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13/05/2025

Papa Robert Francis Prevost, un Leone antico per nuovi ponti

di Geraldina Colotti

Dopo l’elezione del cardinal Robert Francis Prevost a papa n. 267 con il nome di Leone XIV, dal Perù è arrivata l’immediata rivendicazione della sua doppia nazionalità – statunitense e peruviana –, la seconda acquisita nel 2015. E, subito, si è scatenata anche la creatività della rete sull’elezione di un papa “più latinoamericano del debito estero”; sull’aggiunta di un nuovo tipo di “papa” (patata) a quelle esistenti, e con tanto di accostamento giornalistico fra Chicago (sua città di origine, negli Stati uniti), e Chiclayo, la diocesi peruviana di cui fu amministratore apostolico. In Perù, dove ha vissuto per circa due decenni, Prevost è stato nominato vescovo dal suo predecessore argentino, Jorge Bergoglio, da poco scomparso, e ha poi svolto importanti incarichi in ruoli delicati e decisivi della Curia.

Un altro “meme”, ha sintetizzato così la scelta del Vaticano, presa in soli tre giorni di Conclave, giunta alla quarta votazione dei 133 cardinali e dopo tre fumate nere (e con oltre 100 voti, si dice, totalizzati): “Il nuovo papa è yankee, nazionalizzato peruviano e... anti Trump”. Quanto sarà distante dal “presidente più potente al mondo”, il pastore di un “gregge” di 1.400 milioni di cattolici nel mondo, e a capo di un patrimonio stimato (nel 2023) a 5,4 miliardi di euro solo per quanto riguarda l’attività dell’Istituto per le Opere di Religione (Ior), ovvero la Banca Vaticana, si vedrà nel corso del suo pontificato, e nell’evoluzione globale di quella che Francisco ha definito “la Terza guerra mondiale a pezzi”.

Intanto, è circolata con insistenza la notizia – non confermata dal Vaticano – di una donazione di 14 milioni di dollari, che Trump avrebbe potuto elargire, durante la sua visita a Roma per i funerali di Bergoglio, in caso di elezione di un papa Usa. Un’offerta consistente, considerando il deficit di bilancio della Santa sede, valutato a oltre 70 milioni di euro. Una “donazione” che avrebbe potuto aumentare, pare abbia lasciato intendere l’ottantina di super-ricchi che, all’interno di una moltitudine di fedeli (e turisti) ha accompagnato la delegazione trumpista alle esequie bergogliane: addirittura fino a un miliardo di euro.

Dopo la diffusione dell’immagine di Trump in abiti papali, nonostante non sia passata la linea cardinalizia più reazionaria che a lui si rifà in Vaticano, capeggiata dall’arcivescovo di New York, Timothy Dolan, e dall’ultra-tradizionalista, Raymond Burke, che si è spesso scontrato con il papa argentino, il tycoon si è fatto sentire con nuove dichiarazioni altrettanto roboanti, ma dai toni insoliti, apparentemente “fuori linea” rispetto a se stesso: si è detto molto emozionato e molto onorato per la nomina “del primo papa americano”, e altrettanto desideroso di incontrarlo. A compensare i suoi toni conciliatori, avevano pensato, prima, le sue teste di ponte, capitanate da Steve Bannon, che aveva definito la scelta cardinalizia la peggiore per i cattolici Maga. E già commentatori e politici Maga avevano messo all’indice le posizioni progressiste espresse da Prevost sul movimento Black Lives Matters, o contro la guerra e la legge Muslim Ban, voluto da Trump contro la popolazione di fede islamica.

Ma poi, nelle parole di Trump devono aver pesato i dati dei primi 100 giorni della sua gestione, forieri più di recessione e incertezza che di una nuova miracolosa “età dell’oro” vaticinata dal tycoon. In vista delle elezioni di medio termine (il 3 novembre del 2026), il presidente Usa deve anche aver considerato la consistenza del voto cattolico in diversi collegi elettorali, e quella di un episcopato per lo più di orientamento repubblicano, ma in conflitto al suo interno.

Così, per ora, il tycoon non sembra voler dirigere su questo fronte i suoi strali più potenti, come aveva fatto contro il papa argentino durante il suo primo mandato, definendo “vergognose” le posizioni del pontefice sui migranti e sulla giustizia sociale. D’altro canto, pur essendo buona norma non sovrapporre in modo meccanico le dinamiche politiche a quelle di una istituzione vecchia di secoli, com’è il Vaticano, che risponde a logiche intrinseche e a proprie lotte di potere, si può notare che il conclave sembra aver recepito la necessità di un “papa giusto”, in grado di riassestare la scossa: un progressista moderato che – è stato fatto notare, riprendendo le schede elettorali alle primarie, che implicano l’indicazione del partito per cui si vota – ha scelto alternativamente il partito Repubblicano o i Democratici.

Una figura-ponte (parola ripetuta più volte nel primo discorso di papa Prevost), in grado di riportare la dottrina e le azioni della Chiesa su binari meno accidentati: soprattutto rispetto al tema dei “diritti civili”, un dibattito che divide, a Chicago come a Chiclayo, negli Stati Uniti, in Europa, e nel Sud globale. In Perù, il quarto paese al mondo per numero di cattolici, dopo Brasile, Messico e Filippine, anche nel campo di chi si batte per la giustizia sociale, si punta il dito contro la “gauche caviar”, quella sinistra soft che, sul modello liberal europeo, mostrerebbe più impegno nel sostenere le libertà civili che i diritti elementari.

Nel continente latinoamericano, il fronte del “socialismo del secolo XXI”, ha salutato con parole di speranza il nuovo papa, figlio delle due Americhe, e con ascendenze europee. In molti ne hanno messo in luce la polemica con il vicepresidente J. D. Vance, circa le deportazioni di massa decise da Trump, per leggervi una continuità con il papa argentino. Vance, ex veterano che ha partecipato alla guerra in Iraq, contrario all’aborto, al matrimonio tra persone dello stesso sesso e al controllo sulle armi, oltre a essere considerato un eroe nazionale, è anche uno scrittore, noto soprattutto per il suo libro di memorie, Hillbilly Elegy.

Pubblicato nel 2016, “Elegia americana” racconta l’esperienza di Vance, cresciuto nella classe operaia bianca degli Appalachi, una regione che si estende dal sud di New York all’Alabama e al Mississippi settentrionale, colpita da povertà e disoccupazione a seguito del declino industriale. In questa chiave, con un tipico capovolgimento di senso, comune ai trumpisti, per spiegare le deportazioni dei migranti Vance ha fatto appello al concetto cristiano di ordo amoris, l’ordine dell’amore, o del cuore.

Un concetto che, principalmente nell’opera di Sant’Agostino, La città di Dio, indica l’importanza di dare un ordine prioritario agli affetti, e di dirigere l’amore verso Dio, il bene supremo, e non verso “sentimenti disordinati”, che portano all’infelicità e al peccato: per Vance, “l’America al primo posto”, dunque... Da agostiniano, l’allora cardinale Prevost ha replicato sui social, denunciando la profonda distorsione del messaggio di amore e accoglienza del Vangelo, operata da Vance per giustificare “politiche disumane”.

E, in questo senso, intendendo il concetto di “ordo amoris” anche come priorità da dare all’amore per la “creazione”, per la comunità e per il prossimo più vulnerabile, l’agostiniano Prevost può raggiungere lo spirito delle encicliche bergogliane – soprattutto Laudato Si’ e Fratelli Tutti – che portano a riflettere sull’esistenza e sul destino dell’umanità, messo in pericolo, per Bergoglio, “dalla globalizzazione dell’indifferenza” e dalla crisi ambientale.

E se per declinare i temi della dottrina sociale della Chiesa nelle contraddizioni del presente, armonizzandone le diverse “filosofie”, le Encicliche di Francesco richiamano il Concilio Vaticano II, il nome scelto dal nuovo papa rimanda – l’ha dichiarato lui stesso – all’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII. Un documento che viene considerato un punto di svolta nella dottrina sociale della Chiesa, con i suoi richiami ai diritti dei lavoratori e alla necessità di un intervento dello Stato nei conflitti fra capitale e lavoro. Il “ponte” teso verso Trump, insomma, potrebbe anche essere minato...

Va, però, anche considerato il contesto e il significato in cui si è data la Rerum Novarum, come risposta al sorgere di un nuovo soggetto storico, la classe operaia, che diventava massa e costruiva un mondo nuovo. Un’istituzione come la Chiesa, consapevole del suo ruolo e della necessità di rinnovarsi nel mondo, aveva bisogno di accoglierla, riconoscerla e disciplinarla. La Rerum Novarum, a dispetto degli entusiasmi sparsi negli articoli dei vaticanisti, era, quindi, anche un contrattacco al socialismo. Non era in gioco la drastica e temibile “cruna dell’ago” (“È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”, dice Gesù nei Vangeli – Matteo, 19- 24). Il richiamo era piuttosto quello alla lettera di Paolo a Filomene (Fm 8-20): Paolo rimanda indietro Onesimo, uno schiavo fuggiasco che aveva convertito, chiedendo a Filomene, un cristiano benestante, di perdonarlo e accoglierlo con amore, non più come schiavo, ma come fratello in Cristo. Come dire: carità, assistenza, sindacati “gialli” e contributo dei benefattori, non rottura delle catene dalla schiavitù del lavoro salariato.

Va anche ricordato che Leone XIII salì al soglio pontificio dopo Pio IX, l’ultimo “papa re”, in quanto il suo pontificato fu segnato dalla fine del potere temporale dei Papi con la presa di Roma da parte del Regno d’Italia, nel 1870. Si deve a Pio IX il Sillabo degli errori, un documento in cui si condannavano tutte le moderne correnti di pensiero che minacciavano, secondo la Chiesa, i fondamenti della fede e della morale cristiana.

Il primo discorso del papa Prevost ai cardinali, indica lo stesso tipo di consapevolezza che la Chiesa odierna deve avere nell’affrontare “una nuova rivoluzione industriale”, rappresentata dagli sviluppi dell’intelligenza artificiale, le nuove sfide che la IA pone alla difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro. La dottrina sociale della Chiesa, dice il papa, deve guidare in senso etico l’utilizzo di questa nuova tecnologia, e per questo è necessario un dialogo con la comunità scientifica e la società civile. Prevost ha per questo espresso la volontà di proseguire il cammino della Chiesa sulla scia del Concilio Vaticano II, per promuovere il dialogo con il mondo contemporaneo.

Un ponte, quindi, fra l’enciclica Rerum Novarum e il Concilio Vaticano II in un momento di grande transizione, che ha da essere rassicurante: senza spostare troppo l’accento sul “Pericolo delle ricchezze” e sul “Giovane ricco”, l’episodio del Vangelo in cui Gesù risponde a un tale, rispettoso di tutti i comandamenti, che gli chiede cosa deve fare ancora per conquistarsi la vita eterna. “Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: ‘Una sola cosa ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi’. Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, perché aveva molti beni”. (Mc 10, 17-21).

La parte più radicale del Concilio Vaticano II ha cercato di rispondere così, scegliendo la Chiesa dei poveri e camminando accanto ai marxisti. E papa Bergoglio, pur non essendo un teologo della Liberazione, privilegiando “l’opzione per i poveri” ci è andato vicino quando ha detto ai poveri di “essere protagonisti del proprio riscatto”, agli operai di “andare avanti” e di “non lasciarsi rubare la speranza”, o ai contadini peruviani di “non lasciarsi rubare le terre”.

Le istituzioni – scriveva Machiavelli in un famoso passo dei “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio” –, hanno bisogno di rinnovarsi e per questo devono tornare ai principi. Sono le “rinnovazioni” che hanno mantenuto e mantengono la religione, “la quale se non fossi stata ritirata verso il suo principio da Santo Francesco e da Santo Domenico sarebbe al tutto spenta: perché questi, con la povertà e con lo esemplo della vita di Cristo, la ridussono nella mente degli uomini, che già vi era spenta”.

Poi, però, occorre raddrizzare la barra, rassicurare il gregge, il pastore e il cane da pastore. È presto per fare previsioni sulle scelte future di Prevost. Nel suo impegno pastorale in Perù, in un contesto di conclamata ingiustizia sociale dov’era difficile non scegliere da che parte stare, egli ha mostrato di abbracciare più l’opzione dei poveri che quella dei potenti. Per questo, si ricordano le sue posizioni a favore degli “ultimi”: sia in occasione dei disastri naturali, che in presenza di quelli politici, provocati dalla massiccia repressione della “usurpatrice”, Dina Boluarte, che governa il paese dopo aver incarcerato il presidente Pedro Castillo, un maestro rurale privo di appoggi oligarchici.

In quanto secondo vicepresidente della Conferenza Episcopale peruviana con facoltà di nominare i vescovi, Prevost si adoperò affinché i vescovi avessero un ruolo di denuncia dei massacri di 49 manifestanti compiuti tra dicembre 2022 e marzo 2023 da Bouluarte, accettata nei salotti buoni del potere internazionale, ma invisa ai peruviani, come dimostra il gradimento ai minimi storici con cui si prepara alle elezioni del 2026.

In stile “trumpiano”, Bouluarte ha però salutato entusiasticamente l’elezione di Prevost. E così ha fatto anche Keiko Fujimori, figlia del dittatore Alberto Fujimori, tacendo la posizione assunta da Prevost contro la concessione dell’“indulto umanitario” al padre, deciso nel 2017 dall’allora presidente peruviano Pedro Pablo Kuczynski. Il dittatore, aveva detto Prevost, non si era pentito davvero per “le gravi ingiustizie commesse” e per le quali era stato condannato: come per l’uccisione di 25 persone, fra cui un bambino di 8 anni.

Crimini – sequestri, uccisioni, deportazioni e sparizioni forzate – compiuti dagli squadroni della morte del gruppo Colina, composto da agenti dell’esercito autorizzati ad agire così da Fujimori per stroncare il conflitto di classe e la guerriglia maoista di Sendero Luminoso. Prevost, che esercitò le sue funzioni nella provincia di Chiclayo, composta da 20 distretti urbani e rurali con picchi di povertà superiori al 20%, durante il decennio tra il 1988 e il 1998 denunciò spesso quella sanguinosa repressione.

Ora, come primo atto da pontefice, Prevost ha concesso l’indulgenza plenaria. Non sembra però, voler deflettere dalla “linea dura” decisa dai tribunali ecclesiastici, per impulso di Bergoglio, contro gli abusi commessi sui minori: sia all’interno della Chiesa, che ai suoi bordi.

Prevost è stato personalmente investito nell’azione di “pulizia” avviata da Bergoglio con lo scioglimento dell’organizzazione religiosa e laica Sodalizio della Vita Cristiana, suscitando anche polemiche.

Quand’era vescovo di Chiclayo, nel 2022, fu contattato da 3 donne che denunciarono due sacerdoti della sua diocesi per abusi sui minori, perpetrati nel 2007. Prevost avrebbe inizialmente cercato di allontanare i sacerdoti, consigliando però alle donne di rivolversi ai tribunali civili, senza compiere un’indagine approfondita.

Vero è che la riforma del tribunale pontificio, voluta dal papa Bergoglio per consentire la punizione dei colpevoli di abusi e di chi li ha coperti, è stata promulgata nel 2019. Introduce per la prima volta un obbligo universale per tutti i chierici e i membri di istituti di vita consacrata e società di vita apostolica di segnalare alle autorità ecclesiastiche competenti, entro 30 giorni dalla notizia, eventuali accuse o sospetti di abusi sessuali o atti di violenza su minori e persone vulnerabili, nonché i casi di copertura di tali abusi.

Vale, però, ricordare che le accuse nei confronti dell’organizzazione Sodalizio di Vita Cristiana e alle aziende a lei collegate, non hanno riguardato solo abusi pedofili, ma anche furti di terre ai contadini peruviani. In particolare, la comunità di Catacaos, nella regione di Piura, ha intrapreso azioni legali denunciando lo spoglio di quasi 10.000 ettari di terreno da parte di aziende legate al Sodalizio.

Per difendere i propri diritti territoriali, i contadini hanno anche fatto ricorso alla Corte Superiore di Giustizia di Piura, presentando una denuncia di amparo, una misura a tutela dei diritti costituzionali, e hanno prodotto prove sulle minacce e le aggressioni ricevute dagli emissari di quella organizzazione. Il papa Bergoglio aveva esortato i contadini a difendere il diritto alla terra, e Prevost, seguendone gli indirizzi, li aveva aiutati a non lasciarsela rubare.

Ma, intanto, per tornare a sorridere con i “meme”: impazza quello sui gabbiani, comparsi sul comignolo della Cappella Sistina un po’ prima della famosa fumata bianca; c’è chi ne disegna uno con la maschera antigas, assediato dal fumo nero, chi celebra l’arrivo di un piccolo come segno di nuova vita per il nuovo pontificato, e ci sono quelli (pochi) che ricordano l’allarme scattato durante il Covid per il crescente arrivo di altre specie provenienti da ambienti marini (i gabbiani) o boschivi (i cinghiali). Su questo piano, costruire “ponti” con Trump e la sua masnada di negazionisti, in bilico tra Chicago e Chiclayo potrebbe essere assai problematico.

Intanto, il primo dei ponti minati per la “pace disarmata e disarmante”, di cui ha parlato Prevost, porta a Gaza: porta al genocidio dei palestinesi, per cui non bastano solo gli enunciati.

Fonte

Dazi, scienza, olio di serpente

Cospargere il malcapitato di pece bollente, farlo rotolare tra le piume di gallina e poi issarlo su un palo o una traversina ferroviaria e portarlo in giro per il paese, esponendolo al pubblico ludibrio.

Di questa punizione ci racconta Mark Twain, citandola più volte nel suo Le avventure di Huckleberry Finn fino al capitolo trentatreesimo (titolo emblematico: «La fine ingloriosa dell’aristocrazia») dove a subirla sono i due truffatori che si spacciavano per il Delfino di Francia e per un fantomatico duca inglese. Proprio a loro tocca il trattamento che veniva di solito riservato a coloro che approfittavano della dabbenaggine altrui attraverso truffe più o meno ingegnose o vantando capacità inesistenti. O, ancora spacciando per panacea contro tutti i mali l’olio di serpente.

Chissà se una punizione del genere sarebbe appropriata per l’uomo che ha consigliato il presidente Usa in carica, Donald Trump, di dare l’avvio alla “guerra dei dazi” che, dai primi del mese di aprile, imperversa, creando scompiglio tra i mercati finanziari internazionali.

Il soggetto in questione ha nome e cognome: si tratta di Peter Navarro e ricopre la carica di senior counselor for trade and manufacturing, incarico affidatogli da Trump non si sa bene su quale base. Navarro, con ogni probabilità avrebbe continuato la sua placida carriera di docente di Economia e politiche pubbliche presso l’università della California/Irvine se non avesse dato alle stampe un paio di lavori nei quali esprimeva pareri fortemente anti-cinesi che hanno colpito l’entourage del tycoon.

Il guaio è che, per dare spessore alle sue tesi, Navarro ha più volte citato un tal economista di Harward, Ron Vara, niente di più che il suo pseudonimo. Stando alle sue tesi, sposate entusiasticamente da Trump, la rigida politica dei dazi potrebbe portare alle casse Usa qualcosa come seimila miliardi di dollari.

Peccato però che nelle due settimane di aprile, i dazi introdotti dal presidente Usa, abbiano avuto la sola capacità di generare una sorta di terremoto nella finanza internazionale. Pare che lo stesso Elon Musk, fino a poco tempo fa nelle grazie di Trump, dopo aver perso una trentina di miliardi, abbia definito Navarro “più stupido di un muro di mattoni” (senza voler, ovviamente, offendere i mattoni).

Finito qui? No perché Trump, nel mettere in piedi il suo caravanserraglio, non ha mancato di inserire tra i suoi più stretti collaboratori tale Laura Loomer, giornalista di stampo complottista (sua la definizione dell’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre, una «macchinazione interna») che ha avuto non poco peso nei tagli di personale all’interno del Consiglio di sicurezza nazionale.

Ma non basta: a capo del Fbi, Trump ha messo un certo Kash Patel, più noto per aver sostenuto che i fatti del 6 gennaio 2021 (l’attacco a Capitol Hill, per intenderci) sarebbero stati coordinati da personale Fbi allo scopo di danneggiare il movimento MAGA (Make America Great Again).

Insomma, a gestire il potere di una delle nazioni più potenti al mondo, c’è ora una vera e propria corte dei miracoli. Ancor più fantasiosa se aggiungiamo ai nomi sopra citati quello della pastora (una tele-predicatrice) Paula White-Cain (dirige White House Faith Office) e dell’ormai famoso ministro della Salute Usa, Robert Kennedy Jr., personaggio quanto mai ondivago che, dopo aver sostenuto da sempre la colpevolezza dei vaccini come veicoli per le forme di autismo, oggi, cambiando improvvisamente bandiera, ha cominciato a parlare di una «tossina ambientale» che sarebbe la responsabile dell’aumento dei casi. E si è spinto a pronosticare scoperte importanti sull’argomento entro il prossimo mese di settembre.

BMJ e Lancet: l’osservato speciale Trump

Ben due delle riviste medico-scientifiche più prestigiose, cioè il British Medical Journal (BMJ) e The Lancet si sono unite agli allarmi già lanciati da Nature e da Science sull’attacco che l’attuale amministrazione Usa sta conducendo in molti settori della ricerca scientifica bio-medica.

The Lancet in particolare ha preso in esame le conseguenze possibili – ma anche più che probabili ₋ connesse ai pesanti tagli operati dai decreti esecutivi presidenziali con i quali Trump ha bruscamente interrotto i finanziamenti ai programmi di assistenza estera degli Stati Uniti.

Stando all’autorevole rivista l’arresto dei finanziamenti Pepfar (President’s Emergency Plan for Aids Relief, gigantesco programma sanitario internazionale a cui diede il via nel 2003 il presidente George W. Bush) produrrebbe conseguenze esiziali: nella sola Africa subsahariana, entro il 2030 l’Hiv potrebbe infettare fino a un milione di bambini e quasi mezzo milione di essi potrebbe morire di Aids. Ovviamente c’è da considerare anche che da una diffusione così violenta dell’epidemia potrebbe provocare quasi tre milioni di orfani.

Fino a oggi il programma Pepfar ha costituito una “pietra angolare” (la definizione è degli esperti di The Lancet) per la lotta all’epidemia globale di Hiv/Aids, fornendo oltre 120 miliardi di dollari di finanziamenti. Pepfar avrebbe già salvato più di 26 milioni di vite e garantito la nascita di 7,8 milioni di bambini senza Hiv. Prima dei tagli di Trump contribuiva ai servizi di prevenzione e trattamento dell’Hiv per almeno 20 milioni di persone soprattutto nei Paesi dell’Africa subsahariana.

Sul futuro di un programma tanto importante (anche per mantenere la leadership statunitense in questo specifico settore) gravano ombre oscure: l’ordine esecutivo della Casa Bianca ha sospeso tutti gli aiuti esteri per 90 giorni, in attesa di una revisione. Pepfar ha ricevuto una deroga per la continuazione di alcuni programmi ma già a partire dallo scorso gennaio molti servizi sono già stati interrotti o sospesi.

Una possibilità per proseguire con il programma ci sarebbe e gli autori dell’analisi chiedono almeno un “piano di transizione” quinquennale per poi trasferire, sempre con la collaborazione Usa lo stesso programma ai governi locali: una lettera di 11 funzionari sanitari di vari Paesi africani, descrive quali impegni i loro governi intendano adottare per rendere sostenibile i programmi contro l’Hiv.

Veniamo ora alle segnalazioni del BMJ che ha sottolineato una serie di iniziative del governo Trump più o meno sensate (?). Eccone alcune.

Nessuno sa cosa fa l’altro

Il ministro della Salute Usa, Robert F. Kennedy Jr., pare aver affermato di non sapere nulla dei tagli avviati nei confronti dei vari programmi sanitari pubblici. Semmai ci siano stati, a suo dire, sono stati resi necessari dal fatto che riguardassero “principalmente” programmi di diversità, equità e inclusione.

Inoltre, a proposito della lunga catena di licenziamenti di personale dell’HHS (United States Department of Health and Human Services) Kennedy ha anche affermato che alcuni dei licenziamenti (si parla di 10 mila posti di lavoro) sono stati eseguiti per errore. Ma, a quanto pare, non ci sarà alcuna reintegrazione di questo personale (cfr. il sito di Politico).

I tagli ai posti di lavoro (sempre nell’ottica del risparmio federale prediletta dal DOGE, il Dipartimento dell’efficienza governativa fortemente sostenuto da Elon Musk, che però ha annunciato sin dal prossimo maggio, il ritorno ai propri affari) hanno provocato lo svuotamento di alcuni uffici di sanità pubblica e la fuoriuscita di non pochi scienziati senior dalla FDA (Food and Drug Administration) e dei NHI (National Institutes of Health).

Ancora l’autismo

Nuove ricerche sulla diffusione dei disturbi dello spettro autistico negli Stati Uniti hanno messo in luce come la patologia colpisca 1 bambino su 31. Il dato, segnalato con un certo clamore dai Cdc, ha una sua importanza: solo nel 2000 indagini sullo stesso fenomeno rivelavano come solo 1 bambino su 154 ne soffrisse, mentre nel 2016, l’incidenza era salita a 1 bambino su 54.

Va segnalato a tale proposito che in Europa il fenomeno interessa 1 bambino su 89 e nella sola Italia, 1 su 77. Si tratta senza dubbio alcuno di una questione spinosa e che non va sottovalutata ma in qualche modo, secondo la maggioranza degli esperti mondiali, l’aumento delle diagnosi è dovuto soprattutto a una sempre maggiore informazione dei medici e alle nuove metodiche diagnostiche.

Negli Usa, al contrario, l’amministrazione Trump ha messo il problema nel mirino proponendo inizialmente un ritorno all’abusato collegamento tra autismo e vaccinazioni. Poi, il direttore del NIH, Jay Bhattacharya, ha annunciato una ricerca ad ampio respiro che però, Kennedy Jr. (sempre lui), ha affermato essere rivolta a individuare le «tossine ambientali» responsabili della rapida diffusione di una vera e propria “epidemia”.

Kennedy ha escluso cause di tipo genetico: esattamente il contrario di quanto esperti Usa vanno da tempo affermando. Secondo Alison Singer, presidente dell’Autism Science Foundation, organizzazione no-profit per le famiglie affette da autismo, un’elevata quantità di evidenze indica una causa genetica (intorno al 20%). A suo dire può anche incidere una concomitanza di mutazioni genetiche. O, come suggeriscono altri esperti ₋ secondo i quali i geni non spiegano tutti i casi di autismo ₋ potrebbe esserci una combinazione negativa fattori genetici ed esposizioni ambientali.

NHI senza soldi: i giudici contro Trump

Sono ben 16 i procuratori generali statali che hanno intentato causa all’amministrazione Trump e al NIH contestando la revoca dei finanziamenti per la ricerca. In particolare i giudici affermano che sia stato violato l’Administrative Procedure Act. Si tratta del sistema di controllo dei regolamenti emanati dalle agenzie federali che ha sostanzialmente lo scopo di difendere i cittadini che subiscano danni per quanto deciso dalle varie agenzie.

Il governo Usa, però non ha gradito e si è subito appellato contro la decisione di un giudice che ha bloccato i tagli del NIH con particolare riferimento ai finanziamenti delle università (si parla di una cifra intorno ai 4 miliardi di dollari) Gli istituti di ricerca hanno evidentemente accolto con favore questa pronuncia che dovrebbe in qualche modo tamponare le difficoltà finanziarie della ricerca biomedica.

Dimissioni per Peter Marks

Il 28 marzo 2025 Peter Marks, direttore del Center for Biologics Evaluation and Research della FDA, ha annunciato improvvisamente le sue dimissioni. Dietro l’abbandono ci sarebbero forti dissapori tra lo stesso Marks e l’attuale ministro della Salute Robert Kennedy Jr. Marks, a capo del suo ufficio fin dal 2016 è stato anche coordinatore dell’operazione Warp Speed con la quale, durante l’epidemia di Covid, sono stati predisposti e prodotti i vaccini.

Marks ha ricevuto una sorta di aut aut da Kennedy: essere licenziato o dimettersi. Nella sua lettera di dimissioni Marks ha dichiarato al Wall Street Journal che il team del ministro della Salute gli ha proposto di cercare dati inesistenti per giustificare un’informazione distorta anti-vaccino. «Non potrò mai dare fiducia a nessuno se non a chi segue la scienza così come la vediamo», ha affermato. «Non posso semplicemente accettare teorie del complotto e giustificarle».

Università o barzelletta?

«Non è un’università ma una barzelletta», in questo modo Donald Trump ha etichettato l’università di Harvard, sottolineando come al suo interno si insegnino «odio e stupidità».

L’ateneo, per tutta risposta ha fatto causa al Governo federale contestando i tagli di quasi 2,2 miliardi di finanziamenti che, a dire della controparte, non solo vanno contro le normali regole procedurali ma violerebbero anche il Primo Emendamento, quello cioè con il quale vengono garantiti i diritti di libertà di religione, parola, stampa, riunione pacifica e il diritto di rivolgere petizioni al governo.

La contesa tra Trump e Harvard pare essere stata dettata soprattutto dallo spirito inclusivo che anima e ha animato le scelte del famoso ateneo (peraltro dovrebbe essercisi laureato lo stesso Navarro, consigliere economico di Trump) così come il fatto di “non aver protetto gli studenti ebrei” a causa di manifestazioni pro-Palestina svoltesi ad Harvard.

Ma non basta: «Il treno della cuccagna degli aiuti federali ₋ affermazione già sentita dalle nostre parti ₋ sta finendo», ha dichiarato Harrison Fields, portavoce della Casa Bianca. «I fondi dei contribuenti sono un privilegio e Harvard non soddisfa i requisiti di base necessari per accedervi», ha concluso in una nota.

Di converso il rettore Alan Garber nella richiesta di azione legale ha sottolineato come «Le azioni degli imputati minaccino l’indipendenza accademica di Harvard e mettano a rischio la ricerca fondamentale, salvavita e innovativa che si svolge nel campus».

L’ateneo non è rimasto solo a difendere questa trincea: l’American Association of Colleges and Universities, con la firma di rettori e amministratori di college di tutti gli Stati Uniti, compresi i grandi atenei pubblici di ricerca e i piccoli college privati, ha emesso una dichiarazione congiunta con quale è stata denunciata «l’ingerenza governativa e politica senza precedenti che sta mettendo a repentaglio l’istruzione superiore americana».

Chiudo questo ulteriore capitolo delle “malefatte” dell’amministrazione Trump con una piccola nota. Pochi giorni fa, dopo la scomparsa di papa Francesco, un’accolita di Trump, Marjorie Taylor Greene, deputata repubblicana per lo Stato della Georgia, ha dato voce alle molte accuse rivolte al Papa appena defunto dai rappresentanti di Maga. Taylor Greene ha pubblicamente affermato che «Il male viene sconfitto dalla mano di Dio» esprimendo la propria felicità per la morte del Pontefice.

Si può certamente discutere sulla qualità complessiva dell’operato di papa Francesco ed è giusto farlo perché la storia stessa lo impone. Ma il commento della deputata trumpiana mi riporta all’incipit. Non sarebbe il caso che negli Usa cominciassero a munirsi di pece e piume?

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12/05/2025

Amabili resti (2009) di Peter Jackson - Minirece

Il Corriere e Rampini reinventano la seconda guerra mondiale

Chi vinse davvero la seconda guerra mondiale? Se lo chiede nella rubrica sul Corriere, Oriente Occidente, Federico Rampini. Il problema è che si risponde anche e lo fa stravolgendo completamente la storia. Secondo il tuttologo la seconda guerra mondiale sarebbe scoppiata per colpa di Stalin e non ci sarebbe stata senza il patto Ribbentrop-Molotov, e altre amenità dello stesso tono, per concludere che senza gli americani non ci sarebbe stata alcuna vittoria. E tutto questo l’ha detto dopo aver premesso che la storia è falsata dalla propaganda e dalle distorsioni... degli “altri”, ovviamente!

Come rispondere a Rampini? Con un minimo di onestà storica.

Valutare politicamente la Seconda Guerra Mondiale è complesso, poiché non è stata solo un conflitto globale, ma anche una guerra civile europea. A vincere nel 1945 furono gli Alleati, ma il quadro geopolitico cambiò drasticamente nei decenni successivi.

Chi ha scatenato la guerra? La risposta è chiara: Hitler. La sua ambizione sfrenata, l’intolleranza verso il compromesso e l’ostinata volontà di correggere gli “errori” della Germania dopo la Prima Guerra Mondiale lo resero il principale responsabile. Nonostante ciò, Hitler trovò sostegno da chi considerava il bolscevismo il vero nemico del continente.

Il patto Ribbentrop-Molotov tra Germania e URSS rispondeva a una logica di sopravvivenza per Stalin: garantire la neutralità iniziale in cambio di una fascia di sicurezza territoriale, cercando di evitare il coinvolgimento diretto nel conflitto.

Chi ha vinto la guerra? Gli Alleati, (URSS compresa) senza dubbio. Tuttavia, il contributo sovietico fu decisivo. Secondo lo storico Overmans, oltre 4 milioni di soldati tedeschi morirono sul fronte orientale, contro poco più di un milione negli altri teatri di guerra. Durante l’invasione della Normandia nel 1944, mentre 30 divisioni tedesche erano impegnate contro gli Alleati occidentali, ben 231 divisioni tedesche e loro alleate combattevano a est contro l’URSS.

L’Unione Sovietica fu determinante anche prima dell’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto. Mentre l’URSS teneva impegnata la maggior parte delle forze tedesche, la Gran Bretagna e il Medio Oriente rimasero al sicuro da un’invasione. È per questo che, dopo la vittoria, il comunismo riuscì a espandersi: fu l’URSS a pagare il prezzo più alto in termini di vite umane e sacrifici militari.

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Spagna - Un manuale per scoprire i poliziotti infiltrati

In Spagna come in Italia, come in ogni paese del capitalismo neoliberista occidentale, il vero nemico, quello “eterno” delle classi dominanti, sono i movimenti popolari e le organizzazioni che li innervano.

E non è neanche importante il tasso di “radicalità” politica o strategica che esprimono. È sufficiente che esistano e che gli obiettivi delle loro lotte mettano in discussione questo o quell’aspetto del loro dominio. Cioè dei loro profitti. Anche gli ambientalisti più pacifici, perciò, diventano dei pericolosi “sovversivi” da schedare, infiltrare, reprimere.

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Un gruppo di persone colpite dallo spionaggio della polizia pubblica un testo collettivo come strumento e riflessione su questo fenomeno.

Domenica 12 gennaio scorsa è andato in onda sulla televisione pubblica catalana Infiltrats, un documentario che racconta l’esperienza di alcune delle persone vittime dello spionaggio della polizia, oltre a ripercorrere le inchieste giornalistiche condotte dal team di La Directa che hanno portato alla scoperta di diverse talpe.

Nel documentario, alcune vittime affermano che conoscere i dettagli di altri casi di agenti infiltrati attraverso gli articoli pubblicati è stato fondamentale per smascherare le talpe nel loro ambiente.

È il caso, ad esempio, di Ramón, il poliziotto che ha spiato il tessuto sociale di Benimaclet (Valencia), su cui hanno iniziato a sospettare dopo aver appreso dei casi di María e Marc, infiltrati rispettivamente a Girona e Barcellona.

Con lo stesso obiettivo di facilitare l’identificazione di altri agenti infiltrati, un gruppo di persone colpite da questa pratica ha annunciato la pubblicazione di un libro che vuole essere uno strumento a disposizione di chi ne avesse bisogno. Manual para destapar a un infiltrado (“Manuale per smascherare un infiltrato”), che uscirà il 3 febbraio per l’editorial Dos cuadrados, è il risultato di un processo collettivo di apprendimento nato dall’esperienza di scoprire che persone con cui condividevano militanza e affetti erano in realtà funzionari dello Stato incaricati di monitorarli.

Il progetto “nasce dal contatto tra militanti colpiti da diversi poliziotti infiltrati scoperti in luoghi come Girona, Barcellona, Valencia o Madrid”, spiega una delle persone coinvolte. Inizialmente, questi incontri “erano più che altro per darci sostegno emotivo, capirci e cercare di aiutarci, visto che stavamo vivendo situazioni molto simili e non avevamo alcun riferimento a cui aggrapparci, nessuna esperienza precedente di conoscenti e nessuna conoscenza su come affrontarla”, racconta.

Uno degli obiettivi del libro è proprio colmare quel vuoto in cui si sono trovate queste persone, affinché altre vittime possano disporre delle conoscenze acquisite durante il processo. “In quegli incontri è emersa anche l’idea di fare un lavoro a livello politico: visto che ci hanno fatto passare tutto questo e che abbiamo subito questo tipo di repressione, vogliamo ricavarne qualcosa di utile non solo per noi, ma per il resto della militanza, presente e futura”, riassume un’altra delle autrici.

Nel libro, inoltre, chiariscono che vogliono “promuovere una cultura della sicurezza nelle organizzazioni” e lanciare un messaggio: “Le forze dell’ordine non sono infallibili (...), hanno falle nel loro funzionamento e noi vogliamo esporle in modo semplice e accessibile”.

La decisione di trasformare tutto questo sapere accumulato in un’opera divulgativa non è stata esente da dibattiti, anch’essi riportati nel libro: “Conviene rendere pubblica l’informazione di cui disponiamo? E se mettesse a rischio indagini in corso? E se la polizia cambiasse metodo di infiltrazione?”, si chiedono.

“A cosa serve avere queste informazioni se non siamo in grado di condividerle?”, si domandano. “Non abbiamo contatti con tutti quelli che militano in qualsiasi tipo di spazio o organizzazione, né una rete sicura di comunicazione interna che possiamo usare”, riflettono.

Tra le altre motivazioni che sostengono la decisione di pubblicare questo manuale, c’è il fatto che “se solo poche persone hanno accesso a informazioni così importanti, queste potrebbero arrivare solo a organizzazioni vicine o di fiducia, alimentando così la logica del favoritismo e del si salvi chi può”.

Sono anche consapevoli che la polizia avrà accesso al documento e che potrebbe cambiare i suoi metodi di spionaggio. Su questo punto, osservano che “lo Stato ha una formula che ha dimostrato di funzionare (l’infiltrazione) e cambiarla implicherebbe cercarne un’altra, rischiando che non sia altrettanto efficace”.

Il gruppo che ha redatto il libro sa che questa pubblicazione “potrebbe mettere a rischio indagini in corso sugli infiltrati, visto che le loro tattiche sono state esposte pubblicamente”. Tuttavia, credono che “se scappa, è un poliziotto infiltrato in meno nelle nostre organizzazioni; se resta, avremo più possibilità di smascherarlo”.

L’esempio del Regno Unito

Gli autori riconoscono che il manuale è ispirato a quello pubblicato anni fa nel Regno Unito, che “li ha aiutati a scoprire decine di infiltrati in organizzazioni e ambienti militanti che nemmeno conoscevano”. Spiegano di essersi messi in contatto con le autrici britanniche, le quali, alla domanda se si pentissero della pubblicazione o se l’avessero trovata utile, hanno risposto “che senza dubbio è servita molto, perché ha aiutato molte persone con cui non avevano alcun contatto a scoprire altri agenti infiltrati”.

Oltre alle riflessioni, il Manuale offre consigli su come gestire un’eventuale indagine interna in caso di sospetti. “Ci sembra molto importante perché altre vittime possano sapere come gestire il prima, il durante e anche il dopo la scoperta”, spiega una delle autrici. “Ok, lo scopriamo... e poi? Perché potrebbe sembrare ovvio, ma non lo è”.

Evitare la paranoia e prevenire l’esaurimento

Nel libro si raccontano anche le conseguenze di queste indagini e le cicatrici lasciate in chi le ha vissute: “Parliamo un po’ di esaurimento, perché tutto questo provoca un logoramento mentale, fisico ed emotivo, soprattutto quando non si ottengono risultati né per escludere né per confermare i sospetti”, raccontano.

Viene spiegato che questo esaurimento è spesso associato a una sensazione di perdita di controllo, persino a una certa ossessione. Ed è per questo che un processo collettivo è preferibile, perché i sintomi dell’esaurimento possono essere riconosciuti e gestiti meglio.

Riconoscono che nei casi scoperti “abbiamo avuto la fortuna di poterli confermare, ma il più delle volte le indagini si arenano”. Un’altra autrice avverte: “Bisogna esserne consapevoli e sapere come chiudere quella fase, per evitare che ti consumi e che paralizzi la tua attività politica per questa questione”.

Le autrici cercano di prevenire uno stato di diffidenza permanente, di vedere minacce ovunque. “La paranoia è una manifestazione comune che può portare a una caccia alle streghe contro chiunque abbia detto o fatto qualcosa di strano”, riflettono.

Questo stato si verifica “quando la situazione sfugge di controllo e impedisce di agire, alimentando la paura di uno Stato e di una polizia apparentemente invincibili”. Per evitarlo, bisogna “chiedersi cosa sappiamo, cosa temiamo e concentrarci su dati reali, smascherare gli infiltrati a partire da informazioni oggettive”.

Per capire se si tratta di paranoia (collettiva o individuale), nel libro si indicano alcuni sintomi comuni: “Vedere spie in ogni angolo o puntare il dito contro chiunque abbia fatto qualcosa di minimamente sospetto può essere un segnale chiaro”. Per affrontare questi casi in gruppo, sottolineano che “è importante che chi ha sospetti si senta ascoltato e compreso, chiedere con delicatezza cosa pensa o teme, ascoltare con sincerità ma con cautela e rispetto”.

Sumar chiede conto al Ministero dell’Interno per le infiltrazioni e chiede risarcimenti

Aina Vidal e Gerardo Pisarello, deputati del gruppo plurinazionale Sumar e coportavoce dei Comuns, chiedono modifiche legislative per evitare ulteriori infiltrazioni nelle entità sociali, sostenendo che “questa pratica degli agenti sotto copertura non è giustificata da motivi di sicurezza, indipendentemente dalla copertura giudiziaria, solo per avere una certa ideologia di sinistra”. Nell’iniziativa parlamentare, hanno anche chiesto di “riparare il danno causato alle vittime”.

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Trump 2.0: una svolta epocale?

di Raffaele Sciortino

Questo testo è la versione italiana dell’articolo scritto per il collettivo statunitense Heatwave di prossima pubblicazione.
Questo contributo ha beneficiato delle discussioni all’interno del seminario torinese sull’imperialismo e con Steve Wright.


“Il capitalismo cadrà come il muro di Berlino”
José Francesco Bergoglio

Un confronto sulla percezione che sulle due sponde dell'Atlantico si ha della crisi in corso è importante, ma deve scontare uno choc cognitivo dovuto alla difficoltà di mettere a fuoco una svolta forse epocale. In effetti, è in corso a Washington un vero e proprio regime change, contrappasso della politica da decenni perseguita dalla Foreign Policy Community statunitense a tutte le latitudini. Se a prima vista sembra regnarvi il caos, la sfida è individuare una logica di fondo in questo caos. Detto altrimenti, Trump è sintomo e prodotto di profonde spinte materiali interne ed esterne oltreché l'attore di un tentativo di svolta nella postura strategica degli Stati Uniti nel mondo, dal corso incerto e con esiti difficilmente prevedibili.

Come fattori immediati, Trump 2.0 è il prodotto dei tre fallimenti principali e tangibili dell'amministrazione Biden:
1) non essere riuscita a infliggere una “sconfitta strategica” alla Russia nel conflitto ucraino, avendo anzi favorito l'ulteriore riavvicinamento tra Mosca e Pechino e con gran parte del Sud Globale;
2) aver mancato l'obiettivo del decoupling selettivo con la Cina, ovvero il blocco della sua modernizzazione tecnologica e della risalita nelle catene globali del valore;
3) non aver arrestato il deterioramento del quadro sociale interno (nonostante gli impegni per una middle class foreign policy e gli abbozzi di reshoring, che in realtà si sono fermati sulla soglia del friendshoring con paesi come Messico e Vietnam).
Anche solo alla luce di questi fattori, non era difficile ipotizzare che non Trump era la parentesi, ma Biden (le cui misure, non a caso, si sono collocate sul solco protezionistico di Trump 1.0, sanzioni comprese). Ma c'è di più. I fallimenti dell'amministrazione Democratica si configurano non come errori contingenti, bensì come la coda di un lungo ciclo della politica Usa e mondiale, quello della globalizzazione ascendente, già duramente scosso dalla crisi del 2008.

Un ciclo che oggi è alla fine perché ha reso gli Stati Uniti più dipendenti dal mondo che pure dominano, ma con costi economici sempre più gravi (deindustrializzazione relativa e deficit commerciale inarrestabile), con una polarizzazione e disgregazione sociale crescente, e con il rischio non più solo ipotetico che la Cina sfugga con qualche possibilità di successo al meccanismo ancora imperante del prelievo imperialista del dollaro. Sono queste le cause profonde della sempre più evidente “crisi ordinativa” del sistema internazionale (della Pax Americana), rovesciamento dialettico del dominio dell'unico imperialismo in senso proprio rimasto sulla scena in quanto capace di combinare investimenti esteri, signoraggio monetario mondiale, controllo globale dei mari e dello spazio attraverso la potenza militare full-spectre, un apparato statale proiettato ampiamente all’estero.

La reazione a questa situazione si colloca negli Stati Uniti all'incrocio tra spinte provenienti dal profondo della società e spinte provenienti da frazioni importanti del capitalismo yankee. Si tratta delle frazioni fin qui meno favorite dalla proiezione globale (settori industriali di “vecchia” tecnologia) o che necessitano di un rafforzato rapporto con lo Stato (parte della Silicon Valley, Musk, ecc.) e in dissidio con alcuni grandi operatori finanziari. Sarebbe però frutto di illusione ottica considerare solo questo lato. La spinta dal basso – ben al di là del movimento Maga – è un fattore determinante della svolta in atto: una spinta sicuramente interclassista (in particolare, classi medie impoverite), ma che esprime anche istanze sociali di settori importanti di proletariato (non solo “bianco”) sempre più insofferenti verso le ricadute negative della globalizzazione. Questo assemblaggio trumpista non è ancora un blocco sociale omogeneo, e potrebbe non diventarlo mai; ma al momento incanala anche aspettative proletarie di nazionalismo economico difensivo – piaccia o non piaccia – che coprono il vuoto lasciato dal vecchio riformismo newdealistico.

Trump è la risposta a tutto ciò – in una situazione che per certi versi ricorda la presidenza Nixon – con una strategia di ribaltamento del Volcker shock dei primi anni Ottanta (effettivo innesco della cosiddetta globalizzazione finanziaria trainata dal dollaro e dal doppio deficit statunitense pagato con l'emissione di montagne di Treasuries). Il nucleo del team trumpiano – più coeso di otto anni fa – ha a questo punto ben chiari: il rischio di declino degli Stati Uniti, la necessità di una prospettiva di medio-lungo periodo che metta in conto anche sacrifici e ritorni non immediati, e la posta in palio esistenziale per il mantenimento della supremazia degli Stati Uniti nel mondo.
In più, in alcuni esponenti di punta del movimento Maga si intravvede la percezione di una “crisi di civiltà” (ovvero dell'Occidente) ad ampio spettro, ben oltre una lettura meramente economica o geopolitica della crisi americana.

Al momento, tra gli alti e bassi di annunci e misure, è evidente una forzatura dall'alto corrispondente alla radicalità della svolta prospettata. La strategia che si sta delineando (almeno provvisoriamente e con la cautela del caso) è quella di “un passo indietro e due avanti”. Un passo indietro sul piano diplomatico-militare atto a evitare la precipitazione di uno scontro militare diretto con Russia e Cina (di qui la ricerca di una exit strategy dall'Ucraina, meglio se con un quasi rapprochement con Mosca, e il tentativo di raffreddare le tensioni con Teheran) – compensato da “diversivi sensati” (Panama, Groenlandia, ecc.).
Per Washington si tratta di tirare il fiato prendendo atto della incapacità al momento di fare guerra ai due nemici, come ampiamente dimostrato sul terreno di scontro ucraino (di qui l'appoggio a Trump anche di settori importanti del Pentagono). Due passi avanti sul piano della diplomazia economica coercitiva attraverso negoziazioni a somma zero supportate dalle misure tariffarie agitate come un grosso bastone, dalla svalutazione del dollaro e dalla ristrutturazione del debito estero imposto agli alleati in cambio della “protezione” militare – come nel piano del consigliere economico di Trump Stephen Miran. Tutto ciò finalizzato al rilancio della produzione industriale interna nei settori strategici in vista di future major wars, e presentato altresì come difesa “produttivista” (non welfarista) del lavoro. In prospettiva si intravvede l’obiettivo strategico di un completo decoupling dalla Cina, da compensare con alleati e amici sul piano finanziario (Treasuries consolidati a cento anni, uso della stablecoin), energetico (acquisto di gas liquefatto ad alto prezzo) e militare (acquisto di armi statunitensi da incrementare). Il decoupling dalla Cina è visto dall’entourage di Trump come l’unico strumento efficace per bloccarne o farne deragliare la crescita economica e la stabilità socio-politica. Le tariffe esorbitanti varate ad aprile e in parte sospese sono dunque il primo passo di un percorso negoziale differenziato verso Pechino da un lato, la UE e i paesi amici dell'Asia orientale dall'altro. Ma anche per questi ultimi lo smantellamento di parte della loro industria è condizione necessaria (anche se non sufficiente) alla ricostruzione dell'apparato industriale statunitense: uno smantellamento pur parzialmente compensato da un friendshoring selettivo per alcune filiere, che diventerebbero comunque più dipendenti dal capofila statunitense e con condizioni “cinesi” per i lavoratori coinvolti. In generale si sta dunque facendo strada una ridefinizione della Grand Strategy statunitense per un ordine internazionale post-globalizzazione, che lascerà sul campo morti e feriti.

Sarebbe ingenuo pensare a una facile realizzabilità di questi obiettivi, intermedi e finali, grazie alla leva del dollaro – tuttora insostituibile sui mercati internazionali – e all'ampiezza del mercato interno statunitense. Ma anche escludere a priori la fattibilità di tale strategia appellandosi a un declino degli Stati Uniti naturalisticamente inteso (e già disatteso negli anni Settanta). Certo, gli ostacoli che Trump deve affrontare sono notevoli. Sul fronte interno: gli apparati statali e la Foreign Policy Community ostili (ancora in grado di mettergli i bastoni tra le ruote, per esempio in Ucraina); il compact Federal Reserve-Wall Street (che già si è fatto sentire condizionando l'altalena dei rendimenti dei Treasuries); le ricadute negative anche per la base sociale trompista di una possibile recessione, che riderebbe fiato ai settori sociali che più hanno beneficiato della globalizzazione, i professionals urbani e il ceto medio dei servizi digitali e finanziari, del mondo dei media e della formazione universitaria. Sul fronte internazionale: una Cina niente affatto arrendevole che già da tempo sta ristrutturando il proprio modello di sviluppo via dalla dipendenza dall'export; il riavvicinamento Mosca-Pechino, oramai difficile da rompere; il multiallineamento dei paesi BRICS+; l'incertezza sul riposizionamento della Germania in un Europa che la Nato oramai ha il compito di controllare più che proteggere. In più, la situazione in Medio Oriente potrebbe sfuggire di mano a fronte delle velleità israeliane, né il negoziato per la fine del conflitto ucraino si prospetta facile. In una parola, il risentimento anti-americano non farà che crescere, anche nei paesi amici rispetto alla inaffidabilità della potenza statunitense.

Ma a monte di tutto ciò, il nodo di fondo è la difficoltà obiettiva di innestare una logica neo-mercantilistica (incentrata sull’esportazione di merci) all'interno di una struttura economico-sociale imperialista incentrata sugli investimenti diretti all'estero e sul dollaro quasi moneta mondiale che permette il controllo sui flussi internazionali di capitale pur a costo di un crescente deficit commerciale. Questa struttura – emersa all'indomani della fine del sistema monetario internazionale di Bretton Woods nel 1971 – ha avuto un incredibile successo per Washington nel disintegrare le barriere statuali e finanziarie degli altri stati nazionali (in particolare quelle degli alleati, meno verso la Cina e la Russia). Ma rischia oggi di disintegrare la stessa struttura industriale e sociale statunitense che si ritrova come concorrente principale... la propria moneta (la propria finanza)!

Il boomerang dell'imperialismo ritorna così verso il suo centro a una scala inedita per la parabola storica dell'imperialismo capitalistico. Il che spiega il sorprendente ritorno di una inedita “questione nazionale” in Occidente sotto forma di populismi e sovranismi che si fanno strada tra settori popolari in cerca di una difesa che il vecchio movimento operaio sindacale non è più in grado di dare. Di qui la compresenza all'interno dei settori proletari di sciovinismo (soprattutto anticinese) e rivendicazioni “neoriformiste” (in particolare anti-finanza), ambivalenza che il futuro dovrà sciogliere.

Difficile prevedere come la situazione evolverà. Di massima, si può pensare a due scenari opposti. Nel primo, il tentativo trumpiano – per il concorrere degli ostacoli visti – finisce nel caos con conseguenze a oggi non determinabili, ma sicuramente di grande momento per la stabilità già precaria dell'ordine internazionale. Nel secondo scenario, il successo della nuova strategia statunitense porterebbe alla formazione di due blocchi contrapposti: il primo a guida statunitense con un'Europa piegata e ridotta a una sorta di cortile di casa in stile già latino-americano; il secondo intorno a una Cina più integrata all'economia asiatico-orientale e alleata di Mosca. Anche in questo caso le incognite sono importanti per la tenuta della dollarizzazione pur in tono minore: cosa faranno Germania, Giappone, Corea del Sud, India, Turchia? In entrambi gli scenari, per vie differenti, si tratterebbe della fine della globalizzazione per come l'abbiamo conosciuta, di un ritorno al controllo dei capitali e delle valute (da parte dei soggetti statali forti), della riconfigurazione multidomestica delle imprese multinazionali. Non si tratterebbe dell'inizio di un ordine internazionale multipolare relativamente stabile bensì altamente conflittuale in vista della preparazione, più o meno accelerata, della guerra degli Stati Uniti contro la Cina, con un giro di vite su alleati e amici di Washington – che peraltro già vediamo ben avviato.

In tutto ciò l'elemento più interessante è il ritorno di una crisi sociale profonda nel cuore dell'imperialismo occidentale, ritorno che prelude alla possibile riattivizzazione di un proletariato passivo, disperso e frantumato. È dunque la difficoltà crescente – economica e geopolitica, comprese possibili sconfitte militari – dell'anello forte del sistema imperialistico ad apparire come condizione necessaria perché si riaprano i giochi anche sul piano dei rapporti di classe con una possibile ripresa dei conflitti di classe su scala mondiale. Con una crisi sistemica della riproduzione sociale all'orizzonte, riuscirà nuovamente l'imperialismo incentrato sugli Stati Uniti a “unire il separato”?

Anche se c'è poco che i comunisti possano fare politicamente e organizzativamente all’immediato, c'è già molto materiale su cui esercitare uno sforzo teorico e analitico che rimetta al centro i nodi strutturali del modo di produzione capitalistico, dopo decenni di autoinflitta limitazione alla dimensione culturale della critica marxista. Un po' meno di Gramsci, insomma, e un po' più di Lenin e Bordiga. La “fine della storia” è finita.

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Aumentano le tensioni sul nucleare iraniano, ma il dialogo continua

Si è svolto ieri il quarto round di incontri sul nucleare iraniano, in Oman. È stato previsto un quinto incontro, la cui data deve ancora essere fissata e durante il quale continuerà il dialogo, in particolare su aspetti tecnici. Ma il confronto di ieri ha segnato un aumento delle tensioni, in particolare per l’irrigidimento delle posizioni statunitensi.

Infatti, gli scorsi giorni Trump si era sbilanciato in maniera netta sul futuro del programma nucleare di Teheran. Il tycoon, intervistato nel programma radiofonico del conservatore Hugh Hewitt, aveva affermato che per quanto riguarda le centrifughe nucleari iraniane “ci sono solo due alternative: farle saltare in aria con le buone o con la violenza”.

Non è la prima volta che viene minacciato l’intervento militare sulle strutture iraniane per l’arricchimento dell’uranio, da compiersi in accordo e con la partecipazione di Israele. Ma fino a questo punto Washington non aveva mai palesato la volontà di smantellare in tutto e per tutto il programma nucleare dell’Iran.

A fare eco all’inquilino della Casa Bianca è stato anche l’inviato speciale degli Stati Uniti per il Medio Oriente, Steve Witkoff, il quale ha detto che “in Iran l’arricchimento di uranio non dovrebbe più esistere. Questa è la nostra linea rossa. Ciò significa che Natanz, Fordow e Isfahan devono essere smantellate”.

Il ministro degli Esteri di Teheran, Abbas Araghchi, aveva già fatto presente che, stando al Trattato di non proliferazione, “l’Iran ha tutto il diritto di avere il ciclo completo del combustibile nucleare. Posizioni estremistiche e retorica provocatoria non faranno che distruggere le possibilità di successo del negoziato”.

L’accordo è stato favorito anche da Khamenei, ma la riduzione delle percentuali di arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran si regge innanzitutto sulla disponibilità a cancellare alcune sanzioni. C’è dunque una posta in gioco che va oltre il ‘semplice’ – si fa per dire – nodo dell’atomica, anche per le geometrie variabili della geopolitica mediorientale.

Gli incontri di Muscat, svoltisi in maniera diretta e indiretta con la mediazione omanita, sono stati valutati come difficili, ma in generale anche come positivi da ambo le parti. Abbas Araghchi ha detto che le discussioni sono state più serie e sono andate maggiormente nello specifico rispetto alle tornate precedenti, ma ha ribadito che il nucleare civile non può essere messo in discussione.

È stato messo in conto un quinto round di confronto, la cui data va ancora definita. Al centro del dialogo vi saranno ancora aspetti tecnici riguardanti il problema dei livelli di arricchimento di uranio. È evidente, però, che proprio mentre la discussione passa nel campo tecnico, in realtà la palla è ormai passata completamente nel campo della politica.

Lo sbilanciamento delle posizioni statunitensi, lamentato anche dalle autorità iraniane insieme alla contraddittorietà espressa rispetto alle affermazioni precedenti, non lascia molto spazio a questioni tecniche, se la volontà di Washington è quella di smantellare il programma nucleare che Teheran considera vitale, e per il quale ha speso ingenti risorse.

L’amministrazione Trump vuole provare ad aumentare la pressione sui vertici iraniani, probabilmente dopo aver ricevuto a sua volta altre pressioni da quelli sionisti. Il dialogo regge, ma è chiaro che se gli USA non faranno un passo indietro rispetto alle ultime dichiarazioni e anche su alcune sanzioni, qualsiasi possibilità di accordo salterà.

E anche se la minaccia dell’intervento militare è stata ripetuta più volte, bisogna considerare che tutto il settore mediorientale si muove su equilibri fragili e collegati. Un attacco all’Iran potrebbe far saltare l’appena stipulato cessate il fuoco con lo Yemen, mentre mutano senza sosta le condizioni in Palestina, Siria e Libano.

Trump sta giocando sui tempi e sulle asimmetrie della regione, sapendo però che a forza di tirarla, la corda potrebbe spezzarsi, portando con sé pesanti ripercussioni a catena. Ma è anche chiaro che, con l’assunzione di una posizione così netta sul nucleare iraniano, alla Casa Bianca hanno deciso di voler assottigliare drasticamente i margini per evitare un’ulteriore escalation.

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Il PKK si scioglie e mette fine alla lotta armata contro la Turchia

Il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) ha deciso oggi di “sciogliersi e porre fine al conflitto armato con la Turchia” dopo 40 anni. A riferirlo è l’agenzia di stampa “Al Forat” ritenuta vicina al PKK, citando una dichiarazione rilasciata dal partito, secondo cui “le relazioni turco-curde devono essere riformulate”. La notizia è stata diffusa dall’agenzia Nova.

Il PKK “crede che i partiti politici curdi si assumeranno le loro responsabilità per sviluppare la democrazia curda e garantire la formazione di una nazione curda democratica”, si legge nella dichiarazione, secondo cui “il gruppo ha compiuto la sua missione storica”.

Alla fine di febbraio scorso, il fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, Abdullah Ocalan, detenuto in carcere sull’isola turca di Imrali dal 1999, aveva invitato il partito a deporre le armi, sottolineando la necessità del suo scioglimento. “Il crollo del vero socialismo negli anni ’90 per ragioni interne e i progressi nella libertà di espressione hanno portato alla perdita di significato del PKK. Pertanto, ha raggiunto la fine del suo ciclo di vita ed è necessario lo scioglimento”, aveva affermato il leader curdo, aggiungendo che “tutti i gruppi dovrebbero abbandonare le armi”.

Il PKK è stato bollato dalla Turchia come “organizzazione terroristica”, mentre anche l’Unione europea e gli Stati Uniti lo avevano iscritto sulla “lista nera”.

Il primo a sostenere questo processo era stato il governo della regione autonoma del Kurdistan iracheno che aveva accolto con favore l’appello di Ocalan sulla necessità dello scioglimento del PKK, esortando il gruppo a “rispettare il messaggio e a obbedire”. Come noto le organizzazioni del kurdistan iracheno da anni perseguono una politica di alleanza con gli Usa e la stessa Israele e di non belligeranza con la Turchia.

Il presidente del Kurdistan iracheno, Nechirvan Barzani, in una dichiarazione diffusa dall’agenzia di stampa “Rudaw”, aveva affermato: “Speriamo che quest’appello apra la strada alla pace e a una soluzione pacifica. Noi della regione del Kurdistan sosteniamo pienamente il processo di pace e siamo pronti a svolgere qualsiasi ruolo possibile per rendere il processo un successo”.
“Apprezziamo anche il ruolo del presidente (turco, Recep Tayyip) Erdogan e del governo dell’Akp (Partito della giustizia e dello sviluppo), che hanno lavorato per la pace con una visione chiara fin dall’inizio del suo governo”, aveva proseguito il presidente del Kurdistan iracheno, esprimendo la speranza che la prossima fase porti a una soluzione “con la partecipazione e la solidarietà di altre parti in Turchia” e che “la pace e la stabilità si diffondano nel Paese e nell’intera regione”.

L’esecutivo del partito curdo DEM in una dichiarazione scrive che: “Si apre una nuova pagina sul cammino verso una pace onorevole e una risoluzione democratica. Come Partito DEM, crediamo che in questa svolta storica, tutte le istituzioni politiche democratiche, in particolare la Grande assemblea nazionale della Turchia, debbano assumersi la responsabilità di risolvere la questione curda e raggiungere una vera democratizzazione in Turchia”.

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