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17/10/2024

Ancora attacchi israeliani all’Unifil in Libano. A Gaza continua il massacro. Bombardamenti sullo Yemen

In Libano è avvenuto unuovo episodio di aggressione dell’esercito israeliano nei confronti dell’Unifil. Un carro armato ha preso di mira una posizione nel sud del paese, nelle vicinanze di Kafer Kala. Si tratta di un’area in cui si trova il contingente spagnolo. In questi giorni il governo spagnolo è quello che in Europa ha assunto le posizioni più dure contro Israele.

Secondo quanto comunicato da Unifil, “un Merkava dell’IDF ha colpito la torre di guardia, distruggendo due telecamere e causando danni alla struttura”. L’organizzazione ha denunciato anche questa volta “un attacco diretto e apparentemente intenzionale verso una nostra base”.

Con uno stile decisamente mafioso – negare quello che viene fatto sotto gli occhi di tutti – il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, ha dichiarato che “Israele considera fondamentale l’operato di Unifil e non ha intenzione di compromettere l’integrità dell’organizzazione o dei suoi membri. Inoltre, il governo israeliano pensa che Unifil giochi un ruolo cruciale nel ‘momento successivo’ alla guerra contro Hezbollah”. Un atteggiamento smentito da ben sei attacchi alle strutture dell’Unifil in una settimana. Rilanciando la evidente doppiezza della versione israeliana, il ministro Katz ha poi sottolineato che “è Hezbollah a sfruttare il personale di Unifil come scudi umani, sparando deliberatamente contro i soldati dell’IDF da aree adiacenti alle basi Unifil, per alimentare conflitti”. In pratica, come scrive oggi un editoriale del Jerusalem Post, Unifil deve togliersi di mezzo se non vuole beccarsi le bombe israeliane.

Nella serata, da Bruxelles, è pervenuta una dichiarazione congiunta dei leader europei e delle nazioni del Golfo, che esprime condanna per gli attacchi contro le operazioni delle Nazioni Unite.

Secondo il responsabile europeo della sicurezza e della politica estera, Josep Borrell, le Nazioni Unite sono sotto attacco da parte di Israele su tutti i fronti “Spero che il Consiglio della UE condannerà gli attacchi israeliani contro l’UNIFIL. Ciò che sta accadendo in Medio Oriente è una catastrofe e una grave crisi umanitaria. La decisione degli Stati Uniti di dare a Israele un mese per risolvere la crisi umanitaria a Gaza è insufficiente e molti moriranno entro quel tempo”.

Israele ha permesso mercoledì a 50 camion di aiuti umanitari di entrare nel nord della Striscia di Gaza, alcune ore dopo che gli Stati Uniti hanno confermato l’invio di una lettera che avvertiva come la continua fornitura di armi di Washington a Tel Aviv era a rischio se Israele non avesse adottato misure significative per affrontare la crescente crisi umanitaria nella Striscia entro 30 giorni.

In Libano intanto ieri l’esercito israeliano ha bombardando la città di Nabatieh, colpendo un edificio municipale e uccidendo 16 persone, tra cui il sindaco della città, mentre erano in riunione.

L’esercito israeliano ha inoltre invitato i residenti di un’area nella città di Safri nella valle della Bekaa e nell’area di Al-Hosh nella città di Tiro a evacuarla immediatamente, alimentando così lo sfollamento forzato di migliaia di libanesi dal loro territorio.

A Gaza continua la mattanza quotidiana dei palestinesi

A Gaza le forze armate israeliane hanno ucciso almeno 29 palestinesi e ne hanno feriti 93 nelle ultime 24 ore, secondo il ministero della sanità palestinese. Questo porta il bilancio delle vittime dal 7 ottobre 2023 a 42.438, con oltre 99.246 feriti e almeno 10.000 ancora dispersi, probabilmente sepolti sotto le macerie. I funzionari sanitari riferiscono che oltre il 60% delle vittime sono donne e bambini.

Secondo Al Jazeera il numero dei morti dall’inizio dell’ultima operazione militare israeliana nel nord della Striscia di Gaza ha superato i 400.

Il ministero della Sanità di Gaza ha detto che ci sono continui appelli da parte delle famiglie assediate nei campi di Jabalia e Saftawi a causa dei bombardamenti israeliani in corso. L’esercito israeliano ha bombardato con l’artiglieria il quartiere di Zeitoun, a sud-est di Gaza City.

Yemen - Bombardamenti Usa e britannici

Ieri ci sono stati 9 raid anglo-statunitensi sull Yemen che hanno preso di mira le aree di Kahlan e Al-Ayla a est della città di Saada, e altri 6 raid hanno preso di mira diverse aree a nord e a sud della capitale, Sanaa.

Il segretario alla Difesa degli Stati Uniti Lloyd Austin ha detto di aver effettuato attacchi su cinque siti di stoccaggio sotterraneo di armi nelle aree controllate dagli Houthi dello Yemen sottolineando che gli attacchi sono stati diretti dal presidente Joe Biden e hanno coinvolto bombardieri B-2 dell’aeronautica statunitense.

Il portavoce del gruppo yemenita Ansar Allah (Houthi) ha detto che gli Stati Uniti pagheranno il prezzo della loro aggressione, aggiungendo che gli attacchi contro lo Yemen non riusciranno a costringere il movimento Houthi a interrompere il suo sostegno ai palestinesi di Gaza e al popolo del Libano.

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Leonardo e Rheinmetall unite per costituire la base industriale della difesa europea

La deriva bellicista dell’Unione Europea è un fatto conclamato, e sulla via dell’economia di guerra e del “keynesismo militare” si sono avviati tutti i governi. Anche la legge di bilancio licenziata due giorni fa da Palazzo Chigi è finanziata con miliardi di tagli, ma allo stesso tempo prevede il potenziamento degli investimenti militari.

La difesa europea è una scelta strategica ormai assodata, ora “serve” costruire un’industria della difesa che sia all’altezza delle mire di potenza di Bruxelles. Vi sono diverse aziende che concorrono a questa corsa al riarmo, e certamente due delle più importanti sono l’italiana Leonardo (controllata al 30% dallo Stato) e la tedesca Rheinmetall.

I due colossi delle armi hanno firmato l’accordo per la costituzione della joint venture annunciata a luglio, Leonardo Rheinmetall Military Vehicles (LRMV), di cui sono azionisti paritari. L’attività sarà finalizzata alla produzione di carri armati e di veicoli cingolati da combattimento, e il 60% delle lavorazioni avverrà in Italia, in particolare nell’impianto Oto Melara di La Spezia.

La sede legale sarà invece a Roma, ed è evidente come con la chiusura di questo accordo la classe dirigente italiana speri di guadagnarne anche sotto il profilo dell’occupazione. E attraverso le ricadute sociali delle laute commesse, spera di dare anche maggiore legittimità al crescente impegno bellico del paese, in Europa come nella cornice NATO.

Per rinnovare due intere brigate corazzate, per un totale di 1.500 tra carri e altri mezzi, si prevede che lo Stato italiano spenderà 23 miliardi da qui al 2040.

Armin Papperger, amministratore delegato di Rheinmetall, stima che il mercato dei carri potrebbe arrivare a valere “50 miliardi nei prossimi dieci anni”, e spera che la joint venture possa imporsi su almeno la metà.

L’annuncio dell’intesa ha permesso anche alla Iveco Defense Vehicle, da settimane al centro di voci su una possibile vendita, di approfittare del clima positivo in borsa e di ottenere un leggero rialzo delle sue azioni. Per ora, comunque, non sono previste collaborazioni, anche se Cingolani, amministratore delegato della Leonardo, non esclude futuri accordi commerciali.

Insomma, ci troviamo di fronte a una vera e propria catena del riarmo che diventerà sempre più caratterizzante dell’economia continentale. La difesa europea, del resto, non è la reazione all’escalation con Mosca, ma si tratta di un’opzione finalizzata a una maggiore autonomia strategica, da tempo perseguita da Bruxelles.

Lo dice chiaro lo stesso Cingolani: “[l’accordo] lo consideriamo un atto esplorativo ma se riuscissimo a far capire che le alleanze per creare dei giganti industriali sono necessarie alla sicurezza del nostro continente e ci portano ad essere competitivi con la Cina e con gli Usa, allora faremmo un passo in avanti significativo”.

Rheinmetall è una delle compagnie maggiormente impegnata nel sostenere lo sforzo ucraino, e ne ha guadagnato in competenze sul campo. Leonardo, invece, è all’avanguardia nei sistemi elettronici, fondamentali nel carro che verrà costruito sulla base di un Panther tedesco ‘digitalizzato’.

Insieme, dunque, si candidano ad essere la base industriale della futura difesa europea.

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Il Nobel per l’economia consacra il complesso di superiorità dell’Occidente

Il Nobel per l’economia di quest’anno è stato assegnato a Daron Acemoglu, James Robinson e Simon Johnson per il loro lavoro sul legame tra istituzioni politiche e crescita economica.

Per avere una panoramica generale del loro contributo accademico, si può fare riferimento al loro best-seller “Perché le nazioni falliscono” (“Why Nations Fail”), un caso editoriale del 2012 che riassume per il vasto pubblico vent’anni di attività scientifica dei suoi autori.

Il libro è scritto in maniera accattivante e propone una storia semplice quanto convincente – come del resto s’addice a ogni narrazione ben scritta – la chiave del successo o del fallimento di una nazione risiede nelle sue istituzioni politiche ed economiche.

In particolare, gli autori sostengono che istituzioni politiche inclusive, che favoriscono la partecipazione della maggioranza della popolazione alla creazione di ricchezza, incentivando l’innovazione, gli investimenti e la crescita economica, garantiscono il successo di un Paese.

A queste vengono contrapposte le istituzioni politiche cosiddette estrattive, progettate per il beneficio di un’élite, limitando le opportunità per la maggioranza e frenando l’innovazione.

Inevitabilmente, questa dicotomia proposta dagli autori finisce per confondersi e identificarsi con la più classica contrapposizione tra economie di mercato (in cui la tutela della proprietà privata e dello stato di diritto, dicono, rappresentano i valori centrali della comunità politica) e il resto del mondo.

Al di là dell’enfasi sulle conclusioni, si rileva un livello straordinario di pregiudizio occidentale riguardo alle istituzioni che si considerano efficaci. Soprattutto, come molti politologi occidentali, gli autori fanno fatica a integrare nel loro modello la continua ascesa economica della Cina.

Il libro di Acemoglu e Robinson sostiene sostanzialmente tre tesi principali:

1) le istituzioni inclusive sono la chiave dello sviluppo: “Paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti sono diventati ricchi perché i loro cittadini hanno rovesciato le élite che controllavano il potere e hanno creato una società in cui i diritti politici erano molto più ampiamente distribuiti, in cui il governo era responsabile e rispondeva ai cittadini, e in cui la grande massa della popolazione poteva approfittare delle opportunità economiche”, come si legge nella Prefazione del libro.

2) I cambiamenti istituzionali sono irreversibili e tendono a generare circoli viziosi o virtuosi: le istituzioni tendono a essere auto-rinforzanti. In un sistema inclusivo, i cittadini hanno incentivi a mantenere e rafforzare le istituzioni che garantiscono pari opportunità. In un sistema estrattivo, invece, le élite cercano di perpetuare le strutture che le favoriscono, spesso ostacolando le riforme che potrebbero portare alla crescita economica e alla distribuzione delle risorse.

3) Il ruolo degli snodi critici nella storia: momenti specifici nel percorso di un Paese determinano la convergenza delle istituzioni politiche verso il modello inclusivo o estrattivo. Rivoluzioni, carestie o guerre possono mettere una nazione su un binario o su un altro, in una sorta di “effetto farfalla” dello sviluppo.

Il libro è arricchito da esempi storici, aneddoti e casi studio: dal regno del Congo all’impero britannico, dalla divergenza storica tra le due Coree al confronto tra Stati Uniti e Messico.

Il problema di fondo di questo vasto affresco è che tutto funziona davvero solo a posteriori. Ci sono sempre molte piccole differenze ovunque si guardi, e le teorie istituzionaliste hanno sempre avuto difficoltà a indicare in anticipo quali di queste differenze svolgano un ruolo cruciale nel determinare il successo o il fallimento di una società.

Quando una teoria coincide con i nostri stessi pregiudizi, sembra procedere trionfalmente attraverso la storia, fornendo una risposta per ogni nostra domanda. Il problema emerge quando ci si imbatte in un pezzo del puzzle che non si adatta bene agli altri.

Un esempio è la previsione degli autori sulla Cina. Nel 2012, costoro sostenevano che “la crescita sotto istituzioni politiche estrattive, come in Cina, non porterà a una crescita sostenuta ed è probabile che si esaurisca” (Capitolo 15). A dodici anni di distanza, questa previsione non si è verificata.

E anche se la crescita cinese dovesse finalmente rallentare (ancora oggi parliamo di cifre sopra il 4% del PIL annuo, mentre i Paesi ‘inclusivi’ come Giappone o Germania fanno fatica ad arrivare all’1%), non sarebbe semplice stabilire se ciò dipenda da meccanismi naturali di convergenza tipici delle economie sviluppate o da un qualche difetto fondamentale del sistema politico cinese.

Un altro esempio è la Corea del Sud. Secondo Acemoglu e colleghi, il miracolo economico della Corea del Sud dipende dal fatto che, a differenza del Nord, “la Corea del Sud è un’economia di mercato, costruita sulla proprietà privata” (Capitolo 3).

Tuttavia, questa tesi oggi appare piuttosto screditata, poiché minimizza sistematicamente il ruolo della politica industriale e di uno Stato interventista nel decollo economico della Corea del Sud, e delle altre “Tigri Asiatiche” (senza considerare il fatto che il miracolo economico coreano è figlio diretto anche di una situazione politica costellata da innumerevoli colpi di stato militari dalla fine della guerra con il Nord negli anni '50 ai primissimi anni '90).

Nel complesso, l’affascinante storia istituzionalista di Acemoglu e colleghi sembra funzionare solo quando si è disposti a crederci, ignorando o minimizzando gli elementi che non si adattano al quadro.

In altre parole, ci troviamo di fronte a una “Storia proprio così”, per citare la raccolta di racconti per bambini di Rudyard Kipling: una teoria speculativa, costruita ad hoc e di dubbia validità.

In mancanza di un controfattuale, del resto, per i paladini del libero mercato è facile interpretare i fatti al contrario. Nella loro testa, quando un’economia con chiare tendenze stataliste ha successo, lo fa sempre malgrado l’intervento della politica, mai grazie ad esso.

Sebbene sia indiscutibile che un legame tra sistema politico e crescita economica debba necessariamente esistere – e chi, del resto, lo ha mai messo in dubbio? – la pretesa che la ricetta dello sviluppo occidentale neoliberale sia la Risposta con la ‘R’ maiuscola rappresenta un esempio lampante di pregiudizio culturale.

Oggi, con un’Europa in difficoltà e un mercato globale sempre più frammentato, tale tesi risulta ancora meno credibile di quanto lo fosse dieci o vent’anni fa.

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Argentina - Occupate decine di università contro il governo Milei

La mobilitazione studentesca in difesa dell’istruzione pubblica ha generato uno shock nella scena politica argentina.

Sono state occupate quasi 100 facoltà, da sud a nord, e le azioni di studenti e insegnanti tendono a radicalizzarsi. Lunedì sono state occupate la facoltà di Legge e di Medicina dell’Università di Buenos Aires, una chiara espressione che la situazione è una polveriera, aprendo una nuova fase nella lotta contro il governo criminale di Milei.

Le occupazioni sono una risposta al veto di Milei contro l’aumento del budget universitario e fanno parte della lotta del movimento educativo per borse di studio, aumenti di stipendio per gli insegnanti ed altre richieste. Esse evidenziano, a loro volta, il fallimento della politica di negoziazione e del filone parlamentare dei rettori e della burocrazia sindacale.

Il Congresso si è mostrato per quello che è veramente: un covo di banditi che difendono gli interessi dei ricchi e dei capitalisti, in cui Milei ha complici all’interno di tutti i partiti politici tradizionali (UCR, PRO, PJ). Grazie a loro, ha passato i veti contro l’università pubblica e i pensionati.

Il conflitto, come non potrebbe essere altrimenti, dovrà essere risolto nella lotta di strada. Si tratta di un braccio di ferro tra il movimento studentesco, che è uscito per combattere spinto dalla lotta degli insegnanti – che si prepara ad andare verso un nuovo sciopero e altre azioni di lotta – ed affronta la sfida di dover approfondire le sue azioni di protesta, contro un governo che prende soldi dal bilancio dell’istruzione per darli agli speculatori finanziari e ai capitalisti in generale.

Il clima nel movimento studentesco universitario è di effervescenza. Nelle facoltà di Scienze Esatte, Fadu, Medicina, Giurisprudenza, Scienze Sociali, Ingegneria, Psicologia e Filosofia e Lettere dell’UBA sono state votate occupazioni comprese tra 24 e 72 ore. Il fatto che questa misura sia stata votata ha mostrato la radicalizzazione del processo di lotta, dato che si tratta di una facoltà bollata come “conservatrice” con pochi precedenti di questo tipo nel recente passato.

Come parte del piano di lotta, gli studenti di Legge faranno un blocco il prossimo martedì alle 18:00 sulle strade. Anche quelli di Medicina, che hanno votato per l’occupazione in un’assemblea questo lunedì, nonostante il boicottaggio del centro studentesco radicale, faranno un blocco. Sullo stesso percorso seguiranno quelli di Economia, Ingegneria e Farmacia e Biochimica. Gli studenti di Scienze Esatte e Fadu, allo stesso modo, faranno un blocco nella Città Universitaria.

Anche nella provincia di Buenos Aires la lotta si sta intensificando. Nelle facoltà di Lettere e Filosofia, Psicologia, Scienze Esatte e Scienze Naturali dell’Università di La Plata ci sono importanti mobilitazioni. A La Plata si è appena conclusa anche l’occupazione del Collegio Universitario Nazionale. Gli studenti delle scuole superiori stanno iniziando a unirsi all’ondata di lotte.

L’Università Nazionale di Quilmes è stata occupata (qui una banda di “libertari” filo Milei è entrata nell’università e ha spruzzato spray al peperoncino contro gli studenti che partecipavano alla lotta) e all’Università di Lanús ci sarà un’assemblea in cui si definirà cosa fare. L’Università Nazionale del Generale Sarmiento è stata occupata per la prima volta nella storia; all’Università Nazionale del Sud di Bahía Blanca, dopo l’occupazione dell’edificio delle Scienze Umanistiche, ci sarà un’assemblea per definire i passi da seguire. A Florencio Varela, presso l’Università Nazionale Arturo Jauretche, si terranno assemblee in cui si discuterà come continuare la lotta.

Anche l’Università di La Matanza è stata occupata e la lotta si è fatta strada contro il rettorato. A La Cámpora hanno cercato di impedire la mobilitazione studentesca inviando bande contro gli studenti.

L’Università Nazionale di Tres de Febrero, invece, è stata occupata per tutto il fine settimana. Questo lunedì si è conclusa l’occupazione dell’Università Nazionale di Luján e della Facoltà di Filosofia e Lettere dell’Università di Tucumán. Allo stesso modo, è stata occupata la sede del rettorato dell’Università Nazionale del Centro della Provincia di Buenos Aires, a Tandil. All’Università Nazionale di Hurlingham, è stato deciso di portare avanti un piano di lotta che durerà tutta la settimana.

Allo stesso tempo, continuano le occupazioni nelle università nazionali di San Luis, Salta e La Pampa. Anche l’Università Nazionale di Córdoba si è unita alla ribellione studentesca, con occupazioni nelle facoltà di Psicologia, Scienze Sociali, Filosofia, Arti, Comunicazione e Giurisprudenza.

Ci sono lotte e occupazioni nell’UNPA Uarg a Santa Cruz, nell’UNCo a Fiske e nell’UNPA a Santa Cruz. A Comahue c’è stata un’occupazione del rettorato di 24 ore e diverse azioni di lotta. All’Università di Catamarca ci sono stati blocchi stradali, un festival a sostegno della lotta e dell’occupazione. Anche l’Università di Rosario è entrata nella marea studentesca.

La lotta continuerà nei prossimi giorni con scioperi, lezioni pubbliche e blocchi stradali.

Questo giovedì ci sarà uno sciopero degli insegnanti, indetto dal fronte sindacale universitario, e lunedì 21 inizierà una settimana di lotta. La lotta comune tra insegnanti e studenti deve essere approfondita per sconfiggere il governo Milei. E la chiave è farlo in autonomia, senza fidarsi delle organizzazioni studentesche e dei sindacati che rispondono ai responsabili della crisi educativa e dell’ascesa di Milei.

D’altra parte, gli studenti delle scuole secondarie e terziarie devono unirsi in massa a questo processo, promuovendo la lotta studentesca dal basso, dove le organizzazioni studentesche sono un freno al loro sviluppo.

Abbiamo già visto come il radicalismo e il peronismo abbiano silurato le iniziative di lotta e le occupazioni. La loro strategia non è quella di sconfiggere la politica anti-istruzione di Milei. Nel caso del peronismo, Máximo Kirchner lo ha detto molto chiaramente quando ha detto che il compito degli studenti è aspettare le elezioni del 2025.

Dobbiamo andare verso una mobilitazione popolare in difesa dell’istruzione pubblica e per sconfiggere il governo Milei.

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Turchia - L’espansionismo sionista fa ripartire il dialogo coi curdi?

Possibile ennesima giravolta da parte di Erdogan. I vertici politici turchi, compreso il Presidente, stanno lanciando da giorni segnali di volontà politica di riaprire il dialogo con la sinistra filo – PKK.

Si ricorda che nel 2015, i colloqui di pace fra le parti portarono a un passo da uno storico accordo fra lo stato ed il PKK, sintetizzato in un documento in 10 punti che avrebbe dovuto portare a rimuovere le restrizioni politico – culturali nei confronti della minoranza curda in cambio dello smantellamento dell’arsenale del PKK su ordine di Abdullah Ocalan, il quale avrebbe dovuto essere liberato ed avere successivamente un ruolo politico. Allo stesso tempo, era aperto il dialogo con l’ala siriana del PKK, il PYD e, quindi, il Rojava, che all’epoca marciava assieme ad Ankara (oltre che assieme agli USA e ai paesi del golfo) nell’obiettivo di far cadere manu militari lo stato centrale baathista.

Successivamente, con gli USA che puntarono forte sulle milizie curde nella loro “coalizione anti-Isis”, Erdogan, forse temendo che questa alleanza militare ingombrante avrebbe portato alle condizioni per la rivendicazione di uno stato curdo indipendente transfrontaliero, cambiò totalmente politica: si alleò con l’estrema destra del Movimento Nazionalista ed inaugurò un’epoca di repressione interna ed operazioni militari contro il Rojava in Siria.

È stato proprio il capo del Movimento Nazionalista Devlet Behceli, nei giorni scorsi a dare un segnale di discontinuità con un gesto altamente simbolico e shockante, ovvero una stretta di mano in Parlamento a Tuncer Bakırhan, dirigente del Partito per l’Uguaglianza dei Popoli e la Democrazia (DEM), ennesima incarnazione della sinistra filo-curda, ai cui membri, fino al giorno prima, i nazionalisti rifiutavano di sedere accanto nell’emiciclo parlamentare in quanto considerati terroristi.

Secondo la ben informata giornalista Amberin Zaman, su Al Monitor, la volontà di riaprire il dialogo è reale e sarebbe motivata dal timore che la Turchia venga coinvolta nel turbinio degli sconvolgimenti geopolitici derivanti dall’espansionismo sionista e dal clima di guerra totale regionale che esso ha scatenato. La possibilità di una guerra totale a seguito dell’attesa risposta militare di Tel Aviv sul territorio iraniano, in sostanza, starebbe consigliando di agire preventivamente per eliminare i conflitti e serrare i ranghi all’interno del paese.

Nello stesso articolo, l’autrice afferma di aver parlato con tre fonti “con una conoscenza approfondita del dossier curdo del governo”, che hanno preteso l’anonimato, secondo le quali Ocalan sarebbe stato coinvolto direttamente in tentativi preliminari di riaprire il dialogo e avrebbe avuto una telefonata piuttosto tesa con la leadership del PKK nelle montagne del Qandil, in Iraq, avente come tema la possibilità di cominciare a discutere la deposizione delle armi.

Inoltre, sul tavolo del Governo di Ankara sarebbero arrivati report secondo i quali, in Iran, le Guardie Rivoluzionarie spingerebbero affinché Teheran, a sua volta, trovi un accordo con PJAK, espressione locale del PKK, che, per altro, recentemente ha allargato i propri ranghi grazie al movimento di protesta a seguito della morte di Mahsa Amimi. Ciò allo scopo di evitare saldature indesiderate fra nemico sionista e fronte interno.

Il 12 ottobre, Erdogan, parlando del gesto di Behceli, è stato inauditamente esplicito, arrivando addirittura ad alludere ad una riforma costituzionale “inclusiva e libertaria”, in maniera tale da ricalcare le rivendicazioni della sinistra filo-curda: “Troviamo l’atteggiamento del signor Bahçeli positivo e significativo per la lotta del nostro Paese per la democrazia. Ci auguriamo che il numero di coloro che intraprendono queste azioni aumenti in futuro. Con l’aumentare del numero di coloro che intraprendono queste azioni, ci auguriamo di poter espandere la base del consenso sociale sulla nuova costituzione. In una geografia regionale segnata da organizzazioni terroristiche, in un periodo di tensioni in Iraq, guerra civile in Siria e brutalità di Israele, è importante stabilire la pace in patria. Siamo sempre pronti a risolvere i problemi con metodi non terroristici. Perché facciamo politica per rafforzare la pace e l’unità del nostro Paese e per fornire alla nostra nazione i servizi di qualità che merita. Questo è anche il motivo per cui chiediamo una nuova costituzione. Abbiamo bisogno di creare una costituzione inclusiva, equa, civile e libertaria”.

Qualche giorno prima, lo stesso Erdogan aveva già chiarito che l’espansionismo sionista richieda una svolta nel trattare i conflitti interni: “Che sia ben chiaro: oggi la riconciliazione deve prevalere sul conflitto per fronteggiare l’aggressione israeliana. L’amministrazione israeliana, dopo la Palestina e il Libano, punterà i suoi occhi sui territori della nostra nazione”.

Da parte curda, la prudenza, ovviamente, regna sovrana. Il timore è che semplicemente il Presidente cerchi l‘appoggio del partito DEM per modificare la costituzione in maniera tale da farsi eleggere oltre il limite dei mandati (anche se fino ad ora ha negato di volersi ricandidare nel 2028), oppure che sia disposto ad offrire, in cambio della fine del conflitto, la libertà di Ocalan e null’altro, come sempre fa alla vigilia delle azioni militari di più ampia portata.

Ad esempio, il veterano curdo Ahmet Türk ha affermato che, sebbene ci siano stati recenti gesti da parte del governo turco, rimane incerto se essi si tradurranno in cambiamenti sostanziali. “Non lo sappiamo. Il tempo lo dirà”, ha dichiarato, esortando poi a riconoscere il Rojava“Riconoscere l’autonomia del Rojava e promuovere il dialogo porterebbe ad una maggiore sicurezza per entrambe le parti”.

Ancora più scettico è Mustafa Karasu, membro del KCK, organizzazione “ombrello” che raccoglie tutte le sigle afferenti al PKK nella regione: “L’alleanza fascista AKP-MHP ha teso una trappola al Partito DEM e allo spazio politico democratico. Faranno delle chiamate al dialogo; imporranno cose che il Partito DEM non può accettare. E quando il Partito DEM e le forze democratiche non faranno ciò che ordinano, aumenteranno ancora di più i loro attacchi dicendo: “Abbiamo dialogato con il Partito DEM; abbiamo aperto uno spazio; abbiamo offerto delle opportunità; abbiamo dato loro la possibilità di fare politica, ma non hanno risposto positivamente”. Questo sembra essere il gioco che hanno messo in atto”.

Ovviamente è impossibile trarre conclusioni rispetto al reale intento, da parte di Ankara, di riaprire il dialogo con la sinistra filo-curda, oltre che con il governo di Damasco, con cui, nei mesi scorsi, pure ha annunciato di voler cercare una pacificazione definitiva, invitando Assad in Turchia.

Gli ostacoli sono molteplici, a partire dalla repressione che continua nel Kurdistan turco, dall’isolamento di Ocalan non ancora alleviato e dalla presenza militare turca, sia nel nord-est che nel nord-ovest della Siria, a sostegno di truppe salafite (sostenute militarmente anche da Tel Aviv e da Kiev) di cui difficilmente Ankara si può disfare senza problemi interni ed esterni. Tali milizie hanno già dato vita a proteste a Idlib e a minacce nel momento in cui Erdogan ha annunciato di voler incontrare Assad. Anche la presenza USA nel Rojava potrebbe nuovamente rivelarsi un intralcio rispetto ai processi riconciliatori in Siria ed in Turchia, se Washington dovesse rendersi conto che essi avvengono contro i suoi interessi e quelli sionisti.

Proprio l’espansionismo sionista, comunque, può rivelarsi detonatore di processi politici virtuosi nella regione fino a qualche mese fa impensabili, anche alla luce dell’inerzia dei paesi arabi sunniti.

I quali, a furia di non fare nulla e di attendere che gli USA frenino i deliri sionisti, sono entrati nelle mire espansioniste del “Grande Israele compreso fra Mediterraneo, Nilo ed Eufrate”, quindi esteso a territori di Giordania, Libano, Siria, Iraq, Egitto, Turchia e Arabia Saudita, che alcuni ministri afferenti al sionismo religioso intendono esplicitamente perseguire. Al momento sembra, appunto, un delirio. Ma se non si fa nulla non è detto che lo rimanga per sempre.

Si spera che qualcuno, ad Ankara e nelle altre capitali del vicino Oriente, lo abbia capito.

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Nobel per l’economia ad Acemoglu, un "antimarxista capace di redenzione"

L’accademia svedese delle scienze ha attribuito il premio Nobel per l’economia 2024 a Daron Acemoglu, Simon Johnson e James A. Robinson per l’analisi “dei modi in cui le istituzioni si formano e influenzano la prosperità”. La stella del terzetto è certamente Acemoglu, professore al Mit di Boston, già vincitore della John Bates Clark medal e tra gli economisti più citati in accademia. Acemoglu è anche famoso per una sua celebre battaglia “anti-marxista”, che lo ha portato a contestare il metodo marxiano di ricerca delle “leggi di tendenza” del capitalismo. Ne discutiamo con l’economista Emiliano Brancaccio, tra i principali studiosi italiani delle famigerate “leggi” marxiane, che nel 2021 è stato protagonista di un vivace dibattito in tema proprio con Acemoglu (ora riportato nel libro Democrazia sotto assedio, edito da Piemme).

Professor Brancaccio, chi è Daron Acemoglu e perché ha vinto il Nobel per l’economia?

È un economista piuttosto ortodosso, che tuttavia ha una particolarità. Se guardiamo al suo metodo di indagine, è quello solito degli economisti mainstream: lo studio della società come se fosse composta da individui egoisti e separati tra loro, che puntano a massimizzare la loro felicità sotto il vincolo delle risorse di cui dispongono. La novità di Acemoglu e dei suoi coautori è che utilizzano questa rigida ipotesi di comportamento molto al di là dell’economia, per cercare di studiare anche fenomeni più ampi, tra cui persino lo sviluppo della cultura, delle istituzioni politiche, e addirittura le condizioni di passaggio dalla democrazia alla dittatura. Un metodo che io reputo discutibile, ma che lui ha applicato a campi di ricerca indubbiamente nuovi.

Gli studi di Acemoglu consentono di prevedere se una democrazia può essere sostituita da un regime autoritario?

L’idea di Acemoglu è piuttosto disincantata. Lui ritiene che la democrazia sia forte se le sue “élites” non hanno incentivo a rovesciarla. L’esistenza o meno di questo incentivo dipenderebbe da sei fattori: la forza della società civile, la struttura delle istituzioni politiche, la natura delle crisi politiche ed economiche, il livello di disuguaglianza economica, la struttura dell’economia e l’apertura ai mercati globali. A seconda di come si combinano questi elementi, si determina la forza o la fragilità delle istituzioni democratiche delle diverse nazioni. Con questo approccio lui cerca più che altro di capire la storia passata delle istituzioni dei vari paesi. Di solito non osa fare previsioni sul futuro.

Qualche tempo fa la Fondazione Feltrinelli ospitò un interessante dibattito tra Lei e Acemoglu che toccò anche il tema marxiano delle “leggi di tendenza” del capitalismo. Alla luce di quel dibattito, Lei definirebbe Acemoglu un “anti-marxista”?

Dal punto di vista metodologico è apertamente avverso a Marx. Acemoglu è convinto che date le specificità istituzionali, politiche e culturali di ciascun paese, non sia possibile ricercare una marxiana “legge di tendenza” del capitalismo che possa risultare valida in senso generale. Per questo Acemoglu ha anche criticato un altro grande economista contemporaneo, Thomas Piketty, che invece sta cercando di riabilitare le “leggi” marxiane... Piketty sostiene che esista una “legge” capitalistica in grado di spiegare la crescita delle disuguaglianze degli ultimi decenni. In poche parole, quando profitti e rendite superano il tasso di crescita del reddito, il risultato è che il capitale cresce più velocemente dei salari. È stata definita la “legge dei ricchi che diventano sempre più ricchi”. Acemoglu però non ci crede. Per lui, anche le disuguaglianze seguono i sentieri specifici delle istituzioni delle diverse nazioni. Per questo, ha sostenuto che Piketty non ha dati sufficienti per ricavare una “legge” di disuguaglianza valida in generale.

Lei però ha dichiarato che Acemoglu si sbaglia...

In un paper scritto in collaborazione con Fabiana De Cristofaro, abbiamo utilizzato la stessa tecnica di analisi di Acemoglu per giungere a un risultato opposto al suo: la “legge” di disuguaglianza di Piketty trova nei dati un riscontro piuttosto ampio. È dura da ammettere, ma Piketty ha qualche ragione a dire che stiamo drammaticamente tornando all’Ottocento narrato da Balzac, quando conveniva impegnarsi per un matrimonio di convenienza piuttosto che lavorare sodo per realizzarsi autonomamente.

E sulla centralizzazione dei capitali in sempre meno mani? Cosa pensa Acemoglu di quest’altra fondamentale “legge di tendenza” marxiana?

Anche qui i dati sono piuttosto eloquenti. Dall’inizio del secolo, oltre l’ottanta per cento del capitale azionario mondiale risulta controllato da una percentuale sempre più piccola di grandi azionisti, ormai al di sotto del due percento. È una tendenza che a mio avviso sta favorendo anche gli attuali fenomeni di “recessione democratica”, con la concentrazione del potere economico che alimenta anche una concentrazione del potere politico in poche mani. Stando alla sua impostazione, Acemoglu avrebbe dovuto contestare pure questa “legge” di tendenza. Invece, messo davanti ai dati, ha riconosciuto che il problema esiste. Un “anti-marxista”, senza dubbio, ma capace di redenzione.

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In memoria del professor Saibaba, comunista indiano

È morto sabato, a cinquantasette anni, il professor Saibaba, intellettuale indiano di spicco sempre al servizio degli oppressi. La sua morte, causata dal peggioramento del suo stato di salute dopo dieci anni di carcere per motivi politici, rattrista profondamente tutti coloro che credono in un mondo migliore.

Proveniente da una famiglia contadina del Telangana, a cinque anni contrae la poliomielite, che lo costringe in sedia a rotelle. Nonostante la malattia, riesce ad andare a scuola (racconterà più volte nelle interviste che sua madre, pur di farlo studiare, lo accompagnava ogni giorno a scuola in braccio) e a laurearsi all’Università di Hyderabad, per poi ottenere una cattedra di inglese alla Delhi University.

Saibaba, però, non è stato solo un docente universitario brillante, ma anche un attivista politico sempre in prima linea, militando nella Radical Students’ Union prima – ai tempi della Mandal Commision e delle lotte per difendere le reservation di Adivasi e Dalit degli anni Novanta – e del Revolutionary Democratic Front (RDF) poi, un’organizzazione messa fuori legge nel 2012 per sospette attività sovversive vicine alle istanze maoiste.

Forte oppositore dell’Operazione Green Hunt, il primo piano del governo indiano per contrastare in modo radicale – con una vera e propria guerra – la guerriglia maoista nell’India centrale, non ha mai temuto di denunciare la violenza dello Stato indiano. Nel 2014 (anno in cui Modi inizia il suo primo mandato) si apre un processo contro di lui per presunti contatti con il Communist Party of India-Maoist che, con fasi alterne, lo terrà nel carcere di Nagpur in una cella di isolamento fino alla sua assoluzione definitiva a marzo 2024.

È un processo profondamente politico, che incarna perfettamente il rafforzamento dell’apparato repressivo dello Stato indiano, con l’applicazione di leggi antiterrorismo quali l’Unlawful Activities (Prevention) Amendment Act (UAPA) del 1967 per incarcerare senza processo e senza prove numerose attiviste e attivisti che si battono contro la predazione di risorse e l’impoverimento di ampie fasce della popolazione (a maggior ragione dopo gli emendamenti del 2019, che hanno reso questa legge ancora più draconiana), sulla cui legittimità le stesse Nazioni Unite hanno sollevato parecchi dubbi[1].

Accusare qualcuno di essere urban naxalite (naxalita urbano) è, infatti, diventato oggi un modo semplice e veloce per reprimere ogni forma di dissenso e attivismo politico. Nel 2017 è di nuovo condannato all’ergastolo, insieme ad altre cinque persone, per poi essere assolto dalla Corte Suprema nel 2022 e rimandato a giudizio dalla Corte di Sessione.

In questi dieci anni il suo stato di salute peggiora notevolmente a causa delle terribili condizioni di detenzione, tanto che dopo la sua assoluzione definitiva e il suo rilascio il 5 marzo 2024 racconta che «Sono vivo per miracolo. Quando sono entrato in carcere, non avevo altri disturbi oltre alla mia disabilità. Ora il mio cuore funziona solo al 55% e sto affrontando complicazioni muscolari. Anche il fegato, la cistifellea e il pancreas sono stati colpiti. La mia mano destra funziona parzialmente. I dottori mi dicono che ora ho bisogno di molte operazioni chirurgiche»[2].

E proprio durante uno di questi interventi, che avrebbero dovuto ripristinare uno stato di salute profondamente provato dalle terribili condizioni detentive, è morto ieri il Professore e Compagno Saibaba.

La sua storia non può non richiamare alla memoria una vicenda simile: quella di Stan Swami, difensore dei diritti degli Adivasi in Jharkhand, arrestato all’età di ottant’anni con l’accusa di presunti legami con i maoisti e rinchiuso per mesi, nonostante fosse già malato di Parkinson e con la pandemia di COVID-19 in atto, fino alla sua morte in carcere a luglio 2021.

Entrambi hanno lottato per una società più giusta e hanno pagato con la vita la scelta di stare dalla parte delle classi subalterne, di credere in un futuro di giustizia sociale per tutte e tutti. Ma se è stata necessaria la loro morte, vuol dire che Modi e il suo partito hanno paura di pensatori liberi come loro, disposti a mettere il cuore e la mente al servizio di tutti gli oppressi.

Raccogliendo la loro eredità, tocca ora a noi continuare a batterci per una società più giusta.

Note

[1] A febbraio e a luglio 2024 l’ONU ha pubblicato alcuni documenti in cui sollevava dubbi sulla legittimità dell’applicazione delle leggi antiterrorismo per reprimere l’attivismo per i diritti umani in India, soprattutto nello Stato del Kashmir e nella regione del Bastar.
https://documents.un.org/doc/undoc/gen/g24/033/44/pdf/g2403344.pdf

https://www.fidh.org/en/region/asia/india/india-un-human-rights-committee-calls-for-protection-of-human-rights

[2] https://timesofindia.indiatimes.com/india/released-from-nagpur-jail-after-a-decade-saibaba-says-its-a-miracle-to-be-alive/articleshow/108311408.cms

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