione produsse al centro del continente europeo.
Fu la colonia a essere laboratorio per le pratiche genocidiarie: “campo di concentramento” è una espressione usata dagli spagnoli a Cuba nel 1896, poi dagli inglesi nella guerra contro i Boeri in Sudafrica, dai franchisti in Spagna e solo successivamente adottata dal nazismo. Aimè Cesaire (professore di Fanon a liceo) ebbe a dire che quest’ultimo altro non era che il ritorno a casa di tollerati “metodi coloniali finora riservati agli arabi di Algeria, ai coolies dell’India e ai negri d’Africa”.
La vera invenzione coloniale tuttavia sta nella trasformazione di qualche differenza in “razza” e della ideologizzazione della propria violenza nella forma della “missione civilizzatrice”. Miguel Mellino, uno dei maggiori studiosi di questioni coloniali e postcoloniali, afferma che la genealogia più plausibile del concetto di razza (e la comparsa del termine nelle lingue europee) lo vede emergere alla metà XVI secolo, cioè esattamente all’alba del modo di produzione capitalistico nella sua espansione globale e dopo la conquista delle Americhe.
Sono i nativi americani dunque a essere qualificati come “razza” per la prima volta. Poi fu usato per la conquista inglese dell’Irlanda, a farci subito comprendere che il razzismo è sempre stato sganciato dal biologicismo, se non come sua invenzione o, più elegantemente costruzione sociale.
Un’idea che ha più di qualche punto di connessione con la omogeneità etnica come ossessione costitutiva dell’altro fondamentale dispositivo di produzione di territori e popolazioni moderno, che è lo Stato-nazione, un lascito dalle conseguenze tragiche fuori dall’Europa.
Ogni momento coloniale ha avuto la sua grande narrazione che ha costruito “il selvaggio” da sconfiggere: da un errore di traduzione, e la diffusione di narrazioni esagerate, si diffuse l’idea del cannibalismo sudamericano come produzione simbolica di una “umanità disumana” che clero e impero dichiararono poter essere trattata con la forza delle armi (nello stesso periodo, i protomedici europei consigliavano il consumo di pezzi umani come rimedio contro diverse patologie).
Un famoso testo di William Arens, del 1974, dimostra che la narrazione del cannibalismo era “indipendente dalle prove”: nella sua esplorazione dei documenti, l’autore non era riuscito a trovare un resoconto soddisfacente di prima mano. Ciò non impedì di diffondere un tema narrativo che giustificava il dominio, l’oppressione sistematica e l’uccisione di massa degli indigeni.
Ugualmente, gli spagnoli diffusero una narrazione di “sacrifici umani” ad opera di alcuni gruppi della attuale America centrale e meridionale: a prescindere dalla loro esistenza nel passato, le cronache mostrano che nessuno spagnolo ne vide una. Ma ciò non evitò uno sterminio con dimensioni massive, nella paradossale volontà di evitare i presunti sacrifici umani.
E arriviamo così ai nostri giorni, ridando centralità alle parole dell’intellettuale palestinese Edward Said, per cui valeva un rapido sillogismo senza fronzoli: non vi è cultura moderna senza l’imperialismo, non vi è imperialismo senza la cultura moderna.
La modernità, dunque, non sarebbe “macchiata” da eccezioni di violenza da condannare, ma apparirebbe costitutivamente basata sulla violenza coloniale in grado di articolare diversi modi di oppressione e sfruttamento.
Da questo punto di vista, le affermazioni di Marx riferite alle violenze coloniali su una pubblica opinione europea che aveva perso ogni coscienza morale e pudore quando “le nazioni cominciarono a vantarsi cinicamente di ogni infamia che fosse un mezzo per accumulare capitale”, vanno lette in dialettica con una produzione culturale che mette sé stessi all’apice di una immaginaria catena evolutiva e assurge il soggetto europeo a unico possibile e universale.
In questo senso, le denunce sui profitti della Leonardo o degli interessi dell’ENI nel gas palestinese non possono essere disgiunte dalla costruzione del selvaggio, reo di farsi rappresentare dai “barbari di Hamas”, incastrati in una narrazione artificiale del 7 ottobre 2023 fatta di bambini decapitati e donne stuprate apparsa sui principali giornali e mai dimostrata (al pari del cannibalismo e dei sacrifici umani dei Maya).
Quegli stessi giornali che, anche a distanza di due anni, e alle prese con una narrazione non più sostenibile, non riescono ad uscire da quello schema per cui i palestinesi hanno diritto ad esistere ma a patto che siano “pacifici” (meglio se “pure vittime”), che non si facciano rappresentare da Hamas, e che si volgano allo sfruttamento delle loro terre e delle loro risorse accettando in cambio, al massimo, la mano sinistra dell’impero con i suoi dispositivi umanitari.
Per questo motivo l’apartheid e il colonialismo israeliano appaiono come una sorta di opera riassuntiva di tutto questo che si inserisce nell’apparato neoliberista. Per quest’ultimo va inteso quel movimento storico che risponde alla crisi sistemica del capitale con la produzione di nuove forme di sfruttamento ed estrazione di valore, con l’utilizzo dello Stato come macchina principale per l’accumulazione privata e per la restaurazione di un potere di classe e per l’imposizione di gerarchizzazione sociali e logiche aziendalistiche in ogni settore della società, nonché per l’affermazione di autoritarismi e securitarismi in parte iscritti nella storia del capitale, in parte parzialmente inediti.
È per questo che la struttura dell’apartheid coloniale israeliano è riprodotto, o riproducibile, a livello globale. Per contrastare questo fenomeno, ne vanno comprese le diverse radici materiali, ideologiche e psico-culturali.
La prima occasione sarà per giovedì 4 dicembre, ore 18:30 al Circolo GAP di Roma.
Fonte
02/12/2025
Enigma venezuelano per Trump
Passano i mesi e l’attacco statunitense al Venezuela bolivariano non avviene. Una flotta potente e 15.000 militari sono stanziati al largo delle coste, ma fin qui hanno bombardato soltanto piccole barche a bordo delle quali non si sa bene chi ci fosse. L’amministrazione Trump garantisce che si trattava di “narcotrafficanti”, ma non ha prodotto neanche uno straccio di prova. Si vede che non c’erano...
Tutti gli organismi internazionali – neutrali – che si occupano istituzionalmente di narcotraffico garantiscono che il Venezuela, tra i paesi latino-americani, è quello che meglio collabora nella lotta. Al contrario, l’ex “presidente autoproclamato e riconosciuto dall’Occidente” – Juan Guaidò, ricordate? – è sparito dalla circolazione ancor prima di esser stato beccato in compagnia di narcotrafficanti colombiani.
Non è un mistero che là dove gli Stati Uniti riescono ad imporsi la produzione e il traffico di stupefacenti esplodono. È accaduto in Afghanistan, dove sotto occupazione la produzione dell’oppio era cresciuta del 95%. Avviene quotidianamente nei paesi latino-americani sotto il pieno controllo di Washington. È notizia di ieri, riportata da Axios, che l’ex presidente dell’Honduras, Juan Orlando Hernandez, estradato e incarcerato negli Usa, sta per essere graziato proprio da Donald Trump. Curioso modo di combattere il narcotraffico, non trovate?
Ma torniamo al Venezuela sotto attacco.
I problemi per l’amministrazione Usa si vanno moltiplicando. La CNN spiega che l’iniziativa “rischia di degenerare in un pantano strategico, politico e legale”. Per un’errata valutazione della situazione interna al paese e sulla tenuta delle istituzioni bolivariane.
In pratica, l’opzione principale era stata quella di “esercitare pressione militare” – la flotta al largo, con tanto di portaerei Ford – al punto da facilitare una mezza insurrezione dell’“opposizione” (retoricamente guidata dal più paradossale dei premi Nobel per la pace, Corina Machado). Oppure per “persuadere” una parte dei vertici dell’esercito a non rischiare e quindi a convincere lo stesso Maduro a farsi da parte “con le buone”.
La scelta di questa strategia era del resto avvenuta prendendo atto della impraticabilità dell’invasione di terra, sia per ragioni militari che politiche (l’opinione pubblica statunitense è contraria ad un’altra guerra, con una maggioranza impressionante). Si contava insomma sul potere “deterrente” di una minaccia tipicamente trumpiana – come sui dazi o l’annessione di Canada e Groenlandia – per ottenere un atto di sottomissione tutto sommato pacifico.
Anche la CNN ha dovuto però spiegare ai suoi lettori – compresi i “Maga” e lo stesso Trump – che Maduro e tutto il vertice del Psuv si sono mostrati molto più resilienti (come si dice ora) del previsto. Anzi, “il presidente Nicolás Maduro ha ballato sfidante davanti a un’enorme folla di sostenitori a Caracas in un raduno all’aperto in stile Trump, sfatando le voci precedenti secondo cui avrebbe ceduto alle richieste statunitensi di lasciare il paese. ‘Noi non vogliamo la pace degli schiavi, né vogliamo la pace delle colonie’”.
La resistenza bolivariana ha costretto quindi Trump a convocare d’urgenza “i massimi funzionari e collaboratori della sicurezza nazionale in una riunione nello Studio Ovale lunedì sera, cercando di definire i prossimi passi in uno scontro che ora gli sfugge di mano”.
“Che fare?”, insomma. Di certo può bombardare impianti e infrastrutture, puntando a provocare un crollo dell’economia venezuelana che lo scorso anno è cresciuta più dell’8% ed ha raggiunto l’autosufficienza alimentare (al contrario di quanto avveniva al tempo dei dittatori fedeli a Washington). Ma questo non garantirebbe poi un presa di controllo del Paese, in modo da poterne sfruttare senza problemi le enormi riserve petrolifere.
Anche una “marcia indietro” – un classico per Trump – è in questo caso difficile. Dopo aver “mostrato il bastone” e aver provocato già un discreto numero di morti sarebbe la dimostrazione che l’impero Usa ormai non è più in grado di “far rispettare la propria volontà”, neanche nel “cortile di casa”.
Ai problemi di strategia si vanno sommando quelli creati dall’incompetenza del “ministro della guerra”, Pete Hegseth, ex conduttore televisivo di Fox News fin qui fattosi notare soprattutto per i modi bruschi (anche nei confronti dei suoi generali) e il rifiuto di alcune salvaguardie etiche e legali dell’esercito.
Proprio il bombardamento di una barca al largo del Venezuela è in questi giorni al centro della “polemica politica” a Washington. Si tratta di un “doppio attacco” – prima una bomba sulla barca, poi il mitragliamento di due sopravvissuti, in acqua – guidato personalmente dall’esaltato ex conduttore, che in un audio registrato lo si sente ordinare: “ammazzateli tutti”.
Per la Convenzione di Ginevra e tutta la legislazione internazionale questo è un “crimine di guerra”, ovvero un’azione ingiustificabile col risibile argomento secondo cui due uomini in acqua, in pieno oceano Atlantico, “rappresentavano un pericolo per l’America”.
Anche parecchi repubblicani si sono mostrati “colpiti ed indignati” – è retorica ipocrita, certo, ma del resto se ti vuoi presentare come “il migliore” anche sul piano etico devi stare più attento a quel che fai – e si sono anche fatte ipotesi di impeachment mirato per Hegseth.
A quel punto l’ammiraglio Frank M. “Mitch” Bradley, comandante del Comando per le Operazioni Speciali, si è preso la responsabilità di aver dato quell’ordine. Subito dopo Hegseth lo ha difeso pubblicamente: “Chiariamo una cosa: l’Ammiraglio Bradley è un eroe americano, un vero professionista, e ha il mio 100% di supporto. Sto con lui e le decisioni di combattimento che ha preso – nella missione del 2 settembre e in tutte le altre da allora”.
Traduciamo. L’ammiraglio ha accettato di prendersi la responsabilità per un crimine di guerra, ma ha preteso la copertura politica. I vertici militari, insomma, non sono disponibili a subire gratis lo scaricabarile di politici incapaci, pronti ad attribuire ad altri le proprie colpe (suona familiare, vero?).
Come si vede, il “nodo Venezuela” si è complicato parecchio per l’amministrazione Trump. Che ora si trova a sua volta in una situazione senza una comoda via d’uscita.
Ogni tipo di opzione infatti presenta costi politici elevati. Impegnarsi in una lunga “operazione militare speciale” è altamente impopolare, anche perché difficilmente potrebbero essere evitare perdite tra i soldati Usa. Un attacco pesante a infrastrutture ed altri obiettivi strategici non darebbe comunque garanzie per un “cambio di regime” a Caracas, ma complicherebbe parecchio i rapporti con la Russia (con cui invece Trump ha bisogno di arrivare ad un accordo di pace per l’Ucraina) e con la Cina (già preoccupata per le manovre sul Canale di Panama, le pressioni per Taiwan, ecc.).
Ma anche lasciar perdere sarebbe una sconfitta, tanto più umiliante quanto più si è “agitato il bastone”.
È sempre la situazione peggiore in cui ci si possa trovare. Quella in cui “bisogna fare qualcosa”, ma ogni scelta è sbagliata o controproducente.
È la situazione in cui l’azzardo supera il calcolo. La più densa di rischi, per tutti...
Fonte
Tutti gli organismi internazionali – neutrali – che si occupano istituzionalmente di narcotraffico garantiscono che il Venezuela, tra i paesi latino-americani, è quello che meglio collabora nella lotta. Al contrario, l’ex “presidente autoproclamato e riconosciuto dall’Occidente” – Juan Guaidò, ricordate? – è sparito dalla circolazione ancor prima di esser stato beccato in compagnia di narcotrafficanti colombiani.
Non è un mistero che là dove gli Stati Uniti riescono ad imporsi la produzione e il traffico di stupefacenti esplodono. È accaduto in Afghanistan, dove sotto occupazione la produzione dell’oppio era cresciuta del 95%. Avviene quotidianamente nei paesi latino-americani sotto il pieno controllo di Washington. È notizia di ieri, riportata da Axios, che l’ex presidente dell’Honduras, Juan Orlando Hernandez, estradato e incarcerato negli Usa, sta per essere graziato proprio da Donald Trump. Curioso modo di combattere il narcotraffico, non trovate?
Ma torniamo al Venezuela sotto attacco.
I problemi per l’amministrazione Usa si vanno moltiplicando. La CNN spiega che l’iniziativa “rischia di degenerare in un pantano strategico, politico e legale”. Per un’errata valutazione della situazione interna al paese e sulla tenuta delle istituzioni bolivariane.
In pratica, l’opzione principale era stata quella di “esercitare pressione militare” – la flotta al largo, con tanto di portaerei Ford – al punto da facilitare una mezza insurrezione dell’“opposizione” (retoricamente guidata dal più paradossale dei premi Nobel per la pace, Corina Machado). Oppure per “persuadere” una parte dei vertici dell’esercito a non rischiare e quindi a convincere lo stesso Maduro a farsi da parte “con le buone”.
La scelta di questa strategia era del resto avvenuta prendendo atto della impraticabilità dell’invasione di terra, sia per ragioni militari che politiche (l’opinione pubblica statunitense è contraria ad un’altra guerra, con una maggioranza impressionante). Si contava insomma sul potere “deterrente” di una minaccia tipicamente trumpiana – come sui dazi o l’annessione di Canada e Groenlandia – per ottenere un atto di sottomissione tutto sommato pacifico.
Anche la CNN ha dovuto però spiegare ai suoi lettori – compresi i “Maga” e lo stesso Trump – che Maduro e tutto il vertice del Psuv si sono mostrati molto più resilienti (come si dice ora) del previsto. Anzi, “il presidente Nicolás Maduro ha ballato sfidante davanti a un’enorme folla di sostenitori a Caracas in un raduno all’aperto in stile Trump, sfatando le voci precedenti secondo cui avrebbe ceduto alle richieste statunitensi di lasciare il paese. ‘Noi non vogliamo la pace degli schiavi, né vogliamo la pace delle colonie’”.
La resistenza bolivariana ha costretto quindi Trump a convocare d’urgenza “i massimi funzionari e collaboratori della sicurezza nazionale in una riunione nello Studio Ovale lunedì sera, cercando di definire i prossimi passi in uno scontro che ora gli sfugge di mano”.
“Che fare?”, insomma. Di certo può bombardare impianti e infrastrutture, puntando a provocare un crollo dell’economia venezuelana che lo scorso anno è cresciuta più dell’8% ed ha raggiunto l’autosufficienza alimentare (al contrario di quanto avveniva al tempo dei dittatori fedeli a Washington). Ma questo non garantirebbe poi un presa di controllo del Paese, in modo da poterne sfruttare senza problemi le enormi riserve petrolifere.
Anche una “marcia indietro” – un classico per Trump – è in questo caso difficile. Dopo aver “mostrato il bastone” e aver provocato già un discreto numero di morti sarebbe la dimostrazione che l’impero Usa ormai non è più in grado di “far rispettare la propria volontà”, neanche nel “cortile di casa”.
Ai problemi di strategia si vanno sommando quelli creati dall’incompetenza del “ministro della guerra”, Pete Hegseth, ex conduttore televisivo di Fox News fin qui fattosi notare soprattutto per i modi bruschi (anche nei confronti dei suoi generali) e il rifiuto di alcune salvaguardie etiche e legali dell’esercito.
Proprio il bombardamento di una barca al largo del Venezuela è in questi giorni al centro della “polemica politica” a Washington. Si tratta di un “doppio attacco” – prima una bomba sulla barca, poi il mitragliamento di due sopravvissuti, in acqua – guidato personalmente dall’esaltato ex conduttore, che in un audio registrato lo si sente ordinare: “ammazzateli tutti”.
Per la Convenzione di Ginevra e tutta la legislazione internazionale questo è un “crimine di guerra”, ovvero un’azione ingiustificabile col risibile argomento secondo cui due uomini in acqua, in pieno oceano Atlantico, “rappresentavano un pericolo per l’America”.
Anche parecchi repubblicani si sono mostrati “colpiti ed indignati” – è retorica ipocrita, certo, ma del resto se ti vuoi presentare come “il migliore” anche sul piano etico devi stare più attento a quel che fai – e si sono anche fatte ipotesi di impeachment mirato per Hegseth.
A quel punto l’ammiraglio Frank M. “Mitch” Bradley, comandante del Comando per le Operazioni Speciali, si è preso la responsabilità di aver dato quell’ordine. Subito dopo Hegseth lo ha difeso pubblicamente: “Chiariamo una cosa: l’Ammiraglio Bradley è un eroe americano, un vero professionista, e ha il mio 100% di supporto. Sto con lui e le decisioni di combattimento che ha preso – nella missione del 2 settembre e in tutte le altre da allora”.
Traduciamo. L’ammiraglio ha accettato di prendersi la responsabilità per un crimine di guerra, ma ha preteso la copertura politica. I vertici militari, insomma, non sono disponibili a subire gratis lo scaricabarile di politici incapaci, pronti ad attribuire ad altri le proprie colpe (suona familiare, vero?).
Come si vede, il “nodo Venezuela” si è complicato parecchio per l’amministrazione Trump. Che ora si trova a sua volta in una situazione senza una comoda via d’uscita.
Ogni tipo di opzione infatti presenta costi politici elevati. Impegnarsi in una lunga “operazione militare speciale” è altamente impopolare, anche perché difficilmente potrebbero essere evitare perdite tra i soldati Usa. Un attacco pesante a infrastrutture ed altri obiettivi strategici non darebbe comunque garanzie per un “cambio di regime” a Caracas, ma complicherebbe parecchio i rapporti con la Russia (con cui invece Trump ha bisogno di arrivare ad un accordo di pace per l’Ucraina) e con la Cina (già preoccupata per le manovre sul Canale di Panama, le pressioni per Taiwan, ecc.).
Ma anche lasciar perdere sarebbe una sconfitta, tanto più umiliante quanto più si è “agitato il bastone”.
È sempre la situazione peggiore in cui ci si possa trovare. Quella in cui “bisogna fare qualcosa”, ma ogni scelta è sbagliata o controproducente.
È la situazione in cui l’azzardo supera il calcolo. La più densa di rischi, per tutti...
Fonte
L’ex Ilva serve, la cura c’è: vento e idrogeno verde
di Franco Padella
La vera opportunità per Taranto e la Puglia risiede in una strategia integrata che leghi lo sviluppo delle rinnovabili alla produzione di idrogeno verde per la siderurgia. Soluzioni tampone basate sul gas sono miopi e fallaci. Un piano industriale pubblico per evitare una grave perdita per l’intera industria italiana.
Il percorso verso una siderurgia sostenibile e il dibattito sul futuro dell’ex ILVA di Taranto, con il suo drammatico intreccio di posti di lavoro a rischio e impatto ambientale, continuano a riproporsi ciclicamente, rivelando, a livello governativo, il perpetuare dell’assenza di una visione prospettica, unica in grado di fornire una soluzione che non ripeta il passato di inquinamento e progressivo smantellamento dell’impianto. Contro questo destino disegnato lo scorso 16 ottobre si è svolto con successo lo sciopero generale dell’intera ex ILVA e del tema della riconversione ambientalmente sostenibile di Taranto si è occupato il 17 ottobre un convegno di Legambiente, all’interno del quale è stato presentato uno studio dell’Università di Bari verso tale direzione. Taranto rappresenta molto più dell’emergenza nazionale, che pure è: è il simbolo della centralità della siderurgia per un Paese industrializzato, e della necessità di mantenere una capacità produttiva in un momento di profonda trasformazione degli assetti politici e tecnologici del mondo. Troppo spesso, nel fiume di parole che da anni circonda l’ex ILVA, si perde di vista la centralità dell’acciaio nella società attuale e futura, materiale centrale in qualunque settore dell’industria manifatturiera che non è possibile relegare ad un più o meno glorioso passato. La questione, del tutto irrisolta nel caso di Taranto, non è se sia necessario produrre acciaio, ma come farlo in modo sostenibile per l’ambiente e per il territorio.
L’acciaio è una lega metallica composta principalmente di ferro e carbonio, quest’ultimo in quantità inferiori all’1,7%. Simbolo stesso dell’industrializzazione, ancora oggi l’acciaio rappresenta oltre il 90% dell’intera produzione di metalli raffinati nel mondo. Viene prodotto rimuovendo chimicamente l’ossigeno dai minerali di ferro, il processo tradizionale avviene ad alta temperatura, con formazione di anidride carbonica. Nel 2024 la produzione di acciaio grezzo mondiale è stata di 1,88 miliardi di tonnellate, con 3,7 miliardi di tonnellate di CO₂ emessa, tra il 7 e l’11 % delle emissioni globali. Circa 200 milioni di tonnellate di emissioni provengono dall’Europa. Queste sono le cifre globali della siderurgia. Il tutto in un quadro normativo e tecnologico in piena evoluzione all’interno del quale l’Italia, con le sue ripetute e disastrose cessioni della siderurgia ex pubblica, nei fatti appare aver rinunciato ad avere un ruolo attivo. Un ruolo che solo un intervento sistemico, non lasciato alle buone volontà dei passati come di futuri acquirenti industriali, può garantire.
Prendendo spunto dallo sciopero del gruppo ex ILVA del 6 ottobre scorso e dal convegno di presentazione del report sulla riconversione di Legambiente, questo testo si propone di fare chiarezza su cosa è la produzione di acciaio, affrontando il tema della riconversione sostenibile della siderurgia attraverso qualche spiegazione delle tecnologie e dei processi che possono guidare la transizione. L’obiettivo è fornire gli strumenti per comprendere di cosa si parla, oltre il rumore di fondo che da troppo tempo caratterizza la questione dell’ex ILVA.
Le condizioni al contorno: l’Emission Trading System e il Carbon Border Adjustement Mechanism
La Comunità Europea regola le sue emissioni di anidride carbonica (dette anche emissioni di carbonio) attraverso un meccanismo di commercio detto Emissions Trade System (ETS). Questo è un sistema “cap-and-trade” (tetto e scambio) nel quale la Comunità fissa un limite massimo alle emissioni totali consentite per impianti ad alta intensità energetica (tra i quali la siderurgia). Il tetto stabilito si riduce nel tempo. Nello scambio vengono allocate o vengono messe all’asta delle “quote di emissione”, le quali, nel caso di non utilizzo, possono esser vendute alle aziende che emettono più delle quote loro precedentemente assegnate. Si crea in questo modo un mercato delle emissioni, nel quale la CO₂ emessa assume una quotazione economica portando, conseguentemente, ad un aumento dei costi di produzione. È previsto che il meccanismo assuma forme via via più stringenti nel tempo con la graduale riduzione delle quote di emissione gratuite, secondo un percorso di eliminazione (phase-out) ben preciso, stabilito nel pacchetto “Fit for 55”.
A partire dall’inizio nel 2026 è prevista una riduzione lineare delle quote gratuite, per finire con la loro eliminazione nel 2034. L’ingresso di prodotti da Paesi non soggetti al sistema ETS verrà regolato da un meccanismo di aggiustamento alla frontiera (Carbon Border Adjustment Mechanism-CBAM) con il quale saranno tassate le importazioni di merci carbon-intensive (come nel nostro caso l’acciaio). Questo per evitare lo spostamento delle produzioni verso Paesi con regole più deboli. Il CBAM imporrà un prezzo del carbonio sulle importazioni di acciaio (e altri beni) pari a quello che l’importatore avrebbe pagato se il prodotto fosse stato fabbricato sotto l’ETS europeo. Con il CBAM la siderurgia europea perde la protezione interna dovuta alle quote gratuite, guadagnando al contempo una protezione alla frontiera contro la concorrenza estera.
Già oggi, ancora in presenza delle quote di assegnazione gratuite, il prezzo della CO2 vale circa 80-90 €/tonnellata (2023-2024) un valore che le proiezioni della Commissione UE, come quelle di analisti indipendenti, indicano già essere pari alla metà del valore in grado di rendere profittevoli gli investimenti in tecnologie verdi nelle attività siderurgiche. Raggiunto tale valore non sarà più economicamente sostenibile la produzione d’acciaio per vie tradizionali, spingendo la siderurgia verso la trasformazione green sia per obbligo normativo che per convenienza economica. La combinazione di CBAM ed ETS, nella prossima assenza di quote gratuite, crea così il quadro per una siderurgia europea decarbonizzata e competitiva. Ed è in tale quadro che si stanno muovendo colossi europei quali Tyssen Krupp, o progetti di sviluppo molto avanzati come Hybrit.
La produzione tradizionale: altoforno e convertitore finale
Il percorso dell’acciaio ha inizio dal minerale di ferro, costituito principalmente da ematite e magnetite. Il minerale grezzo viene successivamente frantumato, arricchito e agglomerato con sostanze fondenti per poi essere processato nell’altoforno. Quest’ultimo è un reattore chimico verticale dove a temperature che superano i 2.000°C il minerale viene trasformato in ghisa. Il processo è guidato dalla presenza di carbone che reagisce chimicamente con il minerale alle diverse temperature dell’altoforno, perdendo gradualmente ossigeno e producendo ferro e anidride carbonica. Le sostanze fondenti, fondamentalmente calcare, estraggono le impurità formando la ganga ed ulteriore emissione di CO₂.
Il prodotto di questo processo è ghisa, ferro con alto contenuto di carbonio disciolto (3-4%), fragile e non utile per la maggior parte delle applicazioni. La trasformazione finale in acciaio avviene in convertitori, sorta di crogiuoli dove viene insufflato ossigeno puro, che estrae il carbonio disciolto nel fuso producendo ancora CO₂. Il materiale residuo, ora acciaio, contiene a questo punto un tenore di carbonio inferiore al 2%.
Complessivamente il processo di produzione vede 2 tonnellate di CO₂ emessa per ogni tonnellata di acciaio prodotto. È questo l’impatto dell’acciaio primario da altoforno, strettamente connesso alla tecnologia di produzione. È questo che rende necessario il cambiamento dell’intero assetto produttivo. Ed è questo, infine, che ha visto finora fallire ogni ingresso di imprese private all’ex ILVA di Taranto.
L’alternativa all’altoforno: il forno elettrico
Nelle discussioni attuali attorno alla siderurgia la parola chiave appare essere il forno elettrico ad arco (Electric Arc Furnace – EAF), definito alternativa “verde” all’altoforno. La realtà, tuttavia, è più complessa. Nelle tecnologie correnti il forno elettrico si nutre di materiali di riciclo, prodotti da un’economia circolare certamente positiva nel caso dell’acciaio, ma con limiti tecnologici nella qualità dell’acciaio finale prodotto. Il cuore del processo EAF è il rottame ferroso. A differenza dell’altoforno, che partendo da minerali deve compiere un articolato processo chimico di riduzione, il forno elettrico fonde semplicemente un materiale che è già acciaio. Il forno elettrico è strategico nell’economia del riciclo, e circa il 60% di acciaio europeo è prodotto in tal modo, con l’UE leader mondiale nel riciclo, con un tasso del rottame che supera l’80%. La media globale è ben più bassa, attestandosi intorno al 30-35% della produzione globale. Economie come la Cina e l’India, che dominano la produzione mondiale, si basano ancora pesantemente sull’altoforno per soddisfare una domanda di acciaio primario in crescita esplosiva. In sintesi, su circa 1,9 miliardi di tonnellate di acciaio prodotto globalmente ogni anno, poco meno di 1/3 proviene dalla rifusione dei rottami in un forno elettrico. Essendo il rottame un materiale “sporco” dal punto di vista metallurgico, l’acciaio riciclato ha tuttavia dei limiti nella qualità del prodotto finale. Durante i suoi cicli di vita, contaminanti diffusi quali rame, stagno, cromo, nichel ed altro si accumulano nel bagno di acciaio fuso rendendo l’acciaio fragile e non adatto ad applicazioni critiche come, ad esempio, le lamiere per automobili o le travi per grandi infrastrutture. A questo si aggiunge il fatto che la domanda di acciaio primario è in crescita, trainata dai Paesi in via di sviluppo e dalla insufficienza del rottame disponibile su scala globale.
Ecco perché il forno elettrico EAF non può sostituire l’altoforno, ma deve essere integrato in un processo più complesso, in maniera tale da costituire una nuova tecnologia di produzione. È qui che interviene un “nuovo” materiale di cui da un po’ di tempo si sente la denominazione. Si tratta del DRI (Direct Reduced Iron, ferro da riduzione diretta).
Il ferro da riduzione diretta
Il DRI, o Ferro da Riduzione Diretta, non è un semplice “nuovo” materiale di partenza da immettere nel forno elettrico, ma il prodotto di processo chimico completamente alternativo all’altoforno. Comprendere il DRI è la chiave per capire il cambio che la siderurgia richiede.
Il DRI è ferro metallico prodotto dalla estrazione chimica dell’ossigeno dal minerale allo stato solido. Questo avviene in assenza di fusione del metallo, attraverso un gas in grado di reagire con l’ossigeno presente nel minerale solido. Il DRI ottenuto ha un aspetto spugnoso e poroso (da cui il nome “ferro spugna”) perché la rimozione dell’ossigeno dagli ossidi di partenza e in assenza di fusione lascia dei vuoti nella struttura microscopica del materiale. Il DRI è ferro metallico per l’85-95%, con ossido residuo (3-8%), carbonio (0,5-2%) e scorie (3-5%). Il materiale è piroforico e quindi per renderlo facilmente maneggiabile e facilitarne trasporto e stoccaggio è compresso in pani densi e non più piroforici. A differenza dell’altoforno, che “mangia tutto”, il processo DRI è più sensibile ed esigente. Fondamentali sono gli ossidi di partenza, che devono possedere purezza e proprietà fisiche superiori. La forma di partenza è costituita da pellets, sorta di palline con una buona uniformità dimensionale (10-15 mm) e composizionale, ottenute agglomerando polvere di minerale di ferro finemente macinata (concentrato) e “cotte” ad alta temperatura evitando la fusione. Questa forma garantisce una permeabilità ottimale al passaggio del gas riducente all’interno del reattore DRI. Il tenore di ferro deve essere il più alto possibile, idealmente maggiore del 67%, mentre i contaminanti minerali debbono essere in quantità minimali o nulle. Rispetto all’altoforno, i requisiti del materiale di partenza sono stretti e ben definiti, rappresentando essi stessi un elemento fondamentale di differenziazione dal processo tradizionale.
Nelle discussioni sul futuro dell’ILVA appare finalmente anche il termine DRI, ma insieme a questo, come un fantasma fossile, aleggia lo spettro del gas naturale, ad occhi distorti visto come chiave di volta per il processo di ambientalizzazione. Ma ancora una volta la realtà è più complessa e il gas naturale non è la soluzione.
Il DRI a gas naturale
Quando si parla di produrre “ferro spugna” o DRI su larga scala, la tecnologia che domina il panorama attorno alla questione ILVA di Taranto parla di gas naturale. Questo idrocarburo ha un ruolo non solo come fonte energetica, ma fornisce anche la “chimica” necessaria per strappare l’ossigeno dal minerale. A questo gas, in maniera miope, appare da tempo affidarsi l’orizzonte istituzionale di ambientalizzazione della siderurgia primaria italiana.
Come funziona la produzione di DRI con il gas naturale? Il processo non inizia direttamente nel forno di riduzione. Il gas naturale, composto principalmente da metano, deve subire una trasformazione preliminare in reazione con acqua. In un apposito reattore detto reformer, il metano viene fatto reagire con vapore acqueo ad alta temperatura. Viene prodotto un gas, detto syngas, costituito da una miscela di monossido di carbonio e idrogeno. È il syngas che viene fatto reagire con minerale di ferro in pellet, portato a temperature comprese tra gli 800 e i 1.050°C. Il syngas attacca il minerale, ne estrae l’ossigeno e forma il ferro DRI solido e spugnoso pronto per essere fuso in un forno elettrico.
Anche qui il punto cruciale, ancora una volta, è costituito dalle emissioni. Con il DRI a gas naturale, l’anidride carbonica non è un semplice sottoprodotto accidentale ma è intrinseca alla reazione chimica stessa. Ogni volta che una molecola di CO, prodotta da metano, riduce il minerale, genera una molecola di CO₂. Questa è la fonte principale di emissioni, e la sua produzione è inevitabile in questo schema chimico. Altra CO₂ viene emessa dalla combustione, necessaria per generare il calore che alimenta il reformer e mantiene il reattore alla temperatura operativa. Considerando le emissioni indirette, legate all’energia elettrica che fa funzionare pompe, compressori e altri ausiliari, abbiamo che per ogni tonnellata di DRI prodotta con syngas ottenuto da metano l’atmosfera si carica di 1,2 – 1,6 tonnellate di CO₂. Se è vero che è un netto miglioramento rispetto alle quasi 2 tonnellate dell’altoforno, è altrettanto chiaro che questa rimane una tecnologia lontana dall’essere la soluzione definitiva per un’acciaieria a zero emissioni. La sopravvivenza economica del DRI ottenuto da gas è legata a un “paracadute” normativo destinato a sparire: le quote di emissione di CO₂ gratuite assegnate dall’Unione Europea. Man mano che le aziende saranno costrette a pagare per ogni tonnellata di CO₂ emessa, il costo di produzione del DRI a gas naturale schizzerà alle stelle, erodendone rapidamente la competitività. Il conto alla rovescia per il DRI a gas naturale è già iniziato. La sua finestra di opportunità come tecnologia-ponte è determinata dal prezzo crescente del carbonio e dalla scadenza delle agevolazioni. Investire oggi in un nuovo impianto DRI a gas naturale senza un piano chiaro per la rapida conversione all’idrogeno verde significa rischiare di ritrovarsi in una condizione velocemente antieconomica.
Il DRI ad idrogeno
Il processo che utilizza idrogeno verde è il solo che può essere definito quale meta realistica per la decarbonizzazione dell’acciaio primario. Il concetto è radicale: sostituire completamente il gas naturale con idrogeno verde, e cioè prodotto esclusivamente da elettricità rinnovabile.
Il processo centrale avviene in un elettrolizzatore, un apparato alimentato da corrente elettrica che scompone le molecole d’acqua in idrogeno ed ossigeno. Il processo richiede circa 50 kWh di energia elettrica per produrre un chilogrammo di H₂. L’idrogeno verde viene immesso direttamente nel reattore di riduzione diretta, dello stesso tipo di forno utilizzato per il gas naturale. All’interno, a temperature tra gli 800 e i 1.050°C, avviene la reazione che trasforma il minerale. L’idrogeno strappa l’ossigeno dagli ossidi di ferro, producendo la sola emissione di vapore acqueo. Dal reattore fuoriesce un “DRI verde”, identico nell’aspetto al suo predecessore fossile, ma con emissioni di CO₂ azzerate, in quanto la reazione chimica produce solo vapore acqueo e non anidride carbonica. Le emissioni di combustione sono azzerate in quanto non c’è combustione di idrocarburi. Il calore necessario può essere generato elettricamente o recuperando e riciclando i gas del processo stesso, sempre alimentati da energia rinnovabile. Le emissioni indirette possono essere azzerate.
Se l’intero sistema (elettrolizzatore e ausiliari dell’impianto) è alimentato da elettricità rinnovabile, anche queste emissioni si annullano. In sintesi, la produzione di una tonnellata di “DRI verde” può virtualmente avvenire con zero tonnellate di CO₂ emesse direttamente dal processo.
Le uniche emissioni residue, che possono essere ulteriormente mitigate, sono quelle legate all’estrazione e al trasporto del minerale di ferro. Questo processo trasforma la siderurgia da uno dei principali responsabili delle emissioni globali a un’attività potenzialmente a impatto climatico nullo.
La Puglia, le fonti rinnovabili e l’idrogeno verde per una siderurgia pulita
La Puglia è la regione italiana leader nelle rinnovabili, avendo un totale di 7,36 GW di potenza rinnovabile installata (fotovoltaico più eolico). A tale potenza corrisponde una produzione stimata di 16,5 TWh annui di energia pulita. Tuttavia la Puglia ha ancora un’enorme capacità di crescita: entro il 2030 potrebbe raddoppiare la potenza installata, raggiungendo una capacità produttiva tra i 28 e i 36 TWh annui (1 TWH=1000000 kWh). Il fotovoltaico è destinato a trainare questa crescita, con progetti di agri-voltaico e comunità energetiche che potrebbero portare la produzione da fonte solare a 12-15 TWh. L’eolico a terra, già robusto a 9 TWh, può puntare sul “repowering”, sostituzione dei generatori obsoleti, per arrivare a 14 TWh. Completa il quadro l’eolico offshore, con progetti in sviluppo che potrebbero contribuire con almeno ulteriori ulteriori 3-6 TWh annui. In questo quadro il surplus energetico può trasformarsi in una concreta opportunità per la riconversione industriale.
Una produzione realistica di acciaio nell’ex ILVA di Taranto si può assestare tra i 4 e i 6 milioni di tonnellate annue. Considerando un consumo di 50-55 kg di H₂ per tonnellata di DRI prodotto questo porta ad una valutazione di 200.000-300.000 tonnellate annue di idrogeno, con un corrispondente consumo di energia tra i 10 ed i 15 TWh/annui, un valore di circa la metà del potenziale rinnovabile previsto nella regione al 2030. Questi numeri, come ben sottolineato all’interno dello stesso convegno di Legambiente, evidenziano con chiarezza che la riconversione sostenibile dello stabilimento è tecnicamente possibile, ma richiede lo sviluppo di un sistema energetico dedicato, con concreti investimenti in impianti rinnovabili ed elettrolizzatori. La Puglia possiede le potenzialità tecniche per supportare questa transizione, ma è evidente che un’operazione di questa portata non può realizzarsi senza un piano strategico nazionale che integri organicamente lo sviluppo delle rinnovabili con la riconversione industriale. Qualunque altra soluzione, definita più o meno opportunamente “tampone”, non potrà che portare l’acciaio di Taranto fuori da ogni competitività di mercato. Come abbiamo visto, e come sottolineato dai relatori, il tempo della riconversione possibile sta velocemente scadendo.
Per una visione pubblica della transizione
L’approccio finora seguito per la riconversione dell’ex ILVA di Taranto – basato sulla ricerca di un investitore privato che risolvesse definitivamente la questione – si è rivelato del tutto fallimentare. I continui tentativi di affidare a soggetti privati l’onere della transizione ecologica di un impianto strategico, per di più in assenza di un quadro chiaro di sostegno pubblico e di lungo periodo, hanno prodotto solo delusioni e ulteriore incertezza. Come sottolineato nella descrizione delle tecnologie e ben riportato nel convegno di Legambiente, la transizione sostenibile della produzione di acciaio è tecnicamente possibile, ma consiste in una azione complessa da giocare su più piani, che ha bisogno di un sistema tecnologico integrato non limitato alla acciaieria in quanto tale. L’inserimento del solo forno ad arco, magari alimentato con DRI derivante da metano o, peggio, comprato imbricchettato da produttori esterni o ancora peggio da solo acciaio di recupero, non copre le necessità di un Paese che voglia mantenere la strategicità della produzione di acciaio primario. Come ben sottolineato nel convegno, la trasformazione dell’acciaieria ha necessità radicali, che riguardano, oltre alla fabbrica, anche la produzione energetica e il territorio a monte, la produzione di idrogeno verde e il suo utilizzo per il DRI a valle. E riguardano la gente che nel territorio e nella fabbrica vive e lavora.
Sul fronte del lavoro il cambio di tecnologie comporterà anche una riduzione del personale impiegato direttamente nell’acciaieria, ma la forte espansione delle rinnovabili e l’inserimento degli elettrolizzatori può più che compensare le perdite dirette e di indotto nella fabbrica. È evidente che la complessità e i costi di questa trasformazione richiedono una regia pubblica forte e consapevole. Per questo motivo appare del tutto miope e controproducente l’enfasi posta su soluzioni intermedie come l’ambientalizzazione a gas naturale, tecnologia che ben presto andrà a finire su un binario morto. Presentare il DRI a gas come soluzione, in assenza di qualunque percorso di transizione veloce verso l’idrogeno verde, significa ignorarne i limiti strutturali: non solo mantiene una dipendenza dai combustibili fossili, ma produce comunque emissioni significative di CO₂, condannando l’impianto a diventare velocemente non competitivo, con l’aumento del prezzo del carbonio e la scomparsa delle quote gratuite europee.
La vera opportunità per Taranto e per la Puglia risiede in una strategia integrata che leghi indissolubilmente lo sviluppo delle energie rinnovabili alla produzione di idrogeno verde per la siderurgia. Il potenziale energetico della regione, ben superiore a quello odierno, può e deve essere finalizzato strategicamente verso un obiettivo preciso: creare una filiera dell’idrogeno verde dedicata alla decarbonizzazione dell’acciaieria. Come anche chiesto dal sindacato, tutto questo porta a definire come urgente e non più rinviabile la definizione di un piano industriale pubblico che assuma la conversione a idrogeno verde dell’ex ILVA come un progetto nazionale strategico, coordinando gli investimenti nel potenziamento delle rinnovabili in Puglia con la costruzione di elettrolizzatori dedicati e guidando la transizione tecnologica verso il DRI a idrogeno, unica strada per una siderurgia primaria a zero emissioni, competitiva e duratura.
Solo un intervento pubblico determinato e dotato di visione prospettica può spezzare il circolo vizioso dei fallimenti, trasformando Taranto da simbolo del degrado ambientale in uno dei poli europei per l’acciaio verde, con ricadute positive sull’occupazione, l’ambiente e l’intero sistema industriale nazionale.
Fonte
La vera opportunità per Taranto e la Puglia risiede in una strategia integrata che leghi lo sviluppo delle rinnovabili alla produzione di idrogeno verde per la siderurgia. Soluzioni tampone basate sul gas sono miopi e fallaci. Un piano industriale pubblico per evitare una grave perdita per l’intera industria italiana.
Il percorso verso una siderurgia sostenibile e il dibattito sul futuro dell’ex ILVA di Taranto, con il suo drammatico intreccio di posti di lavoro a rischio e impatto ambientale, continuano a riproporsi ciclicamente, rivelando, a livello governativo, il perpetuare dell’assenza di una visione prospettica, unica in grado di fornire una soluzione che non ripeta il passato di inquinamento e progressivo smantellamento dell’impianto. Contro questo destino disegnato lo scorso 16 ottobre si è svolto con successo lo sciopero generale dell’intera ex ILVA e del tema della riconversione ambientalmente sostenibile di Taranto si è occupato il 17 ottobre un convegno di Legambiente, all’interno del quale è stato presentato uno studio dell’Università di Bari verso tale direzione. Taranto rappresenta molto più dell’emergenza nazionale, che pure è: è il simbolo della centralità della siderurgia per un Paese industrializzato, e della necessità di mantenere una capacità produttiva in un momento di profonda trasformazione degli assetti politici e tecnologici del mondo. Troppo spesso, nel fiume di parole che da anni circonda l’ex ILVA, si perde di vista la centralità dell’acciaio nella società attuale e futura, materiale centrale in qualunque settore dell’industria manifatturiera che non è possibile relegare ad un più o meno glorioso passato. La questione, del tutto irrisolta nel caso di Taranto, non è se sia necessario produrre acciaio, ma come farlo in modo sostenibile per l’ambiente e per il territorio.
L’acciaio è una lega metallica composta principalmente di ferro e carbonio, quest’ultimo in quantità inferiori all’1,7%. Simbolo stesso dell’industrializzazione, ancora oggi l’acciaio rappresenta oltre il 90% dell’intera produzione di metalli raffinati nel mondo. Viene prodotto rimuovendo chimicamente l’ossigeno dai minerali di ferro, il processo tradizionale avviene ad alta temperatura, con formazione di anidride carbonica. Nel 2024 la produzione di acciaio grezzo mondiale è stata di 1,88 miliardi di tonnellate, con 3,7 miliardi di tonnellate di CO₂ emessa, tra il 7 e l’11 % delle emissioni globali. Circa 200 milioni di tonnellate di emissioni provengono dall’Europa. Queste sono le cifre globali della siderurgia. Il tutto in un quadro normativo e tecnologico in piena evoluzione all’interno del quale l’Italia, con le sue ripetute e disastrose cessioni della siderurgia ex pubblica, nei fatti appare aver rinunciato ad avere un ruolo attivo. Un ruolo che solo un intervento sistemico, non lasciato alle buone volontà dei passati come di futuri acquirenti industriali, può garantire.
Prendendo spunto dallo sciopero del gruppo ex ILVA del 6 ottobre scorso e dal convegno di presentazione del report sulla riconversione di Legambiente, questo testo si propone di fare chiarezza su cosa è la produzione di acciaio, affrontando il tema della riconversione sostenibile della siderurgia attraverso qualche spiegazione delle tecnologie e dei processi che possono guidare la transizione. L’obiettivo è fornire gli strumenti per comprendere di cosa si parla, oltre il rumore di fondo che da troppo tempo caratterizza la questione dell’ex ILVA.
Le condizioni al contorno: l’Emission Trading System e il Carbon Border Adjustement Mechanism
La Comunità Europea regola le sue emissioni di anidride carbonica (dette anche emissioni di carbonio) attraverso un meccanismo di commercio detto Emissions Trade System (ETS). Questo è un sistema “cap-and-trade” (tetto e scambio) nel quale la Comunità fissa un limite massimo alle emissioni totali consentite per impianti ad alta intensità energetica (tra i quali la siderurgia). Il tetto stabilito si riduce nel tempo. Nello scambio vengono allocate o vengono messe all’asta delle “quote di emissione”, le quali, nel caso di non utilizzo, possono esser vendute alle aziende che emettono più delle quote loro precedentemente assegnate. Si crea in questo modo un mercato delle emissioni, nel quale la CO₂ emessa assume una quotazione economica portando, conseguentemente, ad un aumento dei costi di produzione. È previsto che il meccanismo assuma forme via via più stringenti nel tempo con la graduale riduzione delle quote di emissione gratuite, secondo un percorso di eliminazione (phase-out) ben preciso, stabilito nel pacchetto “Fit for 55”.
A partire dall’inizio nel 2026 è prevista una riduzione lineare delle quote gratuite, per finire con la loro eliminazione nel 2034. L’ingresso di prodotti da Paesi non soggetti al sistema ETS verrà regolato da un meccanismo di aggiustamento alla frontiera (Carbon Border Adjustment Mechanism-CBAM) con il quale saranno tassate le importazioni di merci carbon-intensive (come nel nostro caso l’acciaio). Questo per evitare lo spostamento delle produzioni verso Paesi con regole più deboli. Il CBAM imporrà un prezzo del carbonio sulle importazioni di acciaio (e altri beni) pari a quello che l’importatore avrebbe pagato se il prodotto fosse stato fabbricato sotto l’ETS europeo. Con il CBAM la siderurgia europea perde la protezione interna dovuta alle quote gratuite, guadagnando al contempo una protezione alla frontiera contro la concorrenza estera.
Già oggi, ancora in presenza delle quote di assegnazione gratuite, il prezzo della CO2 vale circa 80-90 €/tonnellata (2023-2024) un valore che le proiezioni della Commissione UE, come quelle di analisti indipendenti, indicano già essere pari alla metà del valore in grado di rendere profittevoli gli investimenti in tecnologie verdi nelle attività siderurgiche. Raggiunto tale valore non sarà più economicamente sostenibile la produzione d’acciaio per vie tradizionali, spingendo la siderurgia verso la trasformazione green sia per obbligo normativo che per convenienza economica. La combinazione di CBAM ed ETS, nella prossima assenza di quote gratuite, crea così il quadro per una siderurgia europea decarbonizzata e competitiva. Ed è in tale quadro che si stanno muovendo colossi europei quali Tyssen Krupp, o progetti di sviluppo molto avanzati come Hybrit.
La produzione tradizionale: altoforno e convertitore finale
Il percorso dell’acciaio ha inizio dal minerale di ferro, costituito principalmente da ematite e magnetite. Il minerale grezzo viene successivamente frantumato, arricchito e agglomerato con sostanze fondenti per poi essere processato nell’altoforno. Quest’ultimo è un reattore chimico verticale dove a temperature che superano i 2.000°C il minerale viene trasformato in ghisa. Il processo è guidato dalla presenza di carbone che reagisce chimicamente con il minerale alle diverse temperature dell’altoforno, perdendo gradualmente ossigeno e producendo ferro e anidride carbonica. Le sostanze fondenti, fondamentalmente calcare, estraggono le impurità formando la ganga ed ulteriore emissione di CO₂.
Il prodotto di questo processo è ghisa, ferro con alto contenuto di carbonio disciolto (3-4%), fragile e non utile per la maggior parte delle applicazioni. La trasformazione finale in acciaio avviene in convertitori, sorta di crogiuoli dove viene insufflato ossigeno puro, che estrae il carbonio disciolto nel fuso producendo ancora CO₂. Il materiale residuo, ora acciaio, contiene a questo punto un tenore di carbonio inferiore al 2%.
Complessivamente il processo di produzione vede 2 tonnellate di CO₂ emessa per ogni tonnellata di acciaio prodotto. È questo l’impatto dell’acciaio primario da altoforno, strettamente connesso alla tecnologia di produzione. È questo che rende necessario il cambiamento dell’intero assetto produttivo. Ed è questo, infine, che ha visto finora fallire ogni ingresso di imprese private all’ex ILVA di Taranto.
L’alternativa all’altoforno: il forno elettrico
Nelle discussioni attuali attorno alla siderurgia la parola chiave appare essere il forno elettrico ad arco (Electric Arc Furnace – EAF), definito alternativa “verde” all’altoforno. La realtà, tuttavia, è più complessa. Nelle tecnologie correnti il forno elettrico si nutre di materiali di riciclo, prodotti da un’economia circolare certamente positiva nel caso dell’acciaio, ma con limiti tecnologici nella qualità dell’acciaio finale prodotto. Il cuore del processo EAF è il rottame ferroso. A differenza dell’altoforno, che partendo da minerali deve compiere un articolato processo chimico di riduzione, il forno elettrico fonde semplicemente un materiale che è già acciaio. Il forno elettrico è strategico nell’economia del riciclo, e circa il 60% di acciaio europeo è prodotto in tal modo, con l’UE leader mondiale nel riciclo, con un tasso del rottame che supera l’80%. La media globale è ben più bassa, attestandosi intorno al 30-35% della produzione globale. Economie come la Cina e l’India, che dominano la produzione mondiale, si basano ancora pesantemente sull’altoforno per soddisfare una domanda di acciaio primario in crescita esplosiva. In sintesi, su circa 1,9 miliardi di tonnellate di acciaio prodotto globalmente ogni anno, poco meno di 1/3 proviene dalla rifusione dei rottami in un forno elettrico. Essendo il rottame un materiale “sporco” dal punto di vista metallurgico, l’acciaio riciclato ha tuttavia dei limiti nella qualità del prodotto finale. Durante i suoi cicli di vita, contaminanti diffusi quali rame, stagno, cromo, nichel ed altro si accumulano nel bagno di acciaio fuso rendendo l’acciaio fragile e non adatto ad applicazioni critiche come, ad esempio, le lamiere per automobili o le travi per grandi infrastrutture. A questo si aggiunge il fatto che la domanda di acciaio primario è in crescita, trainata dai Paesi in via di sviluppo e dalla insufficienza del rottame disponibile su scala globale.
Ecco perché il forno elettrico EAF non può sostituire l’altoforno, ma deve essere integrato in un processo più complesso, in maniera tale da costituire una nuova tecnologia di produzione. È qui che interviene un “nuovo” materiale di cui da un po’ di tempo si sente la denominazione. Si tratta del DRI (Direct Reduced Iron, ferro da riduzione diretta).
Il ferro da riduzione diretta
Il DRI, o Ferro da Riduzione Diretta, non è un semplice “nuovo” materiale di partenza da immettere nel forno elettrico, ma il prodotto di processo chimico completamente alternativo all’altoforno. Comprendere il DRI è la chiave per capire il cambio che la siderurgia richiede.
Il DRI è ferro metallico prodotto dalla estrazione chimica dell’ossigeno dal minerale allo stato solido. Questo avviene in assenza di fusione del metallo, attraverso un gas in grado di reagire con l’ossigeno presente nel minerale solido. Il DRI ottenuto ha un aspetto spugnoso e poroso (da cui il nome “ferro spugna”) perché la rimozione dell’ossigeno dagli ossidi di partenza e in assenza di fusione lascia dei vuoti nella struttura microscopica del materiale. Il DRI è ferro metallico per l’85-95%, con ossido residuo (3-8%), carbonio (0,5-2%) e scorie (3-5%). Il materiale è piroforico e quindi per renderlo facilmente maneggiabile e facilitarne trasporto e stoccaggio è compresso in pani densi e non più piroforici. A differenza dell’altoforno, che “mangia tutto”, il processo DRI è più sensibile ed esigente. Fondamentali sono gli ossidi di partenza, che devono possedere purezza e proprietà fisiche superiori. La forma di partenza è costituita da pellets, sorta di palline con una buona uniformità dimensionale (10-15 mm) e composizionale, ottenute agglomerando polvere di minerale di ferro finemente macinata (concentrato) e “cotte” ad alta temperatura evitando la fusione. Questa forma garantisce una permeabilità ottimale al passaggio del gas riducente all’interno del reattore DRI. Il tenore di ferro deve essere il più alto possibile, idealmente maggiore del 67%, mentre i contaminanti minerali debbono essere in quantità minimali o nulle. Rispetto all’altoforno, i requisiti del materiale di partenza sono stretti e ben definiti, rappresentando essi stessi un elemento fondamentale di differenziazione dal processo tradizionale.
Nelle discussioni sul futuro dell’ILVA appare finalmente anche il termine DRI, ma insieme a questo, come un fantasma fossile, aleggia lo spettro del gas naturale, ad occhi distorti visto come chiave di volta per il processo di ambientalizzazione. Ma ancora una volta la realtà è più complessa e il gas naturale non è la soluzione.
Il DRI a gas naturale
Quando si parla di produrre “ferro spugna” o DRI su larga scala, la tecnologia che domina il panorama attorno alla questione ILVA di Taranto parla di gas naturale. Questo idrocarburo ha un ruolo non solo come fonte energetica, ma fornisce anche la “chimica” necessaria per strappare l’ossigeno dal minerale. A questo gas, in maniera miope, appare da tempo affidarsi l’orizzonte istituzionale di ambientalizzazione della siderurgia primaria italiana.
Come funziona la produzione di DRI con il gas naturale? Il processo non inizia direttamente nel forno di riduzione. Il gas naturale, composto principalmente da metano, deve subire una trasformazione preliminare in reazione con acqua. In un apposito reattore detto reformer, il metano viene fatto reagire con vapore acqueo ad alta temperatura. Viene prodotto un gas, detto syngas, costituito da una miscela di monossido di carbonio e idrogeno. È il syngas che viene fatto reagire con minerale di ferro in pellet, portato a temperature comprese tra gli 800 e i 1.050°C. Il syngas attacca il minerale, ne estrae l’ossigeno e forma il ferro DRI solido e spugnoso pronto per essere fuso in un forno elettrico.
Anche qui il punto cruciale, ancora una volta, è costituito dalle emissioni. Con il DRI a gas naturale, l’anidride carbonica non è un semplice sottoprodotto accidentale ma è intrinseca alla reazione chimica stessa. Ogni volta che una molecola di CO, prodotta da metano, riduce il minerale, genera una molecola di CO₂. Questa è la fonte principale di emissioni, e la sua produzione è inevitabile in questo schema chimico. Altra CO₂ viene emessa dalla combustione, necessaria per generare il calore che alimenta il reformer e mantiene il reattore alla temperatura operativa. Considerando le emissioni indirette, legate all’energia elettrica che fa funzionare pompe, compressori e altri ausiliari, abbiamo che per ogni tonnellata di DRI prodotta con syngas ottenuto da metano l’atmosfera si carica di 1,2 – 1,6 tonnellate di CO₂. Se è vero che è un netto miglioramento rispetto alle quasi 2 tonnellate dell’altoforno, è altrettanto chiaro che questa rimane una tecnologia lontana dall’essere la soluzione definitiva per un’acciaieria a zero emissioni. La sopravvivenza economica del DRI ottenuto da gas è legata a un “paracadute” normativo destinato a sparire: le quote di emissione di CO₂ gratuite assegnate dall’Unione Europea. Man mano che le aziende saranno costrette a pagare per ogni tonnellata di CO₂ emessa, il costo di produzione del DRI a gas naturale schizzerà alle stelle, erodendone rapidamente la competitività. Il conto alla rovescia per il DRI a gas naturale è già iniziato. La sua finestra di opportunità come tecnologia-ponte è determinata dal prezzo crescente del carbonio e dalla scadenza delle agevolazioni. Investire oggi in un nuovo impianto DRI a gas naturale senza un piano chiaro per la rapida conversione all’idrogeno verde significa rischiare di ritrovarsi in una condizione velocemente antieconomica.
Il DRI ad idrogeno
Il processo che utilizza idrogeno verde è il solo che può essere definito quale meta realistica per la decarbonizzazione dell’acciaio primario. Il concetto è radicale: sostituire completamente il gas naturale con idrogeno verde, e cioè prodotto esclusivamente da elettricità rinnovabile.
Il processo centrale avviene in un elettrolizzatore, un apparato alimentato da corrente elettrica che scompone le molecole d’acqua in idrogeno ed ossigeno. Il processo richiede circa 50 kWh di energia elettrica per produrre un chilogrammo di H₂. L’idrogeno verde viene immesso direttamente nel reattore di riduzione diretta, dello stesso tipo di forno utilizzato per il gas naturale. All’interno, a temperature tra gli 800 e i 1.050°C, avviene la reazione che trasforma il minerale. L’idrogeno strappa l’ossigeno dagli ossidi di ferro, producendo la sola emissione di vapore acqueo. Dal reattore fuoriesce un “DRI verde”, identico nell’aspetto al suo predecessore fossile, ma con emissioni di CO₂ azzerate, in quanto la reazione chimica produce solo vapore acqueo e non anidride carbonica. Le emissioni di combustione sono azzerate in quanto non c’è combustione di idrocarburi. Il calore necessario può essere generato elettricamente o recuperando e riciclando i gas del processo stesso, sempre alimentati da energia rinnovabile. Le emissioni indirette possono essere azzerate.
Se l’intero sistema (elettrolizzatore e ausiliari dell’impianto) è alimentato da elettricità rinnovabile, anche queste emissioni si annullano. In sintesi, la produzione di una tonnellata di “DRI verde” può virtualmente avvenire con zero tonnellate di CO₂ emesse direttamente dal processo.
Le uniche emissioni residue, che possono essere ulteriormente mitigate, sono quelle legate all’estrazione e al trasporto del minerale di ferro. Questo processo trasforma la siderurgia da uno dei principali responsabili delle emissioni globali a un’attività potenzialmente a impatto climatico nullo.
La Puglia, le fonti rinnovabili e l’idrogeno verde per una siderurgia pulita
La Puglia è la regione italiana leader nelle rinnovabili, avendo un totale di 7,36 GW di potenza rinnovabile installata (fotovoltaico più eolico). A tale potenza corrisponde una produzione stimata di 16,5 TWh annui di energia pulita. Tuttavia la Puglia ha ancora un’enorme capacità di crescita: entro il 2030 potrebbe raddoppiare la potenza installata, raggiungendo una capacità produttiva tra i 28 e i 36 TWh annui (1 TWH=1000000 kWh). Il fotovoltaico è destinato a trainare questa crescita, con progetti di agri-voltaico e comunità energetiche che potrebbero portare la produzione da fonte solare a 12-15 TWh. L’eolico a terra, già robusto a 9 TWh, può puntare sul “repowering”, sostituzione dei generatori obsoleti, per arrivare a 14 TWh. Completa il quadro l’eolico offshore, con progetti in sviluppo che potrebbero contribuire con almeno ulteriori ulteriori 3-6 TWh annui. In questo quadro il surplus energetico può trasformarsi in una concreta opportunità per la riconversione industriale.
Una produzione realistica di acciaio nell’ex ILVA di Taranto si può assestare tra i 4 e i 6 milioni di tonnellate annue. Considerando un consumo di 50-55 kg di H₂ per tonnellata di DRI prodotto questo porta ad una valutazione di 200.000-300.000 tonnellate annue di idrogeno, con un corrispondente consumo di energia tra i 10 ed i 15 TWh/annui, un valore di circa la metà del potenziale rinnovabile previsto nella regione al 2030. Questi numeri, come ben sottolineato all’interno dello stesso convegno di Legambiente, evidenziano con chiarezza che la riconversione sostenibile dello stabilimento è tecnicamente possibile, ma richiede lo sviluppo di un sistema energetico dedicato, con concreti investimenti in impianti rinnovabili ed elettrolizzatori. La Puglia possiede le potenzialità tecniche per supportare questa transizione, ma è evidente che un’operazione di questa portata non può realizzarsi senza un piano strategico nazionale che integri organicamente lo sviluppo delle rinnovabili con la riconversione industriale. Qualunque altra soluzione, definita più o meno opportunamente “tampone”, non potrà che portare l’acciaio di Taranto fuori da ogni competitività di mercato. Come abbiamo visto, e come sottolineato dai relatori, il tempo della riconversione possibile sta velocemente scadendo.
Per una visione pubblica della transizione
L’approccio finora seguito per la riconversione dell’ex ILVA di Taranto – basato sulla ricerca di un investitore privato che risolvesse definitivamente la questione – si è rivelato del tutto fallimentare. I continui tentativi di affidare a soggetti privati l’onere della transizione ecologica di un impianto strategico, per di più in assenza di un quadro chiaro di sostegno pubblico e di lungo periodo, hanno prodotto solo delusioni e ulteriore incertezza. Come sottolineato nella descrizione delle tecnologie e ben riportato nel convegno di Legambiente, la transizione sostenibile della produzione di acciaio è tecnicamente possibile, ma consiste in una azione complessa da giocare su più piani, che ha bisogno di un sistema tecnologico integrato non limitato alla acciaieria in quanto tale. L’inserimento del solo forno ad arco, magari alimentato con DRI derivante da metano o, peggio, comprato imbricchettato da produttori esterni o ancora peggio da solo acciaio di recupero, non copre le necessità di un Paese che voglia mantenere la strategicità della produzione di acciaio primario. Come ben sottolineato nel convegno, la trasformazione dell’acciaieria ha necessità radicali, che riguardano, oltre alla fabbrica, anche la produzione energetica e il territorio a monte, la produzione di idrogeno verde e il suo utilizzo per il DRI a valle. E riguardano la gente che nel territorio e nella fabbrica vive e lavora.
Sul fronte del lavoro il cambio di tecnologie comporterà anche una riduzione del personale impiegato direttamente nell’acciaieria, ma la forte espansione delle rinnovabili e l’inserimento degli elettrolizzatori può più che compensare le perdite dirette e di indotto nella fabbrica. È evidente che la complessità e i costi di questa trasformazione richiedono una regia pubblica forte e consapevole. Per questo motivo appare del tutto miope e controproducente l’enfasi posta su soluzioni intermedie come l’ambientalizzazione a gas naturale, tecnologia che ben presto andrà a finire su un binario morto. Presentare il DRI a gas come soluzione, in assenza di qualunque percorso di transizione veloce verso l’idrogeno verde, significa ignorarne i limiti strutturali: non solo mantiene una dipendenza dai combustibili fossili, ma produce comunque emissioni significative di CO₂, condannando l’impianto a diventare velocemente non competitivo, con l’aumento del prezzo del carbonio e la scomparsa delle quote gratuite europee.
La vera opportunità per Taranto e per la Puglia risiede in una strategia integrata che leghi indissolubilmente lo sviluppo delle energie rinnovabili alla produzione di idrogeno verde per la siderurgia. Il potenziale energetico della regione, ben superiore a quello odierno, può e deve essere finalizzato strategicamente verso un obiettivo preciso: creare una filiera dell’idrogeno verde dedicata alla decarbonizzazione dell’acciaieria. Come anche chiesto dal sindacato, tutto questo porta a definire come urgente e non più rinviabile la definizione di un piano industriale pubblico che assuma la conversione a idrogeno verde dell’ex ILVA come un progetto nazionale strategico, coordinando gli investimenti nel potenziamento delle rinnovabili in Puglia con la costruzione di elettrolizzatori dedicati e guidando la transizione tecnologica verso il DRI a idrogeno, unica strada per una siderurgia primaria a zero emissioni, competitiva e duratura.
Solo un intervento pubblico determinato e dotato di visione prospettica può spezzare il circolo vizioso dei fallimenti, trasformando Taranto da simbolo del degrado ambientale in uno dei poli europei per l’acciaio verde, con ricadute positive sull’occupazione, l’ambiente e l’intero sistema industriale nazionale.
Fonte
I furbetti della manipolazione e dell’indignazione
In soli tre giorni abbiamo assistito ad un combinato disposto di disinformazione, manipolazione e stigmatizzazione teso a coprire e rimuovere eventi politicamente scomodi per la narrazione dominante.
Il primo è avvenuto venerdì quando l’attenzione politica e mediatica si è concentrata quasi esclusivamente sull’incursione alla sede del quotidiano La Stampa allo scopo evidente di oscurare lo sciopero generale dell’USB e dei sindacati di base contro “La Finanziaria di guerra” del governo Meloni.
Il copione si è ripetuto tra sabato sera e domenica mattina quando, tra telegiornali serali e giornali domenicali, è stata oscurata una enorme manifestazione popolare contro il governo puntando esclusivamente ad amplificare la “stigmatizzazione” delle parole della relatrice speciale dell’Onu Francesca Albanese nel corso della manifestazione, tra l’altro distorcendone spudoratamente il senso e le parole stesse.
Aver usato Francesca Albanese come target di questa offensiva disinformativa e manipolante ha consentito alla classe politica e ai mass media di evitare di riferire e commentare una manifestazione pienamente riuscita sul piano della partecipazione e che proprio governo, mass media al servizio dello stesso e apparati sionisti avevano ardentemente sperato che non riuscisse. Un certo giornalismo-avvoltoio sperava magari in scontri o qualche vetrina sfasciata. Ma sono rimasti delusi, ragione per cui hanno ritenuto di dover oscurare una manifestazione con decine di migliaia di persone.
Vogliamo cogliere tra l’altro l’occasione per esprimere la nostra solidarietà a Francesca Albanese per i vergognosi attacchi a cui è sottoposta sia da destra che dal mondo PD.
E fin qui siamo nel campo della distorsione e della manipolazione massmediatica funzionale al governo da parte di testate giornalistiche, anche di orientamento diverso, ma che in fondo ne condividono le priorità politiche in politica estera.
Poi però ci sono i furbetti e gli smemorati.
Il terzo caso è quello avvenuto lunedì, con l’enorme rilievo avuto sui mass media, e le puntuali dichiarazioni di tutte le istituzioni e della politica, contro le scritte apparse sulla sinagoga Beth Michael nel quartiere Monteverde di Roma. Il Presidente Mattarella, il presidente del Senato La Russa e tanti altri si sono affrettati a mandare messaggi solidali alla comunità ebraica di Roma.
L’evento, e la spropositata copertura politico-mediatica del fatto, sono intanto serviti a creare una impossibile simmetria nella comunicazione con il pestaggio di alcuni volontari italiani avvenuto in Cisgiordania da parte dei coloni israeliani, un episodio decisamente imbarazzante per il governo.
Ma soprattutto negli articoli sulle scritte comparse sulla Sinagoga quasi tutti si sono dimenticati di un dettaglio che magari andava riportato per completezza dell’informazione.
Proprio dalla sinagoga di Monteverde il 3 ottobre scorso, erano infatti partiti gli squadristi sionisti che avevano aggredito gli studenti del vicino liceo “Caravillani” che stavano tenendo una iniziativa sulla Palestina. In quel caso gli aggressori sono stati riconosciuti, in quanto tutti ben conosciuti e tutti adulti (non ragazzi). In quel caso non si trattava di una scritta sul muro.
Non abbiamo però memoria di telefonate dal Quirinale o dal Senato agli studenti della scuola, o quantomeno alla preside, almeno per stigmatizzare quanto era avvenuto.
Se l’imbrattamento della lapide dedicata al bambino ebreo Stefano Tachè ucciso nel 1982 è chiaramente inaccettabile (i morti vanno lasciati in pace, sempre), la scritta “Monteverde antisionista e antifascista” appare dunque del tutto pertinente al contesto di quanto avvenuto il 3 ottobre scorso.
Infine, e non certo per importanza, l’8 maggio dello scorso anno, la targa affissa dalla facoltà di Fisica della Sapienza a ricordo del rettore dell’università di Gaza Sufyan Tayeh, ucciso dai militari israeliani, era stata vandalizzata e imbrattata con scritte a sostegno di Israele.
Ma anche in quel caso non abbiamo memoria di una telefonata del Presidente della Repubblica o di quello del Senato alle autorità accademiche della Sapienza, o della facoltà di Fisica, per condannare l’oltraggio.
Come avevamo denunciato nei mesi scorsi, gli apparati sionisti e il governo italiano loro complice stanno cercando in tutti i modi di recuperare il terreno perduto a causa della indignazione di massa per il genocidio dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania.
L’illusione è quella di riportare la narrazione sulla realtà alla situazione precedente al 7 ottobre 2023, quando il controllo e l’egemonia di Israele sull’informazione anche nel nostro paese erano invasivi e totalizzanti.
Questo meccanismo però si è rotto in più punti. La gente manifesta per le strade e riconosce nella causa e nelle bandiere della Palestina un dovere politico e morale di giustizia. E poi, purtroppo e per fortuna, disponiamo di una memoria prodigiosa.
Fonte
Il primo è avvenuto venerdì quando l’attenzione politica e mediatica si è concentrata quasi esclusivamente sull’incursione alla sede del quotidiano La Stampa allo scopo evidente di oscurare lo sciopero generale dell’USB e dei sindacati di base contro “La Finanziaria di guerra” del governo Meloni.
Il copione si è ripetuto tra sabato sera e domenica mattina quando, tra telegiornali serali e giornali domenicali, è stata oscurata una enorme manifestazione popolare contro il governo puntando esclusivamente ad amplificare la “stigmatizzazione” delle parole della relatrice speciale dell’Onu Francesca Albanese nel corso della manifestazione, tra l’altro distorcendone spudoratamente il senso e le parole stesse.
Aver usato Francesca Albanese come target di questa offensiva disinformativa e manipolante ha consentito alla classe politica e ai mass media di evitare di riferire e commentare una manifestazione pienamente riuscita sul piano della partecipazione e che proprio governo, mass media al servizio dello stesso e apparati sionisti avevano ardentemente sperato che non riuscisse. Un certo giornalismo-avvoltoio sperava magari in scontri o qualche vetrina sfasciata. Ma sono rimasti delusi, ragione per cui hanno ritenuto di dover oscurare una manifestazione con decine di migliaia di persone.
Vogliamo cogliere tra l’altro l’occasione per esprimere la nostra solidarietà a Francesca Albanese per i vergognosi attacchi a cui è sottoposta sia da destra che dal mondo PD.
E fin qui siamo nel campo della distorsione e della manipolazione massmediatica funzionale al governo da parte di testate giornalistiche, anche di orientamento diverso, ma che in fondo ne condividono le priorità politiche in politica estera.
Poi però ci sono i furbetti e gli smemorati.
Il terzo caso è quello avvenuto lunedì, con l’enorme rilievo avuto sui mass media, e le puntuali dichiarazioni di tutte le istituzioni e della politica, contro le scritte apparse sulla sinagoga Beth Michael nel quartiere Monteverde di Roma. Il Presidente Mattarella, il presidente del Senato La Russa e tanti altri si sono affrettati a mandare messaggi solidali alla comunità ebraica di Roma.
L’evento, e la spropositata copertura politico-mediatica del fatto, sono intanto serviti a creare una impossibile simmetria nella comunicazione con il pestaggio di alcuni volontari italiani avvenuto in Cisgiordania da parte dei coloni israeliani, un episodio decisamente imbarazzante per il governo.
Ma soprattutto negli articoli sulle scritte comparse sulla Sinagoga quasi tutti si sono dimenticati di un dettaglio che magari andava riportato per completezza dell’informazione.
Proprio dalla sinagoga di Monteverde il 3 ottobre scorso, erano infatti partiti gli squadristi sionisti che avevano aggredito gli studenti del vicino liceo “Caravillani” che stavano tenendo una iniziativa sulla Palestina. In quel caso gli aggressori sono stati riconosciuti, in quanto tutti ben conosciuti e tutti adulti (non ragazzi). In quel caso non si trattava di una scritta sul muro.
Non abbiamo però memoria di telefonate dal Quirinale o dal Senato agli studenti della scuola, o quantomeno alla preside, almeno per stigmatizzare quanto era avvenuto.
Se l’imbrattamento della lapide dedicata al bambino ebreo Stefano Tachè ucciso nel 1982 è chiaramente inaccettabile (i morti vanno lasciati in pace, sempre), la scritta “Monteverde antisionista e antifascista” appare dunque del tutto pertinente al contesto di quanto avvenuto il 3 ottobre scorso.
Infine, e non certo per importanza, l’8 maggio dello scorso anno, la targa affissa dalla facoltà di Fisica della Sapienza a ricordo del rettore dell’università di Gaza Sufyan Tayeh, ucciso dai militari israeliani, era stata vandalizzata e imbrattata con scritte a sostegno di Israele.
Ma anche in quel caso non abbiamo memoria di una telefonata del Presidente della Repubblica o di quello del Senato alle autorità accademiche della Sapienza, o della facoltà di Fisica, per condannare l’oltraggio.
Come avevamo denunciato nei mesi scorsi, gli apparati sionisti e il governo italiano loro complice stanno cercando in tutti i modi di recuperare il terreno perduto a causa della indignazione di massa per il genocidio dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania.
L’illusione è quella di riportare la narrazione sulla realtà alla situazione precedente al 7 ottobre 2023, quando il controllo e l’egemonia di Israele sull’informazione anche nel nostro paese erano invasivi e totalizzanti.
Questo meccanismo però si è rotto in più punti. La gente manifesta per le strade e riconosce nella causa e nelle bandiere della Palestina un dovere politico e morale di giustizia. E poi, purtroppo e per fortuna, disponiamo di una memoria prodigiosa.
Fonte
Pillole di bancarotta. Proviamo a fare due conti
di Alessandro Volpi
Il valore complessivo delle società partecipate pubbliche quotate era a luglio di quest’anno pari a quasi 264 miliardi di euro di cui lo Stato e Cdp [Cassa Depositi e Prestiti, ndr] possedevano quasi 90 miliardi.
Una prima considerazione su questo dato: in un anno il valore della partecipazione dello Stato solo per effetto dell’aumento del valore dei titoli di tali società è salito di quasi 10 miliardi. Tutto bene, allora?
Direi proprio di no. Il governo Meloni infatti ha deciso un piano di privatizzazioni di oltre 20 miliardi di euro, di cui ha già messo in atto una parte con dismissioni tra Eni, Mps e altri 5-6 miliardi, ceduti a grandi fondi Usa o al salottino buono della finanza nostrana (Delfin e Caltagirone in primis).
Tale piano sta proseguendo: è in rampa di lancio la cessione di un ulteriore 14% di Poste, a cui potrebbe seguire quella di Ferrovie, magari attraverso lo strumento di uno spin off dedicato. Intanto si parla di imminente cessione della Banca del Mezzogiorno, naturalmente dopo averla risanata a spese dei contribuenti e dopo che è tornata a distribuire dividendi, di una quota parte di Enav, l’ente che gestisce il traffico aereo civile, e persino della Zecca di Stato dopo averla portata in Borsa.
In estrema sintesi, Meloni e Giorgetti scelgono con cura le società che garantirebbero maggiori introiti allo Stato in termini di utili e ne vendono pezzi crescenti a privati – grandi fondi Usa e “grandi famiglie” – in modo da trasferire loro gli utili pubblici.
Non male: poi magari con questi introiti si finanziano la quinta rottamazione e la riduzione del carico fiscale per i super ricchi.
Poveri e promossi
Il governo Meloni esulta per la “promozione”, da parte della agenzia Moody’s, del debito italiano a Baa2. Si tratta di un piccolo balzo in alto che non avveniva da 23 anni e che comunque lascia l’Italia al quarantacinquesimo posto della “classifica” mondiale.
Ma il punto non è questo. Per capire cosa significa la “promozione” bisogna tener conto di due fattori. Il primo. Moody’s è una società privata i cui principali azionisti sono Berkshire di Warren Buffet, BlackRock, Vanguard e State Street, i più grandi gestori del risparmio mondiale.
Il secondo fattore è costituito dai criteri di attribuzione del rating che prevedono un innalzamento quanto più debito e deficit sono bassi. Ora il governo Meloni ha presentato una Legge di bilancio che elimina di fatto la spesa sociale per ridurre il deficit e portarlo sotto il 3%. In sintesi, se non c’è spesa pubblica, il deficit si riduce e Moody’s migliora la pagella. Ma chi beneficia di tale aumento?
Non ci sono dubbi, non certamente la popolazione italiana che avrà meno servizi pubblici, a cominciare dalla sanità mentre ne traggono un evidente vantaggi propri i grandi gestori del risparmio perché i cittadini privati dei servizi pubblici dovranno indirizzare i loro risparmi ai fondi privati e quindi a BlackRock, Vanguard e State Street che, guarda caso, sono i proprietari di Moody’s: è come avere un “arbitro” che è dipendente di una delle squadre in campo, quella della finanza.
Bisognerebbe aggiungere che ormai il rating di Moody’s non riesce neppure a contenere il costo degli interessi sul debito, destinati comunque a crescere per la concorrenza dei debiti, in lievitazione, degli altri paese.
L’assalto
La Commissione europea guidata dall’ineffabile Von der Leyen propone un pacchetto di misure volte a smontare il sistema pensionistico pubblico a favore della previdenza privata. Le indicazioni sono molto chiare:
1) iscrizione automatica di lavoratori e lavoratrici a fondi pensione privati, a cui l’interessato può opporsi solo con una rinuncia formale;
2) revisione profonda delle norme sui prodotti pensionistici personali paneuropei la cui vendita sarà decisamente semplificata, con costi ridotti e con forme evidenti di agevolazione fiscale a danno dei contribuenti che rifiutino il regime automatico;
3) revisione delle forme di controllo e di vigilanza sui fondi pensionistici privati eliminando i vincoli “indebiti sugli investimenti”.
Certamente i grandi gestori del risparmio – BlackRock in primis – festeggiano: la Commissione europea offre al capitalismo finanziario, attraverso la destinazione obbligatoria del risparmio verso i titoli finanziari, l’unica vera linfa vitale.
Una nota di chiusura: la commissaria europea alle finanze, Maria Luís Albuquerque, è stata amministratrice non esecutiva presso Arrow Global, società di investimento con sede fiscale a Londra e una chiara predilezione per i fondi immobiliari.
I capitalisti
Stellantis ha ridotto drasticamente il numero dei dipendenti che non arrivano ormai a 38 mila di cui quasi 15 mila sono sottoposti a varie forme di ammortizzatori sociali.
Nel frattempo, nel 2023 Exor [la holding finanziaria olandese controllata dalla famiglia italiana Agnelli, ndr] ha creato una società di gestione patrimoniale che ha in maniera davvero paradossale denominato Lingotto Investment Management, con sede fiscale a Londra. Tale società Agnelli/Elkann ha destinato quasi 7 miliardi di euro nell’acquisto di titoli di una quarantina di società, in larga parte americane, tra cui Google e Amazon, e in fondi che speculano su materie prime e oro.
In sintesi, mentre abbandonava la produzione di auto, nonostante i sostanziosi incentivi, e mentre utilizzava a piene mani gli ammortizzatori sociali, Exor – la famiglia Elkann Agnelli – faceva una montagna di soldi in operazioni meramente finanziarie, evitando accuratamente le imposte e chiedendo l’affidamento ai servizi sociali per il povero John.
Un bel giochetto
Gli utili delle banche italiane sono arrivati nei primi nove mesi del 2025 a quasi 22 miliardi di euro. Da cosa dipendono? In gran parte dalle commissioni, quindi dalla vendita di prodotti finanziari che, spesso, hanno acquistato dai grandi fondi americani, BlackRock in primis, con i risparmi degli italiani. Le banche fanno sempre meno credito e sempre più finanza, americana...
Ma immaginare un’imposta che si riferisca, in maniera strutturale, a questo tipo di profitti è considerato dal governo Meloni, e non solo, un sacrilegio. Anzi, le banche vanno pubblicamente ringraziate come ha fatto l’abbinata Giorgetti-Meloni.
Meloni e BlackRock...
La discussione sulla Legge di bilancio sta assumendo toni davvero incredibili.
Mi soffermo su due misure.
La prima. Sembra che il governo voglia cancellare l’aumento di imposta sui dividendi da partecipazioni di minoranza. In pratica, oggi, le società italiane che comprano partecipazioni azionarie di minoranza di altre società pagano, se si tratta di società Usa, il 16,2% sui dividendi, formato dal 15% di tassazione Usa e l’1,2% di tassazione italiana.
L’idea originaria era di portare l’aliquota italiana al 24%, ma questa soluzione pare già accantonata: altrimenti come farebbero le società italiane a comprare azioni di Big Tech Usa, sostenute da BlackRock, piuttosto che investire nel proprio ciclo produttivo?
La seconda misura dovrebbe compensare la perdita di gettito di questo ripristino dell’aliquota sui dividendi. Si tratta di tassare le vendite di oro (il cui prezzo ha oggi raggiunto i 4200 dollari l’oncia!), che ora pagano il 26% sulla plusvalenza se c’è una fattura che provi il prezzo, altrimenti pagano il 26% sul valore della cessione.
La proposta in campo prevede di pagare per chi non ha prove di acquisto una sola tassa una tantum sul valore complessivo del posseduto, magari milioni di euro, con un’aliquota del 12,5%.
Fantastico, l’Italia è il mondo dei ricchi e di BlackRock che è uno dei principali protagonisti dell’impennata del prezzo dell’oro in termini finanziari. Ma intanto il Corriere dedica un paginone a Prodi che dichiara che “Mamdani non è il modello” e serve “un riformismo concreto”.
I ricchi, molto concretamente, festeggiano.
Fonte
Il valore complessivo delle società partecipate pubbliche quotate era a luglio di quest’anno pari a quasi 264 miliardi di euro di cui lo Stato e Cdp [Cassa Depositi e Prestiti, ndr] possedevano quasi 90 miliardi.
Una prima considerazione su questo dato: in un anno il valore della partecipazione dello Stato solo per effetto dell’aumento del valore dei titoli di tali società è salito di quasi 10 miliardi. Tutto bene, allora?
Direi proprio di no. Il governo Meloni infatti ha deciso un piano di privatizzazioni di oltre 20 miliardi di euro, di cui ha già messo in atto una parte con dismissioni tra Eni, Mps e altri 5-6 miliardi, ceduti a grandi fondi Usa o al salottino buono della finanza nostrana (Delfin e Caltagirone in primis).
Tale piano sta proseguendo: è in rampa di lancio la cessione di un ulteriore 14% di Poste, a cui potrebbe seguire quella di Ferrovie, magari attraverso lo strumento di uno spin off dedicato. Intanto si parla di imminente cessione della Banca del Mezzogiorno, naturalmente dopo averla risanata a spese dei contribuenti e dopo che è tornata a distribuire dividendi, di una quota parte di Enav, l’ente che gestisce il traffico aereo civile, e persino della Zecca di Stato dopo averla portata in Borsa.
In estrema sintesi, Meloni e Giorgetti scelgono con cura le società che garantirebbero maggiori introiti allo Stato in termini di utili e ne vendono pezzi crescenti a privati – grandi fondi Usa e “grandi famiglie” – in modo da trasferire loro gli utili pubblici.
Non male: poi magari con questi introiti si finanziano la quinta rottamazione e la riduzione del carico fiscale per i super ricchi.
Poveri e promossi
Il governo Meloni esulta per la “promozione”, da parte della agenzia Moody’s, del debito italiano a Baa2. Si tratta di un piccolo balzo in alto che non avveniva da 23 anni e che comunque lascia l’Italia al quarantacinquesimo posto della “classifica” mondiale.
Ma il punto non è questo. Per capire cosa significa la “promozione” bisogna tener conto di due fattori. Il primo. Moody’s è una società privata i cui principali azionisti sono Berkshire di Warren Buffet, BlackRock, Vanguard e State Street, i più grandi gestori del risparmio mondiale.
Il secondo fattore è costituito dai criteri di attribuzione del rating che prevedono un innalzamento quanto più debito e deficit sono bassi. Ora il governo Meloni ha presentato una Legge di bilancio che elimina di fatto la spesa sociale per ridurre il deficit e portarlo sotto il 3%. In sintesi, se non c’è spesa pubblica, il deficit si riduce e Moody’s migliora la pagella. Ma chi beneficia di tale aumento?
Non ci sono dubbi, non certamente la popolazione italiana che avrà meno servizi pubblici, a cominciare dalla sanità mentre ne traggono un evidente vantaggi propri i grandi gestori del risparmio perché i cittadini privati dei servizi pubblici dovranno indirizzare i loro risparmi ai fondi privati e quindi a BlackRock, Vanguard e State Street che, guarda caso, sono i proprietari di Moody’s: è come avere un “arbitro” che è dipendente di una delle squadre in campo, quella della finanza.
Bisognerebbe aggiungere che ormai il rating di Moody’s non riesce neppure a contenere il costo degli interessi sul debito, destinati comunque a crescere per la concorrenza dei debiti, in lievitazione, degli altri paese.
L’assalto
La Commissione europea guidata dall’ineffabile Von der Leyen propone un pacchetto di misure volte a smontare il sistema pensionistico pubblico a favore della previdenza privata. Le indicazioni sono molto chiare:
1) iscrizione automatica di lavoratori e lavoratrici a fondi pensione privati, a cui l’interessato può opporsi solo con una rinuncia formale;
2) revisione profonda delle norme sui prodotti pensionistici personali paneuropei la cui vendita sarà decisamente semplificata, con costi ridotti e con forme evidenti di agevolazione fiscale a danno dei contribuenti che rifiutino il regime automatico;
3) revisione delle forme di controllo e di vigilanza sui fondi pensionistici privati eliminando i vincoli “indebiti sugli investimenti”.
Certamente i grandi gestori del risparmio – BlackRock in primis – festeggiano: la Commissione europea offre al capitalismo finanziario, attraverso la destinazione obbligatoria del risparmio verso i titoli finanziari, l’unica vera linfa vitale.
Una nota di chiusura: la commissaria europea alle finanze, Maria Luís Albuquerque, è stata amministratrice non esecutiva presso Arrow Global, società di investimento con sede fiscale a Londra e una chiara predilezione per i fondi immobiliari.
I capitalisti
Stellantis ha ridotto drasticamente il numero dei dipendenti che non arrivano ormai a 38 mila di cui quasi 15 mila sono sottoposti a varie forme di ammortizzatori sociali.
Nel frattempo, nel 2023 Exor [la holding finanziaria olandese controllata dalla famiglia italiana Agnelli, ndr] ha creato una società di gestione patrimoniale che ha in maniera davvero paradossale denominato Lingotto Investment Management, con sede fiscale a Londra. Tale società Agnelli/Elkann ha destinato quasi 7 miliardi di euro nell’acquisto di titoli di una quarantina di società, in larga parte americane, tra cui Google e Amazon, e in fondi che speculano su materie prime e oro.
In sintesi, mentre abbandonava la produzione di auto, nonostante i sostanziosi incentivi, e mentre utilizzava a piene mani gli ammortizzatori sociali, Exor – la famiglia Elkann Agnelli – faceva una montagna di soldi in operazioni meramente finanziarie, evitando accuratamente le imposte e chiedendo l’affidamento ai servizi sociali per il povero John.
Un bel giochetto
Gli utili delle banche italiane sono arrivati nei primi nove mesi del 2025 a quasi 22 miliardi di euro. Da cosa dipendono? In gran parte dalle commissioni, quindi dalla vendita di prodotti finanziari che, spesso, hanno acquistato dai grandi fondi americani, BlackRock in primis, con i risparmi degli italiani. Le banche fanno sempre meno credito e sempre più finanza, americana...
Ma immaginare un’imposta che si riferisca, in maniera strutturale, a questo tipo di profitti è considerato dal governo Meloni, e non solo, un sacrilegio. Anzi, le banche vanno pubblicamente ringraziate come ha fatto l’abbinata Giorgetti-Meloni.
Meloni e BlackRock...
La discussione sulla Legge di bilancio sta assumendo toni davvero incredibili.
Mi soffermo su due misure.
La prima. Sembra che il governo voglia cancellare l’aumento di imposta sui dividendi da partecipazioni di minoranza. In pratica, oggi, le società italiane che comprano partecipazioni azionarie di minoranza di altre società pagano, se si tratta di società Usa, il 16,2% sui dividendi, formato dal 15% di tassazione Usa e l’1,2% di tassazione italiana.
L’idea originaria era di portare l’aliquota italiana al 24%, ma questa soluzione pare già accantonata: altrimenti come farebbero le società italiane a comprare azioni di Big Tech Usa, sostenute da BlackRock, piuttosto che investire nel proprio ciclo produttivo?
La seconda misura dovrebbe compensare la perdita di gettito di questo ripristino dell’aliquota sui dividendi. Si tratta di tassare le vendite di oro (il cui prezzo ha oggi raggiunto i 4200 dollari l’oncia!), che ora pagano il 26% sulla plusvalenza se c’è una fattura che provi il prezzo, altrimenti pagano il 26% sul valore della cessione.
La proposta in campo prevede di pagare per chi non ha prove di acquisto una sola tassa una tantum sul valore complessivo del posseduto, magari milioni di euro, con un’aliquota del 12,5%.
Fantastico, l’Italia è il mondo dei ricchi e di BlackRock che è uno dei principali protagonisti dell’impennata del prezzo dell’oro in termini finanziari. Ma intanto il Corriere dedica un paginone a Prodi che dichiara che “Mamdani non è il modello” e serve “un riformismo concreto”.
I ricchi, molto concretamente, festeggiano.
Fonte
Il corrotto Netanyahu chiede la “grazia” per continuare il genocidio
È una mossa che era stata paventata da più parti, ed era stata invocata pure dal presidente statunitense Donald Trump, ma che rimane tuttavia piuttosto insolita dal punto di vista giuridico, soprattutto perché preventiva: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha chiesto la grazia al presidente Isaac Herzog.
Sono 111 le pagine del dossier che è stato inviato a Herzog dallo studio legale dell’avvocato del primo ministro, Amit Haddad. Al centro del contendere ci sono tre processi che pendono sul capo di Netanyahu da sei anni, per frode, corruzione e abuso d’ufficio. Ultimamente, le udienze non erano andate bene, e anche la testimonianza che sarebbe dovuta avvenire ieri è stata cancellata “per ragioni di sicurezza nazionale”.
Il dossier è stato accompagnato anche da una lettera personale di Bibi, nella quale afferma che la grazia aiuterà a ricomporre “la frattura nazionale” e ad “abbassare la temperatura” della politica israeliana. C’è poi anche un video affidato ai social, in cui Netanyahu sostiene che superare i processi significherà che potrà “concentrarsi d’ora in poi esclusivamente sulla gestione della guerra e contro il terrorismo da Gaza”.
Dunque, quello che chiede il primo ministro è di essere sgravato dai processi per completare il genocidio: non solo ammette che la carneficina di Gaza non è finita, ma cerca di far sopravanzare la legge da ragioni tutte politiche. L’ufficio di Herzog ha detto che “il Presidente valuterà la richiesta con responsabilità e sincerità”, ma anche che si tratta di una mossa eccezionale per il quadro legale del paese.
In Israele, la grazia è solitamente riservata ai condannati definitivi. Netanyahu, invece, è ancora solo un imputato. I giuristi sottolineano come l’unico precedente simile risalga al 1984 (il caso del “Bus 300”), quando l’allora presidente Chaim Herzog – padre di quello attuale – graziò due agenti dello Shin Bet prima del processo.
Tuttavia, in quel caso vi fu un’ammissione di colpa e le dimissioni dei coinvolti. Netanyahu, al contrario, non intende dimettersi né ammettere responsabilità; anzi, punta a presentarsi “pulito” alle elezioni del 2026. Secondo la difesa, lo status di “sospettato” è sufficiente per la grazia, ma per molti osservatori si tratta di un tentativo di sancire un principio di impunità, ponendo il leader sopra la legge.
Dietro l’accelerazione di Netanyahu sembra esserci anche un fattore internazionale: Donald Trump. Il presidente eletto degli Stati Uniti aveva già sollecitato pubblicamente la grazia per il primo ministro durante una visita alla Knesset a ottobre. Riporta il Fatto Quotidiano che Eli Salzberger, ordinario di diritto all’Università di Haifa, ipotizza che l’amnistia possa essere addirittura una “condizione ombra” del piano di pace stelle-e-strisce per la regione.
Sulla richiesta di Netanyahu Yair Lapid, a capo dell’opposizione, è stato lapidario: “solo i colpevoli chiedono la grazia”. Sotto la residenza di Herzog si è radunata una folla di manifestanti al grido di “Repubblica delle banane”. L’iter per la decisione richiederà circa due o tre mesi, ma l’esito non è scontato: se il Presidente dovesse concedere la grazia, è praticamente certo che l’opposizione impugnerà la decisione davanti alla Corte Suprema, aprendo un nuovo capitolo nello scontro istituzionale israeliano.
Netanyahu rimane invece sostanzialmente con le mani libere nei rapporti internazionali, dove gravano sulla sua testa le accuse della Corte Penale Internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Anche si salvasse dai processi interni, Bibi dovrebbe essere costretto a rispondere alla comunità internazionale, ma sappiamo bene che la copertura occidentale lo mette al riparo da ogni giustizia.
Fonte
Sono 111 le pagine del dossier che è stato inviato a Herzog dallo studio legale dell’avvocato del primo ministro, Amit Haddad. Al centro del contendere ci sono tre processi che pendono sul capo di Netanyahu da sei anni, per frode, corruzione e abuso d’ufficio. Ultimamente, le udienze non erano andate bene, e anche la testimonianza che sarebbe dovuta avvenire ieri è stata cancellata “per ragioni di sicurezza nazionale”.
Il dossier è stato accompagnato anche da una lettera personale di Bibi, nella quale afferma che la grazia aiuterà a ricomporre “la frattura nazionale” e ad “abbassare la temperatura” della politica israeliana. C’è poi anche un video affidato ai social, in cui Netanyahu sostiene che superare i processi significherà che potrà “concentrarsi d’ora in poi esclusivamente sulla gestione della guerra e contro il terrorismo da Gaza”.
Dunque, quello che chiede il primo ministro è di essere sgravato dai processi per completare il genocidio: non solo ammette che la carneficina di Gaza non è finita, ma cerca di far sopravanzare la legge da ragioni tutte politiche. L’ufficio di Herzog ha detto che “il Presidente valuterà la richiesta con responsabilità e sincerità”, ma anche che si tratta di una mossa eccezionale per il quadro legale del paese.
In Israele, la grazia è solitamente riservata ai condannati definitivi. Netanyahu, invece, è ancora solo un imputato. I giuristi sottolineano come l’unico precedente simile risalga al 1984 (il caso del “Bus 300”), quando l’allora presidente Chaim Herzog – padre di quello attuale – graziò due agenti dello Shin Bet prima del processo.
Tuttavia, in quel caso vi fu un’ammissione di colpa e le dimissioni dei coinvolti. Netanyahu, al contrario, non intende dimettersi né ammettere responsabilità; anzi, punta a presentarsi “pulito” alle elezioni del 2026. Secondo la difesa, lo status di “sospettato” è sufficiente per la grazia, ma per molti osservatori si tratta di un tentativo di sancire un principio di impunità, ponendo il leader sopra la legge.
Dietro l’accelerazione di Netanyahu sembra esserci anche un fattore internazionale: Donald Trump. Il presidente eletto degli Stati Uniti aveva già sollecitato pubblicamente la grazia per il primo ministro durante una visita alla Knesset a ottobre. Riporta il Fatto Quotidiano che Eli Salzberger, ordinario di diritto all’Università di Haifa, ipotizza che l’amnistia possa essere addirittura una “condizione ombra” del piano di pace stelle-e-strisce per la regione.
Sulla richiesta di Netanyahu Yair Lapid, a capo dell’opposizione, è stato lapidario: “solo i colpevoli chiedono la grazia”. Sotto la residenza di Herzog si è radunata una folla di manifestanti al grido di “Repubblica delle banane”. L’iter per la decisione richiederà circa due o tre mesi, ma l’esito non è scontato: se il Presidente dovesse concedere la grazia, è praticamente certo che l’opposizione impugnerà la decisione davanti alla Corte Suprema, aprendo un nuovo capitolo nello scontro istituzionale israeliano.
Netanyahu rimane invece sostanzialmente con le mani libere nei rapporti internazionali, dove gravano sulla sua testa le accuse della Corte Penale Internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Anche si salvasse dai processi interni, Bibi dovrebbe essere costretto a rispondere alla comunità internazionale, ma sappiamo bene che la copertura occidentale lo mette al riparo da ogni giustizia.
Fonte
Iscriviti a:
Commenti (Atom)