05/04/2025
La piazza operaia dell’USB denuncia l’emergenza salari e dice no al riarmo
Quando dal palco dell’Usb di piazza SS Apostoli ha preso la parola la madre di Patrizio Spasiano, giovanissimo operaio “morto sul lavoro” perché investito di ammoniaca, tutti hanno compreso che oltre a quelle oltre i confini c’è una guerra interna che fa centinaia di vittime ogni anno: quella sul lavoro, contro la quale i governi recalcitrano, la politica latita e i lavoratori muoiono.
L’assemblea operaia in piazza convocata da tempo dall’Unione Sindacale di Base sull’emergenza bassi salari e lavoro povero – oltre che sul no al riarmo – ha inteso mettere al centro dell’attenzione una questione diventata decisiva per milioni di lavoratrici e lavoratori.
I bassi salari in Italia sono adesso rilevati un po’ da tutti come problema – dai centri studi alle istituzioni preposte – ma se ne guardano bene dall’affrontare la questione. E non ci sono solo i salari fermi ormai da decenni in ogni categoria, ci sono anche i salari divorati dal costo degli affitti e dalla speculazione sulla situazione abitativa che erode quantità insopportabili dei redditi da lavoro. E poi ci sono i salari divorati dalle spese sanitarie dove ormai si deve scegliere se pagare i privati per curarsi o rinunciare alle cure stesse.
“Questo trend ci porterà tra quindi anni a quindici milioni di poveri assoluti e a 22milioni di persona in povertà relativa” ha denunciato Guido Lutrario che ha ricostruito sia il crollo che la disparità dei salari dei lavoratori italiani rispetto agli altri paesi.
E dentro questo contesto i governi dell’Unione Europea intendono spendere 800 miliardi per il riarmo e le spese militari dopo che hanno dissanguato con i tagli alle spese e ai servizi, l’austerità e i vincoli di bilancio intere società per decenni. Sta dentro questa contraddizione la forza dello slogan “Abbassate le armi, alzate i salari” che il sindacato da tre anni evoca in tutte le piazze, le manifestazioni, gli scioperi.
Lo hanno denunciato i molti interventi che si sono alternati dal palco dell’Usb in piazza SS Apostoli. Abbiamo ascoltato intervenire lavoratori e delegati di servizi ormai strategici come i trasporti e la logistica, protagonisti degli scioperi di questi mesi. E poi le fabbriche come la Jabil e i portuali, i dipendenti pubblici e della scuola e quelli ultraprecarizzati delle cooperative sociali e dei multiservizi, gli inquilini che resistono agli sfratti e i movimenti per il diritto all’abitare, i lavoratori della sanità taglieggiati e imbrogliati dalla politica che li ha chiamati eroi nell’emergenza pandemica e poi gli riserva salari e condizioni di lavoro impossibili.
“Perchè i lavoratori dovrebbe essere coinvolti in una guerra che è solo un aspetto della competizione capitalista” è stato dichiarato nelle conclusioni dal palco da Cristiano Fiorentini. Una asserzione che ribadisce che la funzione di un sindacato confederale e conflittuale è quello di difendere gli interessi dei lavoratori ma con questi anche quelli dell’umanità.
Qui sotto tutti gli interventi dell’assemblea operaia in piazza SS Apostoli dell’Usb
Fonte
L’assemblea operaia in piazza convocata da tempo dall’Unione Sindacale di Base sull’emergenza bassi salari e lavoro povero – oltre che sul no al riarmo – ha inteso mettere al centro dell’attenzione una questione diventata decisiva per milioni di lavoratrici e lavoratori.
I bassi salari in Italia sono adesso rilevati un po’ da tutti come problema – dai centri studi alle istituzioni preposte – ma se ne guardano bene dall’affrontare la questione. E non ci sono solo i salari fermi ormai da decenni in ogni categoria, ci sono anche i salari divorati dal costo degli affitti e dalla speculazione sulla situazione abitativa che erode quantità insopportabili dei redditi da lavoro. E poi ci sono i salari divorati dalle spese sanitarie dove ormai si deve scegliere se pagare i privati per curarsi o rinunciare alle cure stesse.
“Questo trend ci porterà tra quindi anni a quindici milioni di poveri assoluti e a 22milioni di persona in povertà relativa” ha denunciato Guido Lutrario che ha ricostruito sia il crollo che la disparità dei salari dei lavoratori italiani rispetto agli altri paesi.
E dentro questo contesto i governi dell’Unione Europea intendono spendere 800 miliardi per il riarmo e le spese militari dopo che hanno dissanguato con i tagli alle spese e ai servizi, l’austerità e i vincoli di bilancio intere società per decenni. Sta dentro questa contraddizione la forza dello slogan “Abbassate le armi, alzate i salari” che il sindacato da tre anni evoca in tutte le piazze, le manifestazioni, gli scioperi.
Lo hanno denunciato i molti interventi che si sono alternati dal palco dell’Usb in piazza SS Apostoli. Abbiamo ascoltato intervenire lavoratori e delegati di servizi ormai strategici come i trasporti e la logistica, protagonisti degli scioperi di questi mesi. E poi le fabbriche come la Jabil e i portuali, i dipendenti pubblici e della scuola e quelli ultraprecarizzati delle cooperative sociali e dei multiservizi, gli inquilini che resistono agli sfratti e i movimenti per il diritto all’abitare, i lavoratori della sanità taglieggiati e imbrogliati dalla politica che li ha chiamati eroi nell’emergenza pandemica e poi gli riserva salari e condizioni di lavoro impossibili.
“Perchè i lavoratori dovrebbe essere coinvolti in una guerra che è solo un aspetto della competizione capitalista” è stato dichiarato nelle conclusioni dal palco da Cristiano Fiorentini. Una asserzione che ribadisce che la funzione di un sindacato confederale e conflittuale è quello di difendere gli interessi dei lavoratori ma con questi anche quelli dell’umanità.
Qui sotto tutti gli interventi dell’assemblea operaia in piazza SS Apostoli dell’Usb
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Migliaia di persone in piazza con il M5S contro il riarmo
Il colpo d’occhio restituisce l’immagine di una manifestazione pienamente riuscita. Almeno 70mila persone (80 mila secondo fonti vicine al M5S) hanno sfilato nel corteo promosso dal M5S da Piazza Vittorio a via dei Fori Imperiali riempiendola da Piazza Madonna di Loreto, dove era stato allestito il palco, fino a largo Corrado Ricci. Si tratta indubbiamente di una delle manifestazioni più grandi degli ultimi anni, che ha surclassato nei numeri quella eurosuprematista di Piazza del Popolo di venti giorni fa.
Gli striscioni di apertura recitano “No al riarmo”; “Basta soldi per le armi, fermiamoli”. È una manifestazione decisamente popolare, con una fortissima presenza di persone venute dal Meridione, a conferma che gran parte dell’insediamento sociale del M5S rimane nel Sud. Ma anche sul piano anagrafico e sociale è ben diversa da quella “europeista” di Serra e La Repubblica. Ci sono molti adulti ma sicuramente meno anziani e benestanti di quelli visti in Piazza del Popolo. Possiamo dire che c’era popolo, anzi “un popolo”, quello pentastellato che ha dato una prova di forza.
La riuscita della manifestazione è indubbiamente un segnale che va messo al positivo, a conferma che nel paese l’opposizione alla guerra e al riarmo ha una sua base di massa che deve trovare una espressione politica, e al momento questa viene individuata nel M5S.
In una netta predominanza di bandiere M5S, tante anche quelle arcobaleno per la pace, nel corteo hanno sfilato i vari spezzoni del movimento. Uno di questi canta Bella Ciao e grida slogan come “fuori i fascisti dallo Stato”.
Più indietro un camioncino diffonde le note di “Give peace a chance” di John Lennon. Colpisce l’articolazione di striscioni e spezzoni su gruppi territoriali di città grandi e piccole, segno che il M5S si è lasciato alle spalle i meetup per strutturarsi sul territorio in modo più stabile. Come dicevamo c’è molto Meridione ma anche lo spezzone M5S della Lombardia era bello nutrito, mentre a chiudere il corteo c’era quello del Friuli.
Sfilano anche le realtà esterne al M5S che hanno scelto di essere in piazza. Il Fronte del Dissenso con uno striscione che invoca “Pace con la Russia, viva la resistenza palestinese”. E poi lo spezzone di Rifondazione Comunista con una grande bandiera della pace e lo striscione “Fuori la guerra dalla storia”. Il PRC questa volta ha fatto uno sforzo con uno spezzone dignitoso, assai più striminzito quello dei Giovani Comunisti.
Sfila poi un bandierone della Palestina a compensare la scarsità di bandiere palestinesi nel corteo, sopperita però da molti slogan come Free Palestine in molti spezzoni anche del M5S. Pochissime – e per fortuna – le bandiere europee anche se una ha continuato a sventolare fastidiosamente davanti all’ex presidente della Camera Roberto Fico mentre interveniva dal palco.
Dal palco del M5S è intervenuto Favio Lotti, organizzatore della marcia per la Pace Perugia-Assisi ma che era presente (non sul palco) anche nella manifestazione eurosuprematista di Piazza del Popolo dello scorso 15 marzo.
Striminzito il gruppo di Avs, poche bandiere e poca gente, praticamente una delegazione più che una partecipazione convinta alla manifestazione. Così come il Pd, senza bandiere ovviamente, che ha inviato una delegazione di parlamentari guidata dal capogruppo Boccia.
“Sono contento che le forze di centrosinistra siamo tutte qui. Stiamo piantando un pilastro solido e fermo per costruire una alternativa di governo” ha dichiarato il presidente del M5S, Giuseppe Conte.
Sfila lo spezzone di una ottantina di persone dell’area di Multipopolare/Ottolina Tv che ha investito molto su questa manifestazione. “Tutti a casa” è il refrain, ma si sente più chiaro e forte il sempreverde – e sempre attuale – “Fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia”. E poi ancora gruppi territoriali del M5S. Colpisce un cartello “Alziamo la testa in Calabria”.
Più indietro ancora c’è lo striscione bilingue “Il popolo russo non è mio nemico”.
Dopo è tutto un continuum di gruppi territoriali del M5S fino a quello friulano che chiudeva il lungo corteo.
Sul piano politico una domanda ci ha ronzato nella testa mentre ci sfilava davanti un grande corteo: ma questa forza non era il caso di gettarla nello scontro politico anche quando il governo ha abolito il reddito di cittadinanza? Era una misura-simbolo del M5S ed era una misura sociale universale contro la povertà dilagante. La prova di forza dimostrata oggi forse ha mancato ad un appuntamento significativo sul piano sociale, quello che in un certo senso veniva indicato come prioritario – insieme al no al riarmo – dalla assemblea operaia dell’Usb nella vicinissima Piazza SS Apostoli (su questo vedi l’articolo in altra parte del giornale).
In secondo luogo la presenza della delegazione del PD alla manifestazione e l’apertura di Conte sulla futura coalizione di governo dichiarata ai giornalisti alla partenza del corteo, ripresentano per il futuro lo stesso incubo della gabbia del bipolarismo degli anni di Prodi e dei governi di centro-sinistra, una gabbia che ha stritolato e annichilito ogni alternativa in nome delle compatibilità, risucchiandone e disgregandone le forze politiche che intendevano rappresentarla. I danni e i costi li stiamo ancora pagando tutti.
La fretta e la superficialità con cui varie forze della sinistra di classe e alternativa si sono gettate nella manifestazione del M5S di oggi, non è un buon segnale sul futuro ma un indicatore di subalternità. Certo la lotta contro la guerra è una priorità e le convergenze per ingaggiarla con successo sono necessarie. Ma è necessario anche darsi delle coordinate ben definite per gestire i vari passaggi e le interlocuzioni delle mobilitazioni. Le manifestazioni, anche quelle riuscite, passano, ma senza prospettiva e indipendenza politica poi non si va da nessuna parte. C’è del tempo per ridefinire le coordinate e aprire la discussione, ma occorre cominciare a farlo. Un primo appuntamento è per domenica 13 aprile a Roma.
Fonte e foto
Gli striscioni di apertura recitano “No al riarmo”; “Basta soldi per le armi, fermiamoli”. È una manifestazione decisamente popolare, con una fortissima presenza di persone venute dal Meridione, a conferma che gran parte dell’insediamento sociale del M5S rimane nel Sud. Ma anche sul piano anagrafico e sociale è ben diversa da quella “europeista” di Serra e La Repubblica. Ci sono molti adulti ma sicuramente meno anziani e benestanti di quelli visti in Piazza del Popolo. Possiamo dire che c’era popolo, anzi “un popolo”, quello pentastellato che ha dato una prova di forza.
La riuscita della manifestazione è indubbiamente un segnale che va messo al positivo, a conferma che nel paese l’opposizione alla guerra e al riarmo ha una sua base di massa che deve trovare una espressione politica, e al momento questa viene individuata nel M5S.
In una netta predominanza di bandiere M5S, tante anche quelle arcobaleno per la pace, nel corteo hanno sfilato i vari spezzoni del movimento. Uno di questi canta Bella Ciao e grida slogan come “fuori i fascisti dallo Stato”.
Più indietro un camioncino diffonde le note di “Give peace a chance” di John Lennon. Colpisce l’articolazione di striscioni e spezzoni su gruppi territoriali di città grandi e piccole, segno che il M5S si è lasciato alle spalle i meetup per strutturarsi sul territorio in modo più stabile. Come dicevamo c’è molto Meridione ma anche lo spezzone M5S della Lombardia era bello nutrito, mentre a chiudere il corteo c’era quello del Friuli.
Sfilano anche le realtà esterne al M5S che hanno scelto di essere in piazza. Il Fronte del Dissenso con uno striscione che invoca “Pace con la Russia, viva la resistenza palestinese”. E poi lo spezzone di Rifondazione Comunista con una grande bandiera della pace e lo striscione “Fuori la guerra dalla storia”. Il PRC questa volta ha fatto uno sforzo con uno spezzone dignitoso, assai più striminzito quello dei Giovani Comunisti.
Sfila poi un bandierone della Palestina a compensare la scarsità di bandiere palestinesi nel corteo, sopperita però da molti slogan come Free Palestine in molti spezzoni anche del M5S. Pochissime – e per fortuna – le bandiere europee anche se una ha continuato a sventolare fastidiosamente davanti all’ex presidente della Camera Roberto Fico mentre interveniva dal palco.
Dal palco del M5S è intervenuto Favio Lotti, organizzatore della marcia per la Pace Perugia-Assisi ma che era presente (non sul palco) anche nella manifestazione eurosuprematista di Piazza del Popolo dello scorso 15 marzo.
Striminzito il gruppo di Avs, poche bandiere e poca gente, praticamente una delegazione più che una partecipazione convinta alla manifestazione. Così come il Pd, senza bandiere ovviamente, che ha inviato una delegazione di parlamentari guidata dal capogruppo Boccia.
“Sono contento che le forze di centrosinistra siamo tutte qui. Stiamo piantando un pilastro solido e fermo per costruire una alternativa di governo” ha dichiarato il presidente del M5S, Giuseppe Conte.
Sfila lo spezzone di una ottantina di persone dell’area di Multipopolare/Ottolina Tv che ha investito molto su questa manifestazione. “Tutti a casa” è il refrain, ma si sente più chiaro e forte il sempreverde – e sempre attuale – “Fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia”. E poi ancora gruppi territoriali del M5S. Colpisce un cartello “Alziamo la testa in Calabria”.
Più indietro ancora c’è lo striscione bilingue “Il popolo russo non è mio nemico”.
Dopo è tutto un continuum di gruppi territoriali del M5S fino a quello friulano che chiudeva il lungo corteo.
Sul piano politico una domanda ci ha ronzato nella testa mentre ci sfilava davanti un grande corteo: ma questa forza non era il caso di gettarla nello scontro politico anche quando il governo ha abolito il reddito di cittadinanza? Era una misura-simbolo del M5S ed era una misura sociale universale contro la povertà dilagante. La prova di forza dimostrata oggi forse ha mancato ad un appuntamento significativo sul piano sociale, quello che in un certo senso veniva indicato come prioritario – insieme al no al riarmo – dalla assemblea operaia dell’Usb nella vicinissima Piazza SS Apostoli (su questo vedi l’articolo in altra parte del giornale).
In secondo luogo la presenza della delegazione del PD alla manifestazione e l’apertura di Conte sulla futura coalizione di governo dichiarata ai giornalisti alla partenza del corteo, ripresentano per il futuro lo stesso incubo della gabbia del bipolarismo degli anni di Prodi e dei governi di centro-sinistra, una gabbia che ha stritolato e annichilito ogni alternativa in nome delle compatibilità, risucchiandone e disgregandone le forze politiche che intendevano rappresentarla. I danni e i costi li stiamo ancora pagando tutti.
La fretta e la superficialità con cui varie forze della sinistra di classe e alternativa si sono gettate nella manifestazione del M5S di oggi, non è un buon segnale sul futuro ma un indicatore di subalternità. Certo la lotta contro la guerra è una priorità e le convergenze per ingaggiarla con successo sono necessarie. Ma è necessario anche darsi delle coordinate ben definite per gestire i vari passaggi e le interlocuzioni delle mobilitazioni. Le manifestazioni, anche quelle riuscite, passano, ma senza prospettiva e indipendenza politica poi non si va da nessuna parte. C’è del tempo per ridefinire le coordinate e aprire la discussione, ma occorre cominciare a farlo. Un primo appuntamento è per domenica 13 aprile a Roma.
Fonte e foto
Approvato il Decreto Sicurezza. L’Italia è uno stato di polizia
Un presidio era stato chiamato ieri pomeriggio in piazza del Pantheon mentre il Senato con un blitz della destra al governo approvava il Decreto Sicurezza. L’iniziativa era stata organizzata dalla “Rete Nazionale a pieno regime” ed aveva chiamato a raccolta movimenti, partiti e sindacati. Presenti alla manifestazione anche esponenti politici di Pd, M5s, Avs, ed anche la Cgil.
Durante la manifestazione contro il Ddl sicurezza, i manifestanti hanno provato ad avanzare in corteo verso i palazzi istituzionali, ma sono stati bloccati dalla polizia che li ha fatti indietreggiare con spintoni e manganellate. Ma alla fine un corteo è riuscito lo stesso a partire dalla piazza.
Il golpe istituzionale compiuto dal governo Meloni, trasformando in Decreto legge il Disegno di legge 1660, indebitamente intitolato alla Sicurezza. In tal modo le destre vogliono dotarsi di più efficace strumentazione repressiva per fronteggiare le crescenti proteste contro il riarmo e la guerra. L’Italia è sempre meno una democrazia e sempre più uno stato di polizia governato da ristrette oligarchie antipopolari e guerrafondaie che devono ricorrere al manganello per imporre le proprie scelte catastrofiche.
Fonte
Durante la manifestazione contro il Ddl sicurezza, i manifestanti hanno provato ad avanzare in corteo verso i palazzi istituzionali, ma sono stati bloccati dalla polizia che li ha fatti indietreggiare con spintoni e manganellate. Ma alla fine un corteo è riuscito lo stesso a partire dalla piazza.
Il golpe istituzionale compiuto dal governo Meloni, trasformando in Decreto legge il Disegno di legge 1660, indebitamente intitolato alla Sicurezza. In tal modo le destre vogliono dotarsi di più efficace strumentazione repressiva per fronteggiare le crescenti proteste contro il riarmo e la guerra. L’Italia è sempre meno una democrazia e sempre più uno stato di polizia governato da ristrette oligarchie antipopolari e guerrafondaie che devono ricorrere al manganello per imporre le proprie scelte catastrofiche.
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Un nuovo corridoio commerciale tra Pacifico e Atlantico in Messico?
Il primo aprile la presidente del Messico, Claudia Sheinbaum, ha annunciato che è stata completata la prima spedizione transoceanica attraverso l’istmo di Tehuantepec. “È un progetto eccezionale – ha detto la politica – che fornisce un’alternativa al Canale di Panama e, una volta completato, sarà molto più trafficato”.
Lo diciamo subito: notizie e dichiarazioni come queste vanno pesate bene, perché politicamente e giornalisticamente garantiscono molta visibilità, tanto più in una condizione di aperta guerra commerciale come quella in cui ci troviamo oggi, dopo i nuovi dazi statunitensi. Bisogna però capire bene di cosa stiamo parlando.
Il progetto in questione è il Corridoio Interoceanico dell’Istmo di Tehuantepec (CIIT), non una via d’acqua come il Canale di Panama, ma un collegamento su rotaia. Un doppio binario lungo 300 chilometri, attraverso cui treni ad alta velocità dovrebbe connettere i porti di Coatzacoalcos, sull’Atlantico, e quello di Salina Cruz, sul Pacifico.
La spedizione appena conclusa ha riguardato 600 veicoli Hyunday che dall’Estremo Oriente sono passati al Golfo del Messico in 8 ore. Come ha ricordato Sheinbaum, vi sono ancora molti lavori da effettuare al porto di Salina Cruz, così come deve essere potenziata tutta la linea ferroviaria per raggiungere l’obiettivo del passaggio da un oceano all’altro in sole 3 ore.
Il guadagno di tempo previsto rispetto al passaggio per il Canale di Panama ha attirato molto interesse: ricordiamo che per attraversare quella via d’acqua le navi impiegano 8 ore, con tempi di attesa che possono arrivare fino a due settimane. Ma è anche necessario osservare quali sono i lati negativi.
Mentre le navi porta container passano direttamente attraverso il Canale di Panama, le merci che arrivano ai due porti messicani (o a terminali ad essi vicini) devono essere trasferiti sui vagoni, per essere poi nuovamente riportati in container per il trasporto marittimo. Una serie di operazioni non solo complesse quando si tratta di milioni di tonnellate, ma che richiedono anche tempo.
Anche nel caso in cui si possa garantire questo tipo di attività, bisogna poi vedere quanto tonnellaggio può effettivamente passare per il CIIT. Si prevede una capacità intorno alle 300 mila tonnellate al giorno, e dunque, calcolatrice alla mano, ci si può aspettare che per questa nuova via messicana possano passare oltre 100 milioni di tonnellate di merci l’anno.
Può sembrare tantissimo, ed effettivamente lo è, ma non abbastanza da poter sostituire il Canale di Panama, tantomeno da risultare “più trafficato“, come ha detto Sheinbaum. Nel 2021, per il corridoio panamense, sono transitate 516 milioni di tonnellate: anche prendendo a riferimento anni meno eccezionali, parliamo di capacità ben differenti.
Nel 2016 è stato inaugurato il secondo Canale di Panama, parallelo a quello costruito oltre un secolo fa. A realizzare l’immensa opera è stato un consorzio guidato dall’italiana Webuild. Attraverso questo secondo canale, possono ormai passare la maggior parte delle navi per il trasporto marittimo.
Il ruolo insostituibile del percorso panamense è evidente. Possiamo però aggiungere qualche altro elemento che può aiutare a capire come mai il CIIT è un complesso di infrastrutture che va tenuto d’occhio. Non solo, ovviamente, per il fatto di poter comunque assorbire una grossa fetta del commercio mondiale, che forse subirà anche una battuta d’arresto con i dazi di Trump.
Innanzitutto, è interessante perché non è l’unica via che sta venendo posta come alternativa al Canale di Panama, in una fase in cui è netto lo scontro tra Washington e Pechino per il controllo, o almeno il mantenimento di una leva importante su questo snodo fondamentale. La Cina ha stretto importanti accordi col Perù per ciò che riguarda il porto di Chancay.
Il terminale peruviano potrebbe offrire un’importante punto di collegamento tra il mercato cinese e quello dell’America Latina. Allo stesso modo, quello messicano potrebbe svolgere una funzione simile, ma in questo caso è importante fare chiarezza sul fatto di chi, ad oggi, ha mostrato interesse per il CIIT.
La prima spedizione che vi è passata è stata di auto sudcoreane dirette a New York. Nel 2022, l’ambasciatore statunitense in Messico, Ken Salazar, ha espresso grandi aspettative per i progetti che si collegano al CIIT, e lo stesso hanno fatto altri importanti esponenti dell’allora amministrazione Biden.
Il CIIT, infatti, non si concretizza unicamente nel collegamento tra i due oceani. Su questa nuova via si vogliono creare dieci grandi poli industriali, collegandoli poi attraverso il Tren Maya allo Yucatan e attraverso altre infrastrutture anche al Chapas. Non a caso, negli anni questo progetto ha visto una forte opposizione delle comunità zapatiste.
Parliamo di un’ondata di industrializzazione (che porta con sé gasdotti, autostrade, e così via) che vorrebbe approfittare di manodopera a basso costo e importanti risorse naturali. Ciò, per Washington, avrebbe la doppia attrattiva di limitare l’immigrazione messicana e allo stesso tempo di avere un luogo vicino dove operare il reshoring di alcune filiere.
Certo, nel frattempo le contraddizioni del capitale hanno macinato terreno, anche sul piano delle politiche estere. Prima l’ex presidente messicano Obrador ha nazionalizzato il litio del suo paese, poi Trump ha innescato un vero e proprio terremoto con i dazi e ha intrattenuto scambi non pacifici con Sheinbaum.
Ciò significa che il Messico potrebbe considerare più conveniente l’opportunità di cercare non nel paese che confina a nord, ma in altri attori gli investimenti necessari a completare questo pur contraddittorio programma commerciale e industriale. Qui si entra nella “osteria dell’avvenire”, e non ha senso continuare oltre.
E tuttavia, è indubbio che il CIIT esprime una volta di più le forti tensioni della competizione globale e si candida a essere, seppur non a breve termine e sempre che venga portato a termine, come un altro elemento che si inserirà non senza peso nella dinamica di frammentazione del mercato mondiale.
Fonte
Lo diciamo subito: notizie e dichiarazioni come queste vanno pesate bene, perché politicamente e giornalisticamente garantiscono molta visibilità, tanto più in una condizione di aperta guerra commerciale come quella in cui ci troviamo oggi, dopo i nuovi dazi statunitensi. Bisogna però capire bene di cosa stiamo parlando.
Il progetto in questione è il Corridoio Interoceanico dell’Istmo di Tehuantepec (CIIT), non una via d’acqua come il Canale di Panama, ma un collegamento su rotaia. Un doppio binario lungo 300 chilometri, attraverso cui treni ad alta velocità dovrebbe connettere i porti di Coatzacoalcos, sull’Atlantico, e quello di Salina Cruz, sul Pacifico.
La spedizione appena conclusa ha riguardato 600 veicoli Hyunday che dall’Estremo Oriente sono passati al Golfo del Messico in 8 ore. Come ha ricordato Sheinbaum, vi sono ancora molti lavori da effettuare al porto di Salina Cruz, così come deve essere potenziata tutta la linea ferroviaria per raggiungere l’obiettivo del passaggio da un oceano all’altro in sole 3 ore.
Il guadagno di tempo previsto rispetto al passaggio per il Canale di Panama ha attirato molto interesse: ricordiamo che per attraversare quella via d’acqua le navi impiegano 8 ore, con tempi di attesa che possono arrivare fino a due settimane. Ma è anche necessario osservare quali sono i lati negativi.
Mentre le navi porta container passano direttamente attraverso il Canale di Panama, le merci che arrivano ai due porti messicani (o a terminali ad essi vicini) devono essere trasferiti sui vagoni, per essere poi nuovamente riportati in container per il trasporto marittimo. Una serie di operazioni non solo complesse quando si tratta di milioni di tonnellate, ma che richiedono anche tempo.
Anche nel caso in cui si possa garantire questo tipo di attività, bisogna poi vedere quanto tonnellaggio può effettivamente passare per il CIIT. Si prevede una capacità intorno alle 300 mila tonnellate al giorno, e dunque, calcolatrice alla mano, ci si può aspettare che per questa nuova via messicana possano passare oltre 100 milioni di tonnellate di merci l’anno.
Può sembrare tantissimo, ed effettivamente lo è, ma non abbastanza da poter sostituire il Canale di Panama, tantomeno da risultare “più trafficato“, come ha detto Sheinbaum. Nel 2021, per il corridoio panamense, sono transitate 516 milioni di tonnellate: anche prendendo a riferimento anni meno eccezionali, parliamo di capacità ben differenti.
Nel 2016 è stato inaugurato il secondo Canale di Panama, parallelo a quello costruito oltre un secolo fa. A realizzare l’immensa opera è stato un consorzio guidato dall’italiana Webuild. Attraverso questo secondo canale, possono ormai passare la maggior parte delle navi per il trasporto marittimo.
Il ruolo insostituibile del percorso panamense è evidente. Possiamo però aggiungere qualche altro elemento che può aiutare a capire come mai il CIIT è un complesso di infrastrutture che va tenuto d’occhio. Non solo, ovviamente, per il fatto di poter comunque assorbire una grossa fetta del commercio mondiale, che forse subirà anche una battuta d’arresto con i dazi di Trump.
Innanzitutto, è interessante perché non è l’unica via che sta venendo posta come alternativa al Canale di Panama, in una fase in cui è netto lo scontro tra Washington e Pechino per il controllo, o almeno il mantenimento di una leva importante su questo snodo fondamentale. La Cina ha stretto importanti accordi col Perù per ciò che riguarda il porto di Chancay.
Il terminale peruviano potrebbe offrire un’importante punto di collegamento tra il mercato cinese e quello dell’America Latina. Allo stesso modo, quello messicano potrebbe svolgere una funzione simile, ma in questo caso è importante fare chiarezza sul fatto di chi, ad oggi, ha mostrato interesse per il CIIT.
La prima spedizione che vi è passata è stata di auto sudcoreane dirette a New York. Nel 2022, l’ambasciatore statunitense in Messico, Ken Salazar, ha espresso grandi aspettative per i progetti che si collegano al CIIT, e lo stesso hanno fatto altri importanti esponenti dell’allora amministrazione Biden.
Il CIIT, infatti, non si concretizza unicamente nel collegamento tra i due oceani. Su questa nuova via si vogliono creare dieci grandi poli industriali, collegandoli poi attraverso il Tren Maya allo Yucatan e attraverso altre infrastrutture anche al Chapas. Non a caso, negli anni questo progetto ha visto una forte opposizione delle comunità zapatiste.
Parliamo di un’ondata di industrializzazione (che porta con sé gasdotti, autostrade, e così via) che vorrebbe approfittare di manodopera a basso costo e importanti risorse naturali. Ciò, per Washington, avrebbe la doppia attrattiva di limitare l’immigrazione messicana e allo stesso tempo di avere un luogo vicino dove operare il reshoring di alcune filiere.
Certo, nel frattempo le contraddizioni del capitale hanno macinato terreno, anche sul piano delle politiche estere. Prima l’ex presidente messicano Obrador ha nazionalizzato il litio del suo paese, poi Trump ha innescato un vero e proprio terremoto con i dazi e ha intrattenuto scambi non pacifici con Sheinbaum.
Ciò significa che il Messico potrebbe considerare più conveniente l’opportunità di cercare non nel paese che confina a nord, ma in altri attori gli investimenti necessari a completare questo pur contraddittorio programma commerciale e industriale. Qui si entra nella “osteria dell’avvenire”, e non ha senso continuare oltre.
E tuttavia, è indubbio che il CIIT esprime una volta di più le forti tensioni della competizione globale e si candida a essere, seppur non a breve termine e sempre che venga portato a termine, come un altro elemento che si inserirà non senza peso nella dinamica di frammentazione del mercato mondiale.
Fonte
Istat: pressione fiscale in aumento, redditi e potere d’acquisto in calo
Qualche giorno fa il governo si è vantato dei risultati raggiunti sull’occupazione, anche se è stato piuttosto facile smontare la sua spicciola propaganda che nasconde un modello dilagante di lavoro precario e sottopagato. Ieri, invece, l’Istat ha diffuso dei dati non sorprendentemente passati sotto silenzio.
Infatti, l’istituto di statistica ha certificato che la pressione fiscale nell’ultimo quadrimestre del 2024 è stata pari al 50,6% del PIL, in aumento dell’1,5% rispetto allo stesso periodo del 2023. Calcolandola su tutto l’anno appena trascorso, la pressione fiscale si attesta al 42,6%, rispetto al 41,4% del 2023.
Il dato è dello 0,3% più alto rispetto a quanto scritto nel Piano Strutturale di Bilancio. Qualcosa di cui andrà contenta Bruxelles, ma di certo non qualcosa di cui può andare fiero un governo in cui un po’ tutti non fanno che ribadire la necessità di ridurre le tasse per far ripartire l’economia.
Inoltre, non possono nemmeno giustifica questo aumento della pressione fiscale con l’erogazione di nuovi servizi e l’aumento della spesa pubblica, perché è avvenuto esattamente il contrario. Le entrate del quarto trimestre del 2024 ammontano al 55,4% del PIL, in leggero aumento rispetto allo stesso periodo del 2023.
Eppure, come scrive l’Istat, “per la prima volta dal quarto trimestre del 2019, nel quarto trimestre 2024 le AP [Amministrazioni Pubbliche, ndr] hanno registrato un accreditamento netto a seguito di un sostanziale contenimento della spesa rispetto all’incremento delle entrate”.
Sia il saldo primario (al netto degli interessi passivi) sia quello corrente sono in positivo negli ultimi tre mesi dello scorso anno: segnano un’incidenza sul PIL rispettivamente del 4,1% e del 5,9%. Insomma, piena austerità, mentre l’incertezza e le difficoltà continuano a macinare terreno nella vita di tutti i giorni della maggioranza della popolazione.
Il reddito disponibile delle famiglie è diminuito dello 0,1% rispetto al trimestre precedente e il potere d’acquisto dello 0,6%. Anche la propensione al risparmio è passata dal 9,1% del terzo trimestre all’8,5% del quarto trimestre 2024. Tale riduzione deriva dalla crescita della spesa per consumi finali e dalla flessione del reddito disponibile.
“Il reddito disponibile delle famiglie – scrive l’Istat sul suo sito – è diminuito rispetto al trimestre precedente sia in termini nominali (non succedeva dall’ultimo trimestre del 2020) sia, più marcatamente, in termini reali”. Ci stiamo impoverendo, e ciò impatta pesantemente anche nel momento della spesa.
Infatti, per quanto riguarda i consumi, i dati sulle vendite al dettaglio di febbraio parlano di una stima di un leggero aumento delle vendite in valore (+0,1%), rimaste stazionarie per quanto riguarda il volume. Il che significa che, sostanzialmente, si è speso di più per comprare le stesse cose. Su base annua sono addirittura diminuite, sia in valore sia in volume.
Al solito, l’Unione nazionale consumatori ha denunciato la “cura dimagrante” a cui sono sottoposti gli italiani, soprattutto per quanto riguarda il crollo delle vendite alimentari. Di questo, ovviamente, il governo non fa menzione.
Fonte
Infatti, l’istituto di statistica ha certificato che la pressione fiscale nell’ultimo quadrimestre del 2024 è stata pari al 50,6% del PIL, in aumento dell’1,5% rispetto allo stesso periodo del 2023. Calcolandola su tutto l’anno appena trascorso, la pressione fiscale si attesta al 42,6%, rispetto al 41,4% del 2023.
Il dato è dello 0,3% più alto rispetto a quanto scritto nel Piano Strutturale di Bilancio. Qualcosa di cui andrà contenta Bruxelles, ma di certo non qualcosa di cui può andare fiero un governo in cui un po’ tutti non fanno che ribadire la necessità di ridurre le tasse per far ripartire l’economia.
Inoltre, non possono nemmeno giustifica questo aumento della pressione fiscale con l’erogazione di nuovi servizi e l’aumento della spesa pubblica, perché è avvenuto esattamente il contrario. Le entrate del quarto trimestre del 2024 ammontano al 55,4% del PIL, in leggero aumento rispetto allo stesso periodo del 2023.
Eppure, come scrive l’Istat, “per la prima volta dal quarto trimestre del 2019, nel quarto trimestre 2024 le AP [Amministrazioni Pubbliche, ndr] hanno registrato un accreditamento netto a seguito di un sostanziale contenimento della spesa rispetto all’incremento delle entrate”.
Sia il saldo primario (al netto degli interessi passivi) sia quello corrente sono in positivo negli ultimi tre mesi dello scorso anno: segnano un’incidenza sul PIL rispettivamente del 4,1% e del 5,9%. Insomma, piena austerità, mentre l’incertezza e le difficoltà continuano a macinare terreno nella vita di tutti i giorni della maggioranza della popolazione.
Il reddito disponibile delle famiglie è diminuito dello 0,1% rispetto al trimestre precedente e il potere d’acquisto dello 0,6%. Anche la propensione al risparmio è passata dal 9,1% del terzo trimestre all’8,5% del quarto trimestre 2024. Tale riduzione deriva dalla crescita della spesa per consumi finali e dalla flessione del reddito disponibile.
“Il reddito disponibile delle famiglie – scrive l’Istat sul suo sito – è diminuito rispetto al trimestre precedente sia in termini nominali (non succedeva dall’ultimo trimestre del 2020) sia, più marcatamente, in termini reali”. Ci stiamo impoverendo, e ciò impatta pesantemente anche nel momento della spesa.
Infatti, per quanto riguarda i consumi, i dati sulle vendite al dettaglio di febbraio parlano di una stima di un leggero aumento delle vendite in valore (+0,1%), rimaste stazionarie per quanto riguarda il volume. Il che significa che, sostanzialmente, si è speso di più per comprare le stesse cose. Su base annua sono addirittura diminuite, sia in valore sia in volume.
Al solito, l’Unione nazionale consumatori ha denunciato la “cura dimagrante” a cui sono sottoposti gli italiani, soprattutto per quanto riguarda il crollo delle vendite alimentari. Di questo, ovviamente, il governo non fa menzione.
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04/04/2025
Trump ha appena graziato... una società?
Tra i numerosi perdoni concessi la scorsa settimana dal presidente Donald Trump a criminali in colletti bianchi, un nome che è largamente sfuggito all’attenzione non apparteneva affatto a una persona.
In quello che potrebbe essere un precedente storico, Trump ha graziato una società. L’azienda a ricevere questo riconoscimento è stata un exchange di criptovalute condannata a una multa da 100 milioni di dollari per violazione della normativa antiriciclaggio.
La mossa ha sorpreso gli studiosi dei perdoni presidenziali, tradizionalmente considerati appannaggio di esseri umani. Diversi esperti interpellati da The Intercept hanno affermato che Trump sembra aver agito nei suoi poteri, ma non erano a conoscenza di precedenti di grazia completa concessa a società.
“Ci sono stati molti casi in cui i presidenti hanno condonato multe, confische o simili”, ha detto Margaret Love, che è stata avvocato per i perdoni presidenziali dal 1990 al 1997. “Per quanto ne so, il presidente non ha mai concesso un perdono completo a una società”.
Un critico di lunga data dell’approccio indulgente del governo federale ai crimini societari ha affermato che il perdono di Trump manda un messaggio pericoloso.
“Mettere sul tavolo i perdoni societari rafforza il potere corrotto e autoritario di Trump sulle aziende”, ha detto Rick Claypool, direttore della ricerca per l’ufficio del presidente del gruppo di difesa dei consumatori Public Citizen. “Questo potrebbe scatenare un frenetico lobbying da parte di qualsiasi società che abbia affrontato azioni federali”.
Il perdono di Trump a HDR Global Trading, proprietaria dell’exchange BitMEX, è stato emesso contemporaneamente a quelli per tre co-fondatori e un dipendente della società.
Come le persone, anche le società possono essere condannate per reati. Pur non potendo finire in prigione, possono affrontare multe e gravi conseguenze come l’esclusione dagli appalti federali.
La società e i quattro dipendenti, incluso l’influente promotore di Bitcoin Arthur Hayes, si sono dichiarati colpevoli di violazione del Bank Secrecy Act, che impone alle aziende di adottare misure antiriciclaggio.
I pubblici ministeri hanno affermato che la società fingeva di ritirarsi dal mercato statunitense per eludere la legge, sapendo che si trattava di una “farsa”, arrivando persino a reclutare influencer americani per promuovere la piattaforma.
HDR Global Trading è registrata alle Seychelles, nazione insulare dell’Oceano Indiano considerata paradiso fiscale dal Tax Justice Network.
La società si è dichiarata colpevole lo scorso luglio. Due mesi fa, un giudice federale l’ha condannata a 100 milioni di dollari di multa e due anni di libertà vigilata. La multa avrebbe dovuto essere pagata entro 60 giorni dalla registrazione della sentenza. La società ha dichiarato di non averla pagata prima del perdono. Il tempismo del perdono di Trump ha permesso all’azienda di evitare la scadenza con poche ore di anticipo.
BitMEX afferma di continuare a vietare l’accesso ai cittadini statunitensi. In una nota, la società ha ringraziato Trump: “Continueremo a essere l’exchange di derivati crittografici più sicuro, affidabile e professionale, con nuovi prodotti mensili per i nostri utenti”.
Gli studiosi precisano che se la multa fosse stata pagata, non sarebbe stata rimborsata. Un precedente della Corte Suprema del 1877 stabilisce che il potere di grazia presidenziale “non può toccare i fondi del tesoro statunitense, salvo espressa autorizzazione del Congresso”.
BitMEX non è stata l’unica azienda a ricevere clemenza. Venerdì Trump ha revocato la libertà vigilata a Ozy Media, piattaforma crollata per accuse di frode al fondatore Carlos Watson due anni fa, esentandola anche da multe e risarcimenti.
I poteri di Trump
Gli esperti confermano che Trump era nei suoi diritti: “È chiaro che il presidente può graziare società. Il potere si estende a qualsiasi entità condannabile”, ha detto Frank Bowman, professore di diritto all’Università del Missouri.
Tuttavia, pur ricordando condoni aziendali fin dall’Ottocento, gli esperti faticano a trovare precedenti di grazia completa. La prima richiesta nota risale al 1975, respinta da Gerald Ford. Secondo l’ex avvocato del DOJ Sam Morison, Richard Nixon commutò la pena a un’altra società.
Per la professoressa Bernadette Meyler di Stanford, il perdono richiama la sentenza Citizens United: “Pur equiparando le società a persone in altri ambiti, non si era visto nel diritto di grazia”.
Un precedente preoccupante?
Pur riconoscendo la legittimità, molti osservatori esprimono preoccupazione. Claypool evidenzia i legami tra l’amministrazione Trump e l’industria crypto, già beneficiaria di 14 archiviazioni. “Il messaggio è chiaro: se operi in settori favoriti, puoi violare la legge impunemente”, ha detto.
Brandon Garrett, professore alla Duke University, vede nel perdono parte di un più ampio ridimensionamento della lotta ai crimini societari sotto Trump, citando la sospensione dell’Foreign Corrupt Practices Act.
Bowman non è allarmato dal perdono in sé, ma dal modello: “Trump sta graziando aziende indiscriminatamente, senza valutare i meriti o le implicazioni politiche”.
Morison prevede un aumento delle richieste di clemenza, notando che un’azienda esclusa dai benefici è la Trump Organization, condannata a livello statale per frode fiscale: “Trump non può graziare la propria società. Altrimenti l’avrebbe fatto”.
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In quello che potrebbe essere un precedente storico, Trump ha graziato una società. L’azienda a ricevere questo riconoscimento è stata un exchange di criptovalute condannata a una multa da 100 milioni di dollari per violazione della normativa antiriciclaggio.
La mossa ha sorpreso gli studiosi dei perdoni presidenziali, tradizionalmente considerati appannaggio di esseri umani. Diversi esperti interpellati da The Intercept hanno affermato che Trump sembra aver agito nei suoi poteri, ma non erano a conoscenza di precedenti di grazia completa concessa a società.
“Ci sono stati molti casi in cui i presidenti hanno condonato multe, confische o simili”, ha detto Margaret Love, che è stata avvocato per i perdoni presidenziali dal 1990 al 1997. “Per quanto ne so, il presidente non ha mai concesso un perdono completo a una società”.
Un critico di lunga data dell’approccio indulgente del governo federale ai crimini societari ha affermato che il perdono di Trump manda un messaggio pericoloso.
“Mettere sul tavolo i perdoni societari rafforza il potere corrotto e autoritario di Trump sulle aziende”, ha detto Rick Claypool, direttore della ricerca per l’ufficio del presidente del gruppo di difesa dei consumatori Public Citizen. “Questo potrebbe scatenare un frenetico lobbying da parte di qualsiasi società che abbia affrontato azioni federali”.
Il perdono di Trump a HDR Global Trading, proprietaria dell’exchange BitMEX, è stato emesso contemporaneamente a quelli per tre co-fondatori e un dipendente della società.
Come le persone, anche le società possono essere condannate per reati. Pur non potendo finire in prigione, possono affrontare multe e gravi conseguenze come l’esclusione dagli appalti federali.
La società e i quattro dipendenti, incluso l’influente promotore di Bitcoin Arthur Hayes, si sono dichiarati colpevoli di violazione del Bank Secrecy Act, che impone alle aziende di adottare misure antiriciclaggio.
I pubblici ministeri hanno affermato che la società fingeva di ritirarsi dal mercato statunitense per eludere la legge, sapendo che si trattava di una “farsa”, arrivando persino a reclutare influencer americani per promuovere la piattaforma.
HDR Global Trading è registrata alle Seychelles, nazione insulare dell’Oceano Indiano considerata paradiso fiscale dal Tax Justice Network.
La società si è dichiarata colpevole lo scorso luglio. Due mesi fa, un giudice federale l’ha condannata a 100 milioni di dollari di multa e due anni di libertà vigilata. La multa avrebbe dovuto essere pagata entro 60 giorni dalla registrazione della sentenza. La società ha dichiarato di non averla pagata prima del perdono. Il tempismo del perdono di Trump ha permesso all’azienda di evitare la scadenza con poche ore di anticipo.
BitMEX afferma di continuare a vietare l’accesso ai cittadini statunitensi. In una nota, la società ha ringraziato Trump: “Continueremo a essere l’exchange di derivati crittografici più sicuro, affidabile e professionale, con nuovi prodotti mensili per i nostri utenti”.
Gli studiosi precisano che se la multa fosse stata pagata, non sarebbe stata rimborsata. Un precedente della Corte Suprema del 1877 stabilisce che il potere di grazia presidenziale “non può toccare i fondi del tesoro statunitense, salvo espressa autorizzazione del Congresso”.
BitMEX non è stata l’unica azienda a ricevere clemenza. Venerdì Trump ha revocato la libertà vigilata a Ozy Media, piattaforma crollata per accuse di frode al fondatore Carlos Watson due anni fa, esentandola anche da multe e risarcimenti.
I poteri di Trump
Gli esperti confermano che Trump era nei suoi diritti: “È chiaro che il presidente può graziare società. Il potere si estende a qualsiasi entità condannabile”, ha detto Frank Bowman, professore di diritto all’Università del Missouri.
Tuttavia, pur ricordando condoni aziendali fin dall’Ottocento, gli esperti faticano a trovare precedenti di grazia completa. La prima richiesta nota risale al 1975, respinta da Gerald Ford. Secondo l’ex avvocato del DOJ Sam Morison, Richard Nixon commutò la pena a un’altra società.
Per la professoressa Bernadette Meyler di Stanford, il perdono richiama la sentenza Citizens United: “Pur equiparando le società a persone in altri ambiti, non si era visto nel diritto di grazia”.
Un precedente preoccupante?
Pur riconoscendo la legittimità, molti osservatori esprimono preoccupazione. Claypool evidenzia i legami tra l’amministrazione Trump e l’industria crypto, già beneficiaria di 14 archiviazioni. “Il messaggio è chiaro: se operi in settori favoriti, puoi violare la legge impunemente”, ha detto.
Brandon Garrett, professore alla Duke University, vede nel perdono parte di un più ampio ridimensionamento della lotta ai crimini societari sotto Trump, citando la sospensione dell’Foreign Corrupt Practices Act.
Bowman non è allarmato dal perdono in sé, ma dal modello: “Trump sta graziando aziende indiscriminatamente, senza valutare i meriti o le implicazioni politiche”.
Morison prevede un aumento delle richieste di clemenza, notando che un’azienda esclusa dai benefici è la Trump Organization, condannata a livello statale per frode fiscale: “Trump non può graziare la propria società. Altrimenti l’avrebbe fatto”.
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