Autonomia Differenziata: una decisione che lascia più problemi che soluzioni
La Corte Costituzionale ha deciso: la legge Calderoli sull’autonomia differenziata è sostanzialmente costituzionale, con qualche aggiusto. Alcuni degli aspetti più gravi, quelli che avrebbero trasformato il Parlamento in uno spettatore silenzioso o reso possibile la delega di interi blocchi di materie invece che singole funzioni, sono stati smontati. Tuttavia, il cuore del problema resta intatto, e con esso la minaccia di una disgregazione della Repubblica.
Un colpo per il governo, ma anche per le opposizioni
Questa decisione è una doccia fredda per tutti. Per il governo, che vede svuotato un progetto simbolo della sua agenda, con i suoi punti caratterizzanti dichiarati incostituzionali. Ma anche per le opposizioni, che sembrano già pronte a cantare vittoria. Perché? Perché molte di loro non sono contro ogni forma di autonomia differenziata, ma solo contro la legge Calderoli. Sembra siano pronte ad accontentarsi e fermarsi qui, con il lavoro a metà.
La posta in gioco è altissima
Per noi, che invece ci battiamo contro OGNI FORMA di autonomia differenziata, questa sentenza non è motivo di celebrazione. Al contrario, è l’ennesima dimostrazione di come l’unità del Paese venga sacrificata in nome di un individualismo regionale che allarga la forbice delle disuguaglianze territoriali. La riforma costituzionale del 2001 rimane il cuore del problema, con le modifiche all’art. 116 e l’introduzione del principio di sussidiarietà, ha aperto la strada e istituzionalizzato la degenerazione nei rapporti tra Stato e Regioni. E oggi, la Corte ce ne dà conferma: l’autonomia differenziata in se è legittima, proprio in base alle modifiche del 2001. E sono proprio quelle l’obiettivo strategico della nostra lotta.
E il referendum?
Il cammino verso il referendum abrogativo totale si fa ancora più in salita. L’esclusione delle Regioni a Statuto Speciale e le modifiche imposte dalla Corte potrebbero calmare molti animi, facendo perdere slancio a una battaglia che, invece, è più urgente che mai. Non possiamo permettere che queste modifiche cosmetiche mascherino la realtà: l’autonomia differenziata, anche nella sua forma rivista, è una minaccia per l’uguaglianza e la solidarietà tra i cittadini italiani.
Non abbassiamo la guardia
Invitiamo tutti i cittadini, le associazioni e le forze sociali a unirsi a noi. Non lasciamo che l’Italia venga divisa in tante piccole isole di disuguaglianza. La nostra battaglia è per un Paese unito, dove diritti e opportunità siano gli stessi in tutta la Repubblica, da Nord a Sud.
Continuiamo il nostro percorso di mobilitazione
Dal 20 ottobre, con la nostra assemblea nazionale, abbiamo avviato un intenso lavoro sul territorio con le assemblee territoriali già in corso e ci accompagneranno fino alla mobilitazione nazionale del prossimo 6 dicembre. E dal lì non ci fermeremo finché non avremo respinto ogni forma di autonomia differenziata.
Fonte
15/11/2024
No Meloni Day. Studenti in piazza in tutta Italia contro il governo dei tagli e della guerra
Oggi in tutta Italia in piazza contro il governo che spende in guerra e taglia sull’università, il governo dell’alternanza scuola-lavoro e della riforma della ricerca: l’atto 2° di un #NoMeloniDay sempre più necessario mentre scuole e università cadono a pezzi, gli affitti volano alle stelle e una classe politica incapace di darci risposte reprime e criminalizza le voci che si oppongono.
A Roma il corteo ha raggiunto il MIM di Valditara per concludersi al MUR, dove la sfilata del “somaro” ha ricordato ad Annamaria Bernini che non le saranno concesse altre menzogne: il taglio di 500 milioni al FFO e la riforma del preruolo che peggiora il precariato della ricerca sono l’apice di un attacco complessivo al mondo della formazione che non lasceremo passare. I lavoratori della scuola e della ricerca di @unionesindacaledibase in piazza accanto a noi l’hanno ribadito.
La rabbia che abbiamo portato al MUR è quella di piazze e cortei che hanno attraversato il Paese: uno sciopero riuscitissimo in più di 40 città nonostante i tentativi di repressione come le cariche a Torino. In tutte le città, mani rosse di vernice hanno di nuovo imbrattato i volti di Valditara, Bernini, Meloni. È perché il sangue di cui sono colpevoli, dai morti in alternanza ai 50.000 morti in Medio Oriente, è una macchia indelebile.
Le bandiere della Palestina sfilate nei cortei ricordano che siamo al fianco dei popoli che lottano e resistono. E se il nuovo progetto di sicurezza della Bernini vuole più intelligence per respingere ingerenze esterne – russe, cinesi o iraniane che siano – sulle università, noi vogliamo scuole, università e ricerca libere da complicità con Israele e con l’industria militare che sta portando il mondo alla guerra, e anche per questo abbiamo promosso la manifestazione nazionale del 30 novembre a Circo Massimo, Roma.
Dalle piazze di tutta Italia arriva un’indicazione: costituire un’alternativa è necessario, è possibile, e la strada è tracciata. Ogni giorno è No Meloni Day!
Fonte e foto
A Roma il corteo ha raggiunto il MIM di Valditara per concludersi al MUR, dove la sfilata del “somaro” ha ricordato ad Annamaria Bernini che non le saranno concesse altre menzogne: il taglio di 500 milioni al FFO e la riforma del preruolo che peggiora il precariato della ricerca sono l’apice di un attacco complessivo al mondo della formazione che non lasceremo passare. I lavoratori della scuola e della ricerca di @unionesindacaledibase in piazza accanto a noi l’hanno ribadito.
La rabbia che abbiamo portato al MUR è quella di piazze e cortei che hanno attraversato il Paese: uno sciopero riuscitissimo in più di 40 città nonostante i tentativi di repressione come le cariche a Torino. In tutte le città, mani rosse di vernice hanno di nuovo imbrattato i volti di Valditara, Bernini, Meloni. È perché il sangue di cui sono colpevoli, dai morti in alternanza ai 50.000 morti in Medio Oriente, è una macchia indelebile.
Le bandiere della Palestina sfilate nei cortei ricordano che siamo al fianco dei popoli che lottano e resistono. E se il nuovo progetto di sicurezza della Bernini vuole più intelligence per respingere ingerenze esterne – russe, cinesi o iraniane che siano – sulle università, noi vogliamo scuole, università e ricerca libere da complicità con Israele e con l’industria militare che sta portando il mondo alla guerra, e anche per questo abbiamo promosso la manifestazione nazionale del 30 novembre a Circo Massimo, Roma.
Dalle piazze di tutta Italia arriva un’indicazione: costituire un’alternativa è necessario, è possibile, e la strada è tracciata. Ogni giorno è No Meloni Day!
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Gli Usa legittimano il genocidio palestinese attuato da Israele
A chiarire ancora una volta il ruolo degli Stati Uniti nei confronti di Israele sono arrivate le dichiarazioni del Dipartimento di Stato, secondo cui le accuse ad Israele di aver utilizzato metodi da genocidio a Gaza da parte di una commissione speciale dell’Onu sono “infondate” per gli Stati Uniti. Ad affermarlo è stato il vice portavoce del dipartimento di Stato americano Vedant Patel in un briefing con la stampa. “Crediamo che questo tipo di frasi e questo tipo di accuse siano certamente infondate”, ha aggiunto Patel.
È bene sottolineare che Patel è parte dell’amministrazione uscente di Biden e non di quella entrante di Trump, una conferma in più della complicità bipartisan negli USA con i crimini di guerra israeliani.
Le prime possibili nomine della futura Amministrazione Trump rafforzano la linea filoisraeliana negli USA. Marco Rubio e Michael Waltz, i cui nomi circolano rispettivamente come Segretario di Stato e Segretario per la Sicurezza nazionale, sono favorevoli a una linea dura contro l’Iran e hanno espresso le loro posizioni a favore di Israele. Rubio ha detto che non si batterà mai per un cessate il fuoco a Gaza perché Hamas è l’unico da accusare per la morte dei civili. Ieri è stato presentato anche il candidato per il Pentagono ed è stato fatto il nome di Pete Hegseth, un falco oltranzista contro l’Iran. Anche il futuro ambasciatore americano in Israele, Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas, è un sostenitore di Israele, a tal punto da essersi esposto a favore dell’annessione di parte della Cisgiordania.
Proprio ieri un rapporto di una commissione speciale delle Nazioni Unite ha accusato Israele di usare la fame come arma di guerra e di politiche e pratiche a Gaza che potrebbero equivalere a una “possibilità di genocidio”.
Il comitato speciale comprendeva i rappresentanti di tre Stati membri: Malesia, Senegal e Sri Lanka.
“Le politiche e le pratiche di Israele durante il periodo di riferimento sono coerenti con le caratteristiche del genocidio”, afferma il rapporto, esortando a prendere provvedimenti immediati per proteggere le vite dei civili.
La commissione speciale dell’ONU ha anche concluso che Israele sta commettendo diverse violazioni del diritto internazionale, e non solo a Gaza. “I civili sono stati uccisi in massa in modo indiscriminato e sproporzionato a Gaza, mentre nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme Est, i coloni israeliani, l’esercito e il personale di sicurezza hanno continuato a violare impunemente i diritti umani e il diritto umanitario”.
Non solo l’Onu ma anche Human Rights Watch ha recentemente pubblicato un dossier di 154 pagine in cui accusa Israele di crimini di guerra a Gaza. Secondo la ONG, gli ordini di evacuazione emessi dall’esercito israeliano sarebbero parte di una strategia volta a creare “zone cuscinetto” e “corridoi di sicurezza”, che conducono a uno “sfollamento forzato deliberato e massiccio” dei civili palestinesi. Questa pratica, che la ONG definisce “crimine di guerra” e “pulizia etnica,” rappresenta una grave violazione del diritto internazionale e dei diritti umani.
In attesa del passaggio di poteri tra Biden e Trump, Israele sta già muovendo le proprie pedine per condizionare le scelte della nuova amministrazione presidenziale che però si presenta come apertamente – e spudoratamente – filoisraeliana.
Ron Dermer, ministro degli affari strategici di Netanyahu, è già stato domenica scorsa a Mar-a-Lago, per il suo tour negli Stati Uniti e, secondo il Washington Post, ha detto a Donald Trump e Jared Kushner che Israele si sta affrettando a promuovere un accordo di cessate il fuoco in Libano. L’obiettivo di Israele sarebbe garantire una rapida vittoria in politica estera al presidente eletto. “C’è un accordo sul fatto che Israele regalerebbe qualcosa a Trump... che a gennaio ci sarà un accordo sul Libano”, ha detto un funzionario israeliano al Washington Post. Il cessate il fuoco ci sarebbe però non prima di gennaio quando Trump si insedierà ufficialmente alla Casa Bianca. Il problema è che nell’accordo Israele vuole semaforo verde alla propria totale libertà d’azione sul piano militare, un “dettaglio” indigeribile per i libanesi.
In giro per il Libano c’è però anche Massad Boulos, parente acquisito e consigliere di Trump, il quale ha incontrato il capo del partito cristiano di destra libanese Kataeb. Boulos ha anche incontrato Nadim Gemayel, il figlio del presidente libanese filo-americano e filo-israeliano Bachir Gemayel.
“Questa è un’opportunità per il Libano di essere presente al centro dell’amministrazione statunitense e delle sue preoccupazioni, e per tutti noi di lavorare per la stabilità e la pace nella regione”, ha scritto Nadim Gemayel su X. Boulos non ha alcun ruolo ufficiale nella prossima amministrazione Trump, ma è stato un consulente chiave per la campagna elettorale di Trump nei confronti degli arabi americani.
Infine, il miliardario statunitense Elon Musk, consigliere di Donald Trump e futuro membro del suo gabinetto avrebbe incontrato lunedì a New York l’ambasciatore iraniano alle Nazioni Unite, Amir Saeid Iravani. Lo hanno riferito fonti anonime al New York Times, aggiungendo che il colloquio sarebbe stato organizzato per “discutere su come allentare le tensioni” tra Stati Uniti e Iran. L’incontro, svoltosi in una “località segreta”, è durato oltre un’ora, e alcuni funzionari iraniani anonimi lo hanno definito “positivo, una buona notizia”.
Intanto il fronte della guerra senza limiti di Israele in Medio Oriente continua ad estendersi.
Almeno 15 persone sono state uccise in Siria negli attacchi aerei israeliani che hanno preso di mira un quartiere della capitale Damasco e un suo sobborgo, secondo quanto riferito dal ministero della Difesa siriano.
“Il nemico israeliano ha effettuato un attacco aereo dal Golan siriano occupato, prendendo di mira edifici residenziali nel quartiere Mazzeh di Damasco e nella regione di Qudsaya uccidendo 15 persone e ferendone altre 16, tra cui donne e bambini”, riporta un comunicato del ministero pubblicato dall’agenzia di stampa Sana.
Fonte
È bene sottolineare che Patel è parte dell’amministrazione uscente di Biden e non di quella entrante di Trump, una conferma in più della complicità bipartisan negli USA con i crimini di guerra israeliani.
Le prime possibili nomine della futura Amministrazione Trump rafforzano la linea filoisraeliana negli USA. Marco Rubio e Michael Waltz, i cui nomi circolano rispettivamente come Segretario di Stato e Segretario per la Sicurezza nazionale, sono favorevoli a una linea dura contro l’Iran e hanno espresso le loro posizioni a favore di Israele. Rubio ha detto che non si batterà mai per un cessate il fuoco a Gaza perché Hamas è l’unico da accusare per la morte dei civili. Ieri è stato presentato anche il candidato per il Pentagono ed è stato fatto il nome di Pete Hegseth, un falco oltranzista contro l’Iran. Anche il futuro ambasciatore americano in Israele, Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas, è un sostenitore di Israele, a tal punto da essersi esposto a favore dell’annessione di parte della Cisgiordania.
Proprio ieri un rapporto di una commissione speciale delle Nazioni Unite ha accusato Israele di usare la fame come arma di guerra e di politiche e pratiche a Gaza che potrebbero equivalere a una “possibilità di genocidio”.
Il comitato speciale comprendeva i rappresentanti di tre Stati membri: Malesia, Senegal e Sri Lanka.
“Le politiche e le pratiche di Israele durante il periodo di riferimento sono coerenti con le caratteristiche del genocidio”, afferma il rapporto, esortando a prendere provvedimenti immediati per proteggere le vite dei civili.
La commissione speciale dell’ONU ha anche concluso che Israele sta commettendo diverse violazioni del diritto internazionale, e non solo a Gaza. “I civili sono stati uccisi in massa in modo indiscriminato e sproporzionato a Gaza, mentre nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme Est, i coloni israeliani, l’esercito e il personale di sicurezza hanno continuato a violare impunemente i diritti umani e il diritto umanitario”.
Non solo l’Onu ma anche Human Rights Watch ha recentemente pubblicato un dossier di 154 pagine in cui accusa Israele di crimini di guerra a Gaza. Secondo la ONG, gli ordini di evacuazione emessi dall’esercito israeliano sarebbero parte di una strategia volta a creare “zone cuscinetto” e “corridoi di sicurezza”, che conducono a uno “sfollamento forzato deliberato e massiccio” dei civili palestinesi. Questa pratica, che la ONG definisce “crimine di guerra” e “pulizia etnica,” rappresenta una grave violazione del diritto internazionale e dei diritti umani.
In attesa del passaggio di poteri tra Biden e Trump, Israele sta già muovendo le proprie pedine per condizionare le scelte della nuova amministrazione presidenziale che però si presenta come apertamente – e spudoratamente – filoisraeliana.
Ron Dermer, ministro degli affari strategici di Netanyahu, è già stato domenica scorsa a Mar-a-Lago, per il suo tour negli Stati Uniti e, secondo il Washington Post, ha detto a Donald Trump e Jared Kushner che Israele si sta affrettando a promuovere un accordo di cessate il fuoco in Libano. L’obiettivo di Israele sarebbe garantire una rapida vittoria in politica estera al presidente eletto. “C’è un accordo sul fatto che Israele regalerebbe qualcosa a Trump... che a gennaio ci sarà un accordo sul Libano”, ha detto un funzionario israeliano al Washington Post. Il cessate il fuoco ci sarebbe però non prima di gennaio quando Trump si insedierà ufficialmente alla Casa Bianca. Il problema è che nell’accordo Israele vuole semaforo verde alla propria totale libertà d’azione sul piano militare, un “dettaglio” indigeribile per i libanesi.
In giro per il Libano c’è però anche Massad Boulos, parente acquisito e consigliere di Trump, il quale ha incontrato il capo del partito cristiano di destra libanese Kataeb. Boulos ha anche incontrato Nadim Gemayel, il figlio del presidente libanese filo-americano e filo-israeliano Bachir Gemayel.
“Questa è un’opportunità per il Libano di essere presente al centro dell’amministrazione statunitense e delle sue preoccupazioni, e per tutti noi di lavorare per la stabilità e la pace nella regione”, ha scritto Nadim Gemayel su X. Boulos non ha alcun ruolo ufficiale nella prossima amministrazione Trump, ma è stato un consulente chiave per la campagna elettorale di Trump nei confronti degli arabi americani.
Infine, il miliardario statunitense Elon Musk, consigliere di Donald Trump e futuro membro del suo gabinetto avrebbe incontrato lunedì a New York l’ambasciatore iraniano alle Nazioni Unite, Amir Saeid Iravani. Lo hanno riferito fonti anonime al New York Times, aggiungendo che il colloquio sarebbe stato organizzato per “discutere su come allentare le tensioni” tra Stati Uniti e Iran. L’incontro, svoltosi in una “località segreta”, è durato oltre un’ora, e alcuni funzionari iraniani anonimi lo hanno definito “positivo, una buona notizia”.
Intanto il fronte della guerra senza limiti di Israele in Medio Oriente continua ad estendersi.
Almeno 15 persone sono state uccise in Siria negli attacchi aerei israeliani che hanno preso di mira un quartiere della capitale Damasco e un suo sobborgo, secondo quanto riferito dal ministero della Difesa siriano.
“Il nemico israeliano ha effettuato un attacco aereo dal Golan siriano occupato, prendendo di mira edifici residenziali nel quartiere Mazzeh di Damasco e nella regione di Qudsaya uccidendo 15 persone e ferendone altre 16, tra cui donne e bambini”, riporta un comunicato del ministero pubblicato dall’agenzia di stampa Sana.
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USA - «Harris sconfitta perché ha abbandonato la classe operaia»
Lo staff di Kamala Harris ha addebitato la sconfitta della vicepresidente al tardivo ritiro di Joe Biden dalla corsa e alle scelte politiche dell’ex presidente. Commentatori ed editorialisti hanno puntato poi il dito contro quella fetta di elettorato, soprattutto nelle comunità afroamericane e latinos, che non se l’è sentita di votare una donna.
Indubbiamente Donald Trump ha vinto perché ha saputo mobilitare a suo favore una quota maggiore, rispetto al passato, di elettori provenienti dalla minoranze etniche, ottenendo un’ottima performance tra i votanti maschi.
Ma subito dopo l’ufficializzazione dei risultati elettorali Bernie Sanders, capofila di una corrente socialista interna ed esterna al Partito Democratico, ha individuato ragioni più profonde e strutturali. «Non dovrebbe suscitare grande sorpresa che un Partito Democratico che ha abbandonato la classe operaia si accorga che la classe operaia lo abbia abbandonato» ha scritto in uno scarno comunicato il senatore rieletto nel Vermont. Sanders ha poi spiegato: «Prima è stata la classe operaia bianca, e ora anche i lavoratori latinoamericani e neri. Mentre la leadership democratica difende lo status quo, il popolo americano è arrabbiato e vuole un cambiamento. E ha ragione».
Commentando il voto, Sanders ha elencato alcuni degli elementi che hanno penalizzato Harris: diseguaglianze record, due terzi degli americani che vivono “di stipendio in stipendio”, standard di vita in calo, costi elevati dei farmaci, assenza di diritti di base che i cittadini di altri paesi danno per scontate come l’assicurazione sanitaria pubblica e il congedo familiare e sanitario retribuito.
«I grandi interessi economici e i consulenti ben pagati che controllano il Partito Democratico impareranno qualche vera lezione dalla sua disastrosa campagna?» si è chiesto infine l’ex sfidante di Joe Biden alle primarie del 2020. Il suo verdetto però è pessimista: «Hanno qualche idea su come affrontare la sempre più potente oligarchia che ha così tanto potere economico e politico? Probabilmente no».
Dai dati elettorali risulta evidente che Trump ha saputo mobilitare non solo l’elettorato reazionario e conservatore, ma anche molti elettori che, delusi dalle politiche di Joe Biden, hanno “provato” a votare a destra nella pur ingenua speranza di innescare un cambiamento. La svolta moderata impressa da Kamala Harris soprattutto nell’ultima fase della campagna elettorale, poi, ha convinto molti elettori ed elettrici progressisti ad astenersi o in qualche caso a votare per la candidata dei Verdi Jill Stein, scelta compiuta anche da una parte dei cittadini di origine araba o di religione musulmana scioccati dal sostegno bipartisan ad Israele di democratici e repubblicani.
Se Joe Biden, dopo la vittoria alle primarie – ottenuta grazie alla mobilitazione della grande stampa e dei potentati economici sponsor del Partito Democratico che assolutamente volevano evitare che prevalesse un Bernie Sanders considerato un estremista di sinistra – aveva inserito alcune delle proposte dello sfidante socialista nel suo programma di governo, durante il mandato le ha messe in un cassetto. E Kamala Harris ha chiarito che non le avrebbe neanche prese in considerazione avvicinando i suoi obiettivi a quelli dei repubblicani moderati.
In un intervento sulla rivista della sinistra americana Jacobin, Branko Marketic dà ragione al senatore del Vermont ed aggiunge altri elementi.
L’intera campagna elettorale della candidata democratica, scrive Marketic, ha ignorato sistematicamente le preoccupazioni dell’elettorato in campo economico, offrendo una manciata di risposte populiste – come la promessa di sovvenzionare con 25 mila dollari l’acquisto della prima casa e l’estensione del Medicare all’assistenza domiciliare per i pensionati – all’interno di un discorso interamente incentrato sulla difesa del diritto all’aborto e della democrazia, basato sulla denuncia di quanto Trump fosse pericoloso.
«Non sorprende affatto che milioni di elettori della classe operaia di diversa estrazione razziale abbiano respinto questa proposta o non si siano sentiti abbastanza ispirati a votare. In un periodo di costi degli alloggi alle stelle, l’unica politica abitativa della campagna di Harris era rivolta agli aspiranti proprietari di casa (un elettorato favorevole a Trump) e non offriva nulla agli affittuari, che sono in gran parte giovani, con redditi bassi e non bianchi. Harris non ha offerto alcuna politica sanitaria per chiunque abbia meno di sessantacinque anni, anche se rimane la principale fonte di ansia finanziaria per l’americano medio. Non ha fatto campagna per un salario minimo più alto, in un periodo in cui quasi un quarto dei lavoratori americani, ovvero 39 milioni, guadagna salari bassi (circa 35.000 dollari all’anno), tra cui circa un terzo dei lavoratori neri e latini» spiega il giornalista.
Sempre su Jacobin, in un articolo scritto poco prima del voto, Milan Loewer ha accusato Kamala Harris di aver abbandonato i messaggi anti-élite che avevano caratterizzato la prima parte della campagna elettorale per venire incontro alle pressioni della comunità imprenditoriale, scommettendo sull’inseguimento degli elettori moderati e laureati.
Il ricercatore del Center for Working-Class Politics di New York elenca ed esamina i risultati di un sondaggio condotto su un campione di 1000 elettori della Pennsylvania, uno degli “stati in bilico” conquistando i quali Trump si è assicurato la vittoria. Secondo la rilevazione, le dichiarazioni sull’economia considerate più “populiste” e di sinistra sono assai più condivise dall’elettorato rispetto a quelle sulla difesa astratta della democrazia utilizzate dalla candidata democratica.
«Mentre alcuni sono diffidenti, temendo che questo tipo di comunicazione possa dissuadere gli elettori «moderati» indecisi cruciali per le elezioni, abbiamo scoperto che è vero il contrario: l’unico altro gruppo che ha dimostrato un sostegno altrettanto significativo è stato infatti quello degli elettori indipendenti, che rispondono in modo più positivo alle forti affermazioni populiste e progressiste in campo economico rispetto a quelle sulla democrazia di circa l’11%» scrive Loewer.
Il ricercatori spiega come gli intervistati abbiano messo le élite in cima alla loro lista di bersagli, percepiti come influenze dannose nella vita del paese: «il nostro sondaggio mostra che gli indipendenti e gli intervistati della working class sono significativamente più diffidenti nei confronti delle élite in generale. Apparentemente quindi, conquistare il consenso di questi gruppi non richiede una posizione più «moderata» contro l’avidità delle imprese o la corruzione legalizzata. Il sondaggio suggerisce anche che le argomentazioni contro le élite culturali e l’establishment «woke» suonerebbero a vuoto se contrastate da una politica che chiama in causa i principali obiettivi dell’ira anti-élite: i lobbisti, i finanziatori e le corporation che manipolano il sistema».
Da quando è entrato sulla scena nazionale nel 2016, Trump si è descritto come un campione del cittadino medio, in lotta contro l’establishment antipatriottico. Se i democratici rimarranno legati alle istituzioni e agli ambienti imprenditoriali odiati dai cittadini, «Trump sarà in grado di restituire il sentimento anti-élite attraverso una lente partigiana e culturale».
Mentre Paolo Heidemann denuncia in un articolo che «nell’era di Donald Trump, i democratici sono diventati, incredibilmente, il partito preferito dal capitale americano» spiegando come e perché Kamala Harris ha ricevuto donazioni record da parte dei grandi e medi gruppi imprenditoriali statunitensi, David Sirota scrive: «In un paese in declino, il rifiuto dei democratici nei confronti della classe operaia (e l’aperta ostilità del partito verso i politici populisti al suo interno) non può che creare le condizioni politiche migliori per un uomo forte conservatore che promette di rendere di nuovo grande l’America».
Secondo il giornalista e scrittore statunitense, «Trump e i suoi compari hanno inventato storie di burocrati autoritari, di guerrieri e bande di migranti per tessere una narrazione secondo cui il governo delle élite è così (…) concentrato sulla politica dell’identità, che non gli importa della crisi di accessibilità che sta rovinando la vita quotidiana di tutti. I democratici hanno risposto tirando fuori le star di Hollywood, i Cheney e il miliardario Mark Cuban per raccontare la storia di un assalto alle norme dell’establishment che sta mettendo a repentaglio il brunch».
Sirota punta il dito contro la scelta di Kamala Harris di circondarsi di dirigenti repubblicani ostili a Trump, spaventando gli elettori progressisti, e riassume i passi che hanno convinto una parte importante della classe operaia statunitense ad abbandonare il partito, dall’approvazione del NAFTA (North American Free Trade Agreement) da parte dell’amministrazione Clinton negli anni ’90 al tradimento da parte di Barack Obama delle promesse di una rivoluzione legislativa favorevole agli strati medio-bassi della società. «Il tradimento ha provocato un’ondata di consensi della classe operaia per la prima candidatura presidenziale di Trump e una rinascita del populismo di destra» spiega il commentatore, secondo il quale non deve stupire che molti elettori abbiano snobbato il Partito Democratico che pure prometteva di salvare la democrazia americana dall’assalto di Trump: «Le tendenze autoritarie antidemocratiche esistono certamente in alcune parti dell’elettorato. E se l’esperienza economica vissuta dagli americani peggiora e il governo viene visto come complice, quelle tendenze probabilmente si intensificheranno».
Su un’altra rivista della sinistra radicale statunitense, In These Times, Jeff Schuhrke punta il dito contro l’elitarismo della dirigenza democratica, che dopo le elezioni ha accusato l’elettorato popolare di aver voltato le spalle a Biden nonostante tutto quello che il presidente ha fatto per avvantaggiarlo.
«La classe operaia statunitense è eterogenea, stratificata e ampiamente disorganizzata, il che rende facile per fascisti come Trump minare la solidarietà di classe mettendo certi lavoratori (soprattutto uomini e bianchi) contro altri. E di sicuro, molti dei più accaniti lealisti di Trump, indipendentemente dal loro status di classe, sono razzisti, misogini e transfobici» scrive il giornalista, secondo il quale però la causa principale della sconfitta di Kamala Harris è la scelta da parte dei democratici di voltare le spalle alla working class.
Schuhrke spiega come la decisione dell’amministrazione Biden di cancellare sussidi e programmi sociali varati nel 2020 per permettere a decine di milioni di persone di far fronte alle conseguenze economiche della pandemia abbiano fatto infuriare settori importanti del tradizionale elettorato democratico.
«Screditare la stragrande maggioranza dell’elettorato non è solo una risposta poco seria e controproducente all’attuale ascesa del fascismo, ma è anche ciò che ci ha portato fin qui» conclude Schuhrke.
Sempre su In These Times, Adam Johnson attacca la scelta della dirigenza democratica di evitare ogni forma di autocritica: «coloro che vengono incolpati non sono le élite del Partito Democratico, le istituzioni mediatiche liberali o il mondo della consulenza aziendale in cui operano, ma forze economiche esterne, persone transgender, immigrati e una schiera di gruppi minoritari impotenti o generalizzazioni così vaghe da risultare prive di senso».
Per il commentatore «Che i democratici stiano dissanguando gli elettori della classe operaia di tutte le fasce demografiche è indiscutibile, quindi bisogna trovare un colpevole. Ovviamente la soluzione non può essere una discussione sostenuta sul populismo economico di sinistra, poiché ciò metterebbe in discussione gli interessi di classe dei donatori e dei consulenti aziendali».
Kamala Harris e la dirigenza democratica hanno accolto con stizza le critiche provenienti dalla propria base e dai settori più progressisti. Ma i sondaggi e le rilevazioni dei flussi elettorali sono unanimi: i temi su cui ha puntato la candidata non rappresentano la priorità per la maggior parte degli elettori, per non parlare dell’ambiguità di molte proposte. La maggior parte delle persone sono più preoccupate delle difficoltà economiche, dell’inflazione, dei prezzi crescenti degli alloggi e delle cure mediche che delle sorti della democrazia o di diritti civili che, pur garantiti dalla legge, spesso non possono essere esercitati da chi ha redditi troppo bassi. In un contesto simile le paure nei confronti degli immigrati illegali, considerati – a torto – dei competitori per l’accesso alle risorse pubbliche e al lavoro – sono aumentate e hanno condotto una parte crescente dell’elettorato a scegliere Trump e le sue promesse di sigillare i confini e di operare una deportazione di massa dei clandestini.
Non ha pagato neanche la scelta di sostenere l’Ucraina con decine di miliardi di euro che a giudizio di molti elettori si sarebbero dovuti impiegare per migliorare le condizioni di vita di chi, negli Stati Uniti, non se la passa troppo bene.
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Indubbiamente Donald Trump ha vinto perché ha saputo mobilitare a suo favore una quota maggiore, rispetto al passato, di elettori provenienti dalla minoranze etniche, ottenendo un’ottima performance tra i votanti maschi.
Ma subito dopo l’ufficializzazione dei risultati elettorali Bernie Sanders, capofila di una corrente socialista interna ed esterna al Partito Democratico, ha individuato ragioni più profonde e strutturali. «Non dovrebbe suscitare grande sorpresa che un Partito Democratico che ha abbandonato la classe operaia si accorga che la classe operaia lo abbia abbandonato» ha scritto in uno scarno comunicato il senatore rieletto nel Vermont. Sanders ha poi spiegato: «Prima è stata la classe operaia bianca, e ora anche i lavoratori latinoamericani e neri. Mentre la leadership democratica difende lo status quo, il popolo americano è arrabbiato e vuole un cambiamento. E ha ragione».
Commentando il voto, Sanders ha elencato alcuni degli elementi che hanno penalizzato Harris: diseguaglianze record, due terzi degli americani che vivono “di stipendio in stipendio”, standard di vita in calo, costi elevati dei farmaci, assenza di diritti di base che i cittadini di altri paesi danno per scontate come l’assicurazione sanitaria pubblica e il congedo familiare e sanitario retribuito.
«I grandi interessi economici e i consulenti ben pagati che controllano il Partito Democratico impareranno qualche vera lezione dalla sua disastrosa campagna?» si è chiesto infine l’ex sfidante di Joe Biden alle primarie del 2020. Il suo verdetto però è pessimista: «Hanno qualche idea su come affrontare la sempre più potente oligarchia che ha così tanto potere economico e politico? Probabilmente no».
Dai dati elettorali risulta evidente che Trump ha saputo mobilitare non solo l’elettorato reazionario e conservatore, ma anche molti elettori che, delusi dalle politiche di Joe Biden, hanno “provato” a votare a destra nella pur ingenua speranza di innescare un cambiamento. La svolta moderata impressa da Kamala Harris soprattutto nell’ultima fase della campagna elettorale, poi, ha convinto molti elettori ed elettrici progressisti ad astenersi o in qualche caso a votare per la candidata dei Verdi Jill Stein, scelta compiuta anche da una parte dei cittadini di origine araba o di religione musulmana scioccati dal sostegno bipartisan ad Israele di democratici e repubblicani.
Se Joe Biden, dopo la vittoria alle primarie – ottenuta grazie alla mobilitazione della grande stampa e dei potentati economici sponsor del Partito Democratico che assolutamente volevano evitare che prevalesse un Bernie Sanders considerato un estremista di sinistra – aveva inserito alcune delle proposte dello sfidante socialista nel suo programma di governo, durante il mandato le ha messe in un cassetto. E Kamala Harris ha chiarito che non le avrebbe neanche prese in considerazione avvicinando i suoi obiettivi a quelli dei repubblicani moderati.
In un intervento sulla rivista della sinistra americana Jacobin, Branko Marketic dà ragione al senatore del Vermont ed aggiunge altri elementi.
L’intera campagna elettorale della candidata democratica, scrive Marketic, ha ignorato sistematicamente le preoccupazioni dell’elettorato in campo economico, offrendo una manciata di risposte populiste – come la promessa di sovvenzionare con 25 mila dollari l’acquisto della prima casa e l’estensione del Medicare all’assistenza domiciliare per i pensionati – all’interno di un discorso interamente incentrato sulla difesa del diritto all’aborto e della democrazia, basato sulla denuncia di quanto Trump fosse pericoloso.
«Non sorprende affatto che milioni di elettori della classe operaia di diversa estrazione razziale abbiano respinto questa proposta o non si siano sentiti abbastanza ispirati a votare. In un periodo di costi degli alloggi alle stelle, l’unica politica abitativa della campagna di Harris era rivolta agli aspiranti proprietari di casa (un elettorato favorevole a Trump) e non offriva nulla agli affittuari, che sono in gran parte giovani, con redditi bassi e non bianchi. Harris non ha offerto alcuna politica sanitaria per chiunque abbia meno di sessantacinque anni, anche se rimane la principale fonte di ansia finanziaria per l’americano medio. Non ha fatto campagna per un salario minimo più alto, in un periodo in cui quasi un quarto dei lavoratori americani, ovvero 39 milioni, guadagna salari bassi (circa 35.000 dollari all’anno), tra cui circa un terzo dei lavoratori neri e latini» spiega il giornalista.
Sempre su Jacobin, in un articolo scritto poco prima del voto, Milan Loewer ha accusato Kamala Harris di aver abbandonato i messaggi anti-élite che avevano caratterizzato la prima parte della campagna elettorale per venire incontro alle pressioni della comunità imprenditoriale, scommettendo sull’inseguimento degli elettori moderati e laureati.
Il ricercatore del Center for Working-Class Politics di New York elenca ed esamina i risultati di un sondaggio condotto su un campione di 1000 elettori della Pennsylvania, uno degli “stati in bilico” conquistando i quali Trump si è assicurato la vittoria. Secondo la rilevazione, le dichiarazioni sull’economia considerate più “populiste” e di sinistra sono assai più condivise dall’elettorato rispetto a quelle sulla difesa astratta della democrazia utilizzate dalla candidata democratica.
«Mentre alcuni sono diffidenti, temendo che questo tipo di comunicazione possa dissuadere gli elettori «moderati» indecisi cruciali per le elezioni, abbiamo scoperto che è vero il contrario: l’unico altro gruppo che ha dimostrato un sostegno altrettanto significativo è stato infatti quello degli elettori indipendenti, che rispondono in modo più positivo alle forti affermazioni populiste e progressiste in campo economico rispetto a quelle sulla democrazia di circa l’11%» scrive Loewer.
Il ricercatori spiega come gli intervistati abbiano messo le élite in cima alla loro lista di bersagli, percepiti come influenze dannose nella vita del paese: «il nostro sondaggio mostra che gli indipendenti e gli intervistati della working class sono significativamente più diffidenti nei confronti delle élite in generale. Apparentemente quindi, conquistare il consenso di questi gruppi non richiede una posizione più «moderata» contro l’avidità delle imprese o la corruzione legalizzata. Il sondaggio suggerisce anche che le argomentazioni contro le élite culturali e l’establishment «woke» suonerebbero a vuoto se contrastate da una politica che chiama in causa i principali obiettivi dell’ira anti-élite: i lobbisti, i finanziatori e le corporation che manipolano il sistema».
Da quando è entrato sulla scena nazionale nel 2016, Trump si è descritto come un campione del cittadino medio, in lotta contro l’establishment antipatriottico. Se i democratici rimarranno legati alle istituzioni e agli ambienti imprenditoriali odiati dai cittadini, «Trump sarà in grado di restituire il sentimento anti-élite attraverso una lente partigiana e culturale».
Mentre Paolo Heidemann denuncia in un articolo che «nell’era di Donald Trump, i democratici sono diventati, incredibilmente, il partito preferito dal capitale americano» spiegando come e perché Kamala Harris ha ricevuto donazioni record da parte dei grandi e medi gruppi imprenditoriali statunitensi, David Sirota scrive: «In un paese in declino, il rifiuto dei democratici nei confronti della classe operaia (e l’aperta ostilità del partito verso i politici populisti al suo interno) non può che creare le condizioni politiche migliori per un uomo forte conservatore che promette di rendere di nuovo grande l’America».
Secondo il giornalista e scrittore statunitense, «Trump e i suoi compari hanno inventato storie di burocrati autoritari, di guerrieri e bande di migranti per tessere una narrazione secondo cui il governo delle élite è così (…) concentrato sulla politica dell’identità, che non gli importa della crisi di accessibilità che sta rovinando la vita quotidiana di tutti. I democratici hanno risposto tirando fuori le star di Hollywood, i Cheney e il miliardario Mark Cuban per raccontare la storia di un assalto alle norme dell’establishment che sta mettendo a repentaglio il brunch».
Sirota punta il dito contro la scelta di Kamala Harris di circondarsi di dirigenti repubblicani ostili a Trump, spaventando gli elettori progressisti, e riassume i passi che hanno convinto una parte importante della classe operaia statunitense ad abbandonare il partito, dall’approvazione del NAFTA (North American Free Trade Agreement) da parte dell’amministrazione Clinton negli anni ’90 al tradimento da parte di Barack Obama delle promesse di una rivoluzione legislativa favorevole agli strati medio-bassi della società. «Il tradimento ha provocato un’ondata di consensi della classe operaia per la prima candidatura presidenziale di Trump e una rinascita del populismo di destra» spiega il commentatore, secondo il quale non deve stupire che molti elettori abbiano snobbato il Partito Democratico che pure prometteva di salvare la democrazia americana dall’assalto di Trump: «Le tendenze autoritarie antidemocratiche esistono certamente in alcune parti dell’elettorato. E se l’esperienza economica vissuta dagli americani peggiora e il governo viene visto come complice, quelle tendenze probabilmente si intensificheranno».
Su un’altra rivista della sinistra radicale statunitense, In These Times, Jeff Schuhrke punta il dito contro l’elitarismo della dirigenza democratica, che dopo le elezioni ha accusato l’elettorato popolare di aver voltato le spalle a Biden nonostante tutto quello che il presidente ha fatto per avvantaggiarlo.
«La classe operaia statunitense è eterogenea, stratificata e ampiamente disorganizzata, il che rende facile per fascisti come Trump minare la solidarietà di classe mettendo certi lavoratori (soprattutto uomini e bianchi) contro altri. E di sicuro, molti dei più accaniti lealisti di Trump, indipendentemente dal loro status di classe, sono razzisti, misogini e transfobici» scrive il giornalista, secondo il quale però la causa principale della sconfitta di Kamala Harris è la scelta da parte dei democratici di voltare le spalle alla working class.
Schuhrke spiega come la decisione dell’amministrazione Biden di cancellare sussidi e programmi sociali varati nel 2020 per permettere a decine di milioni di persone di far fronte alle conseguenze economiche della pandemia abbiano fatto infuriare settori importanti del tradizionale elettorato democratico.
«Screditare la stragrande maggioranza dell’elettorato non è solo una risposta poco seria e controproducente all’attuale ascesa del fascismo, ma è anche ciò che ci ha portato fin qui» conclude Schuhrke.
Sempre su In These Times, Adam Johnson attacca la scelta della dirigenza democratica di evitare ogni forma di autocritica: «coloro che vengono incolpati non sono le élite del Partito Democratico, le istituzioni mediatiche liberali o il mondo della consulenza aziendale in cui operano, ma forze economiche esterne, persone transgender, immigrati e una schiera di gruppi minoritari impotenti o generalizzazioni così vaghe da risultare prive di senso».
Per il commentatore «Che i democratici stiano dissanguando gli elettori della classe operaia di tutte le fasce demografiche è indiscutibile, quindi bisogna trovare un colpevole. Ovviamente la soluzione non può essere una discussione sostenuta sul populismo economico di sinistra, poiché ciò metterebbe in discussione gli interessi di classe dei donatori e dei consulenti aziendali».
Kamala Harris e la dirigenza democratica hanno accolto con stizza le critiche provenienti dalla propria base e dai settori più progressisti. Ma i sondaggi e le rilevazioni dei flussi elettorali sono unanimi: i temi su cui ha puntato la candidata non rappresentano la priorità per la maggior parte degli elettori, per non parlare dell’ambiguità di molte proposte. La maggior parte delle persone sono più preoccupate delle difficoltà economiche, dell’inflazione, dei prezzi crescenti degli alloggi e delle cure mediche che delle sorti della democrazia o di diritti civili che, pur garantiti dalla legge, spesso non possono essere esercitati da chi ha redditi troppo bassi. In un contesto simile le paure nei confronti degli immigrati illegali, considerati – a torto – dei competitori per l’accesso alle risorse pubbliche e al lavoro – sono aumentate e hanno condotto una parte crescente dell’elettorato a scegliere Trump e le sue promesse di sigillare i confini e di operare una deportazione di massa dei clandestini.
Non ha pagato neanche la scelta di sostenere l’Ucraina con decine di miliardi di euro che a giudizio di molti elettori si sarebbero dovuti impiegare per migliorare le condizioni di vita di chi, negli Stati Uniti, non se la passa troppo bene.
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L’autonomia differenziata è azzoppata, meglio abbatterla
La Corte Costituzionale ha fatto un classico lavoro da “Dottor Sottile”, in equilibrio tra dettato della Carta, disastri innescati dalla “Riforma del Titolo V” e trattati europei, con un occhio anche agli equilibri politici contingenti.
È per questo che tutti i soggetti interessati – partiti di destra e di “centro-sinistra”, comitati referendari, ecc. – possono dirsi “soddisfatti”. Hanno tutti ragione, insomma, a patto di mentire piuttosto spudoratamente.
La Consulta ha esaminato i ricorsi delle quattro Regioni guidate dal centrosinistra (Campania, Puglia, Sardegna e Toscana) che avevano impugnato la “legge Calderoli”.
Il gioco di prestigio che emerge nella sentenza emessa ieri – vedremo poi le motivazioni, che saranno per forza di cose ancor più arzigogolate – sta nel fatto che i giudici hanno ritenuto “non fondata” la questione di costituzionalità della legge nel suo insieme (cosa che enfatizzano le forze di governo).
Ma contemporaneamente ha giudicato incostituzionali ben sette profili della “legge Calderoli”.
Semplificando, ha detto che una legge per regolare l’autonomia anche differenziata tra le Regioni “si può fare”, perché bisogna pur disciplinare l’attuazione del comma 3 dell’art 116 della Costituzione; ma il modo in cui lo fa la legge Calderoli, fa letteralmente schifo.
Anche ai sensi della Costituzione stravolta dalla famigerata “schiforma” del 2001 (capolavoro suicida del PD – allora DS –, che con quella furbata pensava di depotenziare il secessionismo leghista allora guidato da Umberto Bossi e lo stesso Calderoli).
Una rapida analisi dei “sette pilastri” demoliti dalla Consulta non lascia dubbi: della legge in esame non resta praticamente nulla, se non il faldone che la contiene.
Il primo pilastro era costituito infatti dalla previsione che potesse esser un decreto del presidente del Consiglio dei ministri a determinare l’aggiornamento dei Livelli essenziali di prestazione (Lep) – in materia di politiche del lavoro, istruzione, sanità e tutela dell’ambiente – che ogni Regione deve garantire in modo tale da assicurare il diritto di ogni cittadino italiano di usufruire degli stessi servizi pubblici e sociali indipendentemente dalla regione di residenza.
Un punto decisivo soprattutto per quanto riguarda la sanità pubblica, con alcune Regioni (vedi la Lombardia) ormai molto avanti nella cancellazione del servizio pubblico e la privatizzazione palese di ogni prestazione.
La riforma Calderoli, infatti, intendeva porre la questione interamente nelle mani del governo, che avrebbe così potuto – tramite semplici “decreti interministeriali” concertati all’interno della coalizione – come modificare i Lep, senza neanche passare per il Parlamento (come Costituzione prescrive) e quindi senza un dibattito pubblico che spiega anche ai cittadini cosa si sta facendo, soprattutto cosa comporta per la loro vita concreta.
Il secondo pilastro demolito è invece la possibilità di modificare, sempre con decreto interministeriale, le “aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali”, prevista per finanziare le funzioni trasferite dallo Stato alle Regioni in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito.
Quasi ironicamente, nei confronti della retorica leghista e “nordista”, quella norma avrebbe potuto essere usata anche per premiare “proprio le regioni inefficienti che – dopo aver ottenuto dallo Stato le risorse finalizzate all’esercizio delle funzioni trasferite – non sono in grado di assicurare con quelle risorse il compiuto adempimento delle stesse funzioni”.
Con la demolizione del terzo pilastro la Corte rimette però al centro il “principio di sussidiarietà” (un altro mostro inserito a forza nella Costituzione) sottolineando che la distribuzione delle funzioni legislativa e amministrative tra Stato e Regioni “non” deve “corrispondere all’esigenza di un riparto di poteri tra i diversi segmenti del sistema politico”, ma deve avvenire “in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione”.
Sarebbe insomma “il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni”. Per questo l’Autonomia differenziata, teoricamente ammissibile per la Consulta, “deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, ad assicurare una maggiore responsabilità politica e a meglio rispondere alle attese e ai bisogni dei cittadini”.
Invece, com’è noto, alcune Regioni a trazione fascioleghista si erano già esposte con la pretesa di assumere “competenze statuali” in quantità abnorme, anche su questioni che ovunque sono per forza prerogative dello Stato centrale.
Il Veneto guidato da Zaja, per esempio, pretende di far da sé nella stipula di eventuali accordi con Stati confinanti, comprese le “frontiere marittime”.
Altre regioni vorrebbero concorrere alla definizione delle direttive europee e al loro recepimento nella normativa nazionale, sedendo insieme ai ministri ai tavoli europei per le politiche di coesione, le procedure di infrazione e la disciplina sugli aiuti di Stato.
Lombardia e Veneto pretendono pure di autonomizzare la protezione civile, fare ordinanze diverse da quelle statali in caso di calamità naturale e decidere le quantità del personale necessario.
Vorrebbero anche il potere di decidere su formazione e istruzione, specie per quanto riguarda gli “enti privati” da considerare “paritari”, moltiplicando così i diplomifici Bandecchi-style.
I più audaci chiedono anche di metter mano alla politica fiscale, ai fondi pensione, ai poteri e le regole di ingaggio della polizia locale, ecc.
In pratica delle Regioni-Stato che delegherebbero “a Roma ladrona” solo la formazione delle nazionali sportive e dell’esercito...
Il quarto pilastro demolito è più tecnico, ma egualmente importante per il tentativo di conferire al governo – e non al Parlamento – un potere discrezionale assoluto.
La Consulta giudica incostituzionale, infatti, la mancata prescrizione di una “legge delega” per stabilire i criteri direttivi per emanare i futuri decreti. La legge Calderoli li indica infatti nella legge di bilancio 197/2022, che manifestamente si occupava di altro.
Il quinto pilastro incostituzionale sembra invece più il frutto di ignoranza che di una progettualità sopraffina. Prevede(va) infatti l’estensione della “legge Calderoli” anche alle Regioni a statuto speciale. Le quali, invece, possono ricorrere proprio alle procedure previste dai loro “statuti speciali” per ottenere maggiori forme di autonomia.
Il sesto rilievo di incostituzionalità ricorda che il Parlamento non può essere spogliato del potere di emendare le intese che in futuro potranno essere firmate tra Stato e singole Regioni. Il che equivale a dire che non può essere un governo, magari “balneare”, a dare più o meno poteri a Regioni rette da una maggioranza simile o di opposizione.
L’ultimo stop, infine, riguarda la “clausola di invarianza finanziaria” (ogni trasferimento di funzioni non deve comportare maggiori spese). Questa deve collocarsi in un quadro di valutazione complessiva della finanza pubblica, e dunque la definizione del fabbisogno per i LEP (a loro volta al centro del “primo pilastro”) è decisiva per stabilire le poste finanziarie.
Come si vede, non resta molto dell’impianto “differenzialista”.
Proprio per questo ha senso sviluppare la campagna referendaria per abolire completamente la “legge Calderoli”, superando ogni residua tentazione “minimalista”.
È chiaro infatti che un secondo round di stesura delle variazioni indispensabili per poter dire che “sono stati accolti i rilievi della Consulta”, un dibattito parlamentare contorto e denso di compromessi al ribasso, un frammischiamento di codicilli illeggibili anche ai più esperti azzeccagarbugli e altri “magheggi”, porterebbero solo ad un nuovo testo altrettanto schifoso ma comunque tale da costringere a riformulare i quesiti referendari e a raccogliere nuovamente le firme necessarie.
Il “decreto Calderoli” va spazzato via una volta per tutte, senza se e senza ma, mettendo nelle mani della popolazione il potere di decidere.
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È per questo che tutti i soggetti interessati – partiti di destra e di “centro-sinistra”, comitati referendari, ecc. – possono dirsi “soddisfatti”. Hanno tutti ragione, insomma, a patto di mentire piuttosto spudoratamente.
La Consulta ha esaminato i ricorsi delle quattro Regioni guidate dal centrosinistra (Campania, Puglia, Sardegna e Toscana) che avevano impugnato la “legge Calderoli”.
Il gioco di prestigio che emerge nella sentenza emessa ieri – vedremo poi le motivazioni, che saranno per forza di cose ancor più arzigogolate – sta nel fatto che i giudici hanno ritenuto “non fondata” la questione di costituzionalità della legge nel suo insieme (cosa che enfatizzano le forze di governo).
Ma contemporaneamente ha giudicato incostituzionali ben sette profili della “legge Calderoli”.
Semplificando, ha detto che una legge per regolare l’autonomia anche differenziata tra le Regioni “si può fare”, perché bisogna pur disciplinare l’attuazione del comma 3 dell’art 116 della Costituzione; ma il modo in cui lo fa la legge Calderoli, fa letteralmente schifo.
Anche ai sensi della Costituzione stravolta dalla famigerata “schiforma” del 2001 (capolavoro suicida del PD – allora DS –, che con quella furbata pensava di depotenziare il secessionismo leghista allora guidato da Umberto Bossi e lo stesso Calderoli).
Una rapida analisi dei “sette pilastri” demoliti dalla Consulta non lascia dubbi: della legge in esame non resta praticamente nulla, se non il faldone che la contiene.
Il primo pilastro era costituito infatti dalla previsione che potesse esser un decreto del presidente del Consiglio dei ministri a determinare l’aggiornamento dei Livelli essenziali di prestazione (Lep) – in materia di politiche del lavoro, istruzione, sanità e tutela dell’ambiente – che ogni Regione deve garantire in modo tale da assicurare il diritto di ogni cittadino italiano di usufruire degli stessi servizi pubblici e sociali indipendentemente dalla regione di residenza.
Un punto decisivo soprattutto per quanto riguarda la sanità pubblica, con alcune Regioni (vedi la Lombardia) ormai molto avanti nella cancellazione del servizio pubblico e la privatizzazione palese di ogni prestazione.
La riforma Calderoli, infatti, intendeva porre la questione interamente nelle mani del governo, che avrebbe così potuto – tramite semplici “decreti interministeriali” concertati all’interno della coalizione – come modificare i Lep, senza neanche passare per il Parlamento (come Costituzione prescrive) e quindi senza un dibattito pubblico che spiega anche ai cittadini cosa si sta facendo, soprattutto cosa comporta per la loro vita concreta.
Il secondo pilastro demolito è invece la possibilità di modificare, sempre con decreto interministeriale, le “aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali”, prevista per finanziare le funzioni trasferite dallo Stato alle Regioni in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito.
Quasi ironicamente, nei confronti della retorica leghista e “nordista”, quella norma avrebbe potuto essere usata anche per premiare “proprio le regioni inefficienti che – dopo aver ottenuto dallo Stato le risorse finalizzate all’esercizio delle funzioni trasferite – non sono in grado di assicurare con quelle risorse il compiuto adempimento delle stesse funzioni”.
Con la demolizione del terzo pilastro la Corte rimette però al centro il “principio di sussidiarietà” (un altro mostro inserito a forza nella Costituzione) sottolineando che la distribuzione delle funzioni legislativa e amministrative tra Stato e Regioni “non” deve “corrispondere all’esigenza di un riparto di poteri tra i diversi segmenti del sistema politico”, ma deve avvenire “in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione”.
Sarebbe insomma “il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni”. Per questo l’Autonomia differenziata, teoricamente ammissibile per la Consulta, “deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, ad assicurare una maggiore responsabilità politica e a meglio rispondere alle attese e ai bisogni dei cittadini”.
Invece, com’è noto, alcune Regioni a trazione fascioleghista si erano già esposte con la pretesa di assumere “competenze statuali” in quantità abnorme, anche su questioni che ovunque sono per forza prerogative dello Stato centrale.
Il Veneto guidato da Zaja, per esempio, pretende di far da sé nella stipula di eventuali accordi con Stati confinanti, comprese le “frontiere marittime”.
Altre regioni vorrebbero concorrere alla definizione delle direttive europee e al loro recepimento nella normativa nazionale, sedendo insieme ai ministri ai tavoli europei per le politiche di coesione, le procedure di infrazione e la disciplina sugli aiuti di Stato.
Lombardia e Veneto pretendono pure di autonomizzare la protezione civile, fare ordinanze diverse da quelle statali in caso di calamità naturale e decidere le quantità del personale necessario.
Vorrebbero anche il potere di decidere su formazione e istruzione, specie per quanto riguarda gli “enti privati” da considerare “paritari”, moltiplicando così i diplomifici Bandecchi-style.
I più audaci chiedono anche di metter mano alla politica fiscale, ai fondi pensione, ai poteri e le regole di ingaggio della polizia locale, ecc.
In pratica delle Regioni-Stato che delegherebbero “a Roma ladrona” solo la formazione delle nazionali sportive e dell’esercito...
Il quarto pilastro demolito è più tecnico, ma egualmente importante per il tentativo di conferire al governo – e non al Parlamento – un potere discrezionale assoluto.
La Consulta giudica incostituzionale, infatti, la mancata prescrizione di una “legge delega” per stabilire i criteri direttivi per emanare i futuri decreti. La legge Calderoli li indica infatti nella legge di bilancio 197/2022, che manifestamente si occupava di altro.
Il quinto pilastro incostituzionale sembra invece più il frutto di ignoranza che di una progettualità sopraffina. Prevede(va) infatti l’estensione della “legge Calderoli” anche alle Regioni a statuto speciale. Le quali, invece, possono ricorrere proprio alle procedure previste dai loro “statuti speciali” per ottenere maggiori forme di autonomia.
Il sesto rilievo di incostituzionalità ricorda che il Parlamento non può essere spogliato del potere di emendare le intese che in futuro potranno essere firmate tra Stato e singole Regioni. Il che equivale a dire che non può essere un governo, magari “balneare”, a dare più o meno poteri a Regioni rette da una maggioranza simile o di opposizione.
L’ultimo stop, infine, riguarda la “clausola di invarianza finanziaria” (ogni trasferimento di funzioni non deve comportare maggiori spese). Questa deve collocarsi in un quadro di valutazione complessiva della finanza pubblica, e dunque la definizione del fabbisogno per i LEP (a loro volta al centro del “primo pilastro”) è decisiva per stabilire le poste finanziarie.
Come si vede, non resta molto dell’impianto “differenzialista”.
Proprio per questo ha senso sviluppare la campagna referendaria per abolire completamente la “legge Calderoli”, superando ogni residua tentazione “minimalista”.
È chiaro infatti che un secondo round di stesura delle variazioni indispensabili per poter dire che “sono stati accolti i rilievi della Consulta”, un dibattito parlamentare contorto e denso di compromessi al ribasso, un frammischiamento di codicilli illeggibili anche ai più esperti azzeccagarbugli e altri “magheggi”, porterebbero solo ad un nuovo testo altrettanto schifoso ma comunque tale da costringere a riformulare i quesiti referendari e a raccogliere nuovamente le firme necessarie.
Il “decreto Calderoli” va spazzato via una volta per tutte, senza se e senza ma, mettendo nelle mani della popolazione il potere di decidere.
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Israele non ha rispettato l'”ultimatum” USA, ma Washington continuerà a fornirgli armi
Scaduto l’ultimatum inviato da Biden a Israele, secondo il quale le forniture belliche si sarebbe fermate se Tel Aviv non avesse permesso l’arrivo degli aiuti umanitari a Gaza, Washington ha fatto sapere che l’invio di armi continuerà.
E questo nonostante che le Nazioni Unite e ben otto organizzazioni internazionali abbiano affermato che la situazione è tutt’altro che migliorata. Anzi, secondo molti operatori sul luogo ci troviamo nella fase più critica da quando è cominciato l’attacco sionista nell’ottobre 2023.
Che non ci si potesse aspettare granché dallo Zio Sam è cosa nota, e nessuno con un minimo di coscienza su quel che sta accadendo in Medio Oriente poteva davvero credere che il sostegno a Israele si sarebbe fermato.
Non è successo nell’ultimo anno, non succederà di certo ora, soprattutto con l’amministrazione Biden che sta passando il testimone a Trump, il quale non ha mai nascosto il completo appoggio alle scelte di Netanyahu.
Ma la questione va ribaltata, altrimenti si può finire a pensare che sia solo Trump il ‘cattivo’ che timbra il lasciapassare per continuare il genocidio in atto. I democratici sono stati fin qui assolutamente sodali con Tel Aviv e, pur perfettamente consapevoli delle operazioni di pulizia etnica, hanno sempre chiuso un occhio.
L’ultimatum è stato semmai una mossa propagandistica, utilizzata come strumento elettorale in un paese che ha visto una solidarietà con la Palestina radicale e diffusa.
Nulla di molto diverso dal “molo temporaneo” costruito la scorsa primavera per far arrivare un po’ di aiuti umanitari, sostanzialmente mai entrato in funzione e usato soprattutto dagli israeliani stessi per azioni di guerra.
E infatti, il portavoce del Dipartimento di Stato USA, Vedant Patel, ha reso chiaro che le armi continueranno ad arrivare perché “Israele sta rispettando gli accordi”.
Martedì scorso ha dichiarato che “al momento non si è valutato che gli israeliani stiano violando la legge statunitense” riguardo all’assistenza militare.
Ma quella legge lega gli aiuti al rispetto del diritto umanitario internazionale. E ormai non è difficile dimostrare che i sionisti se ne facciano beffa in maniera consapevole e persino scientifica.
Semmai, è sfacciato sostenere il contrario: Israele sta facendo a pezzi la legalità internazionale, e con essa la maschera di un arbitrario “ordine fondato su regole” millantato dall’Occidente.
Le ragioni statunitensi si fondano sul fatto che Israele avrebbe in qualche misura permesso l’accesso di aiuti nel nord della Striscia, tagliata fuori dall’arrivo di cibo per oltre un mese e dunque in piena carestia. Ma allo stesso tempo le Nazioni Unite hanno fatto sapere che la maggior parte di questi aiuti non può essere distribuita proprio a causa delle restrizioni israeliane.
Anche al sud ci sono centinaia di camion carichi di cibo di cui le imposizioni sioniste impediscono la distribuzione. Tel Aviv ha aperto un nuovo valico nella zona centrale di Gaza, ma non ne è chiara l’utilità, dato che il problema non è la mancanza di vie d’accesso, ma i blocchi che l’esercito dispone.
Insomma, atti senza valore nel gioco delle parti tra Washington e Tel Aviv, mentre il massacro continua. Senza dimenticare il fatto che, ad ogni modo, non si può ridurre tutto a una crisi umanitaria, accettando così il politicidio delle rivendicazioni palestinesi insieme al genocidio.
Infine, il conflitto ormai si è allargato a tutto il Medio Oriente, in una fase generale di precipitazione bellica. La questione palestinese è diventata il fulcro su cui si vanno ridefinendo gli equilibri di tutta la regione, e dunque gli USA e Israele sono ancora più vitali l’uno all’altro.
Fonte
E questo nonostante che le Nazioni Unite e ben otto organizzazioni internazionali abbiano affermato che la situazione è tutt’altro che migliorata. Anzi, secondo molti operatori sul luogo ci troviamo nella fase più critica da quando è cominciato l’attacco sionista nell’ottobre 2023.
Che non ci si potesse aspettare granché dallo Zio Sam è cosa nota, e nessuno con un minimo di coscienza su quel che sta accadendo in Medio Oriente poteva davvero credere che il sostegno a Israele si sarebbe fermato.
Non è successo nell’ultimo anno, non succederà di certo ora, soprattutto con l’amministrazione Biden che sta passando il testimone a Trump, il quale non ha mai nascosto il completo appoggio alle scelte di Netanyahu.
Ma la questione va ribaltata, altrimenti si può finire a pensare che sia solo Trump il ‘cattivo’ che timbra il lasciapassare per continuare il genocidio in atto. I democratici sono stati fin qui assolutamente sodali con Tel Aviv e, pur perfettamente consapevoli delle operazioni di pulizia etnica, hanno sempre chiuso un occhio.
L’ultimatum è stato semmai una mossa propagandistica, utilizzata come strumento elettorale in un paese che ha visto una solidarietà con la Palestina radicale e diffusa.
Nulla di molto diverso dal “molo temporaneo” costruito la scorsa primavera per far arrivare un po’ di aiuti umanitari, sostanzialmente mai entrato in funzione e usato soprattutto dagli israeliani stessi per azioni di guerra.
E infatti, il portavoce del Dipartimento di Stato USA, Vedant Patel, ha reso chiaro che le armi continueranno ad arrivare perché “Israele sta rispettando gli accordi”.
Martedì scorso ha dichiarato che “al momento non si è valutato che gli israeliani stiano violando la legge statunitense” riguardo all’assistenza militare.
Ma quella legge lega gli aiuti al rispetto del diritto umanitario internazionale. E ormai non è difficile dimostrare che i sionisti se ne facciano beffa in maniera consapevole e persino scientifica.
Semmai, è sfacciato sostenere il contrario: Israele sta facendo a pezzi la legalità internazionale, e con essa la maschera di un arbitrario “ordine fondato su regole” millantato dall’Occidente.
Le ragioni statunitensi si fondano sul fatto che Israele avrebbe in qualche misura permesso l’accesso di aiuti nel nord della Striscia, tagliata fuori dall’arrivo di cibo per oltre un mese e dunque in piena carestia. Ma allo stesso tempo le Nazioni Unite hanno fatto sapere che la maggior parte di questi aiuti non può essere distribuita proprio a causa delle restrizioni israeliane.
Anche al sud ci sono centinaia di camion carichi di cibo di cui le imposizioni sioniste impediscono la distribuzione. Tel Aviv ha aperto un nuovo valico nella zona centrale di Gaza, ma non ne è chiara l’utilità, dato che il problema non è la mancanza di vie d’accesso, ma i blocchi che l’esercito dispone.
Insomma, atti senza valore nel gioco delle parti tra Washington e Tel Aviv, mentre il massacro continua. Senza dimenticare il fatto che, ad ogni modo, non si può ridurre tutto a una crisi umanitaria, accettando così il politicidio delle rivendicazioni palestinesi insieme al genocidio.
Infine, il conflitto ormai si è allargato a tutto il Medio Oriente, in una fase generale di precipitazione bellica. La questione palestinese è diventata il fulcro su cui si vanno ridefinendo gli equilibri di tutta la regione, e dunque gli USA e Israele sono ancora più vitali l’uno all’altro.
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Il fascismo aziendale si fa Stato
Andrea Stroppa, colui che in Italia è accreditato come rappresentante di Elon Musk, ha concluso una sua intervista su Il Giornale affermando: i sindacati non servono.
Basta questa affermazione per definire chi sia: un sostenitore del fascismo aziendale, che nei luoghi di lavoro nega ai dipendenti quelle libertà costituzionali di cui il padrone pretende per sé il massimo delle garanzie e disponibilità.
Elon Musk è un padrone che ha proibito ai propri dipendenti negli USA di organizzarsi in sindacato e che ha persino vietato ad essi di indossare magliette con loghi sindacali. Un padrone che controlla minuziosamente come i propri dipendenti si comportino in ogni momento della loro vita, per cacciare chi non sia d’accordo con lui. E non vengono solo colpiti dissidenti e rompiscatole che vorrebbero un sindacato.
Poco tempo fa Elon Musk ha licenziato 13.000 dipendenti con una semplice email, un decimo di tutta la sua forza lavoro. Nelle prime settimane del suo possesso di Twitter diventata X, Musk ha licenziato una media di quaranta persone al giorno. Tutto questo per mantenere inalterato il margine dei suoi colossali profitti.
Ora il suo discepolo italiano Stroppa propone la stessa ricetta per il nostro paese: licenziamenti, privatizzazioni e naturalmente soldi ai padroni, a quelli come il suo soprattutto.
Non c’è davvero niente di nuovo nella tanto esaltata modernità di Musk, anzi sì prova persino una noia storica nel sentire sempre lo stesso blablabla reazionario. Altri prima di lui hanno praticato le stesse ricette liberalfasciste, anche quando producevano innovazioni tecnologiche.
Henry Ford era un ammiratore di Mussolini e Hitler e come il padrone di Tesla vietava i sindacati nelle sue fabbriche. Nell’Ottocento i baroni industriali che avevano costruito le ferrovie negli Stati Uniti erano tanto ladri quanto criminali assassini di lavoratori e sindacalisti.
Lo sviluppo tecnologico a volte va in direzione opposta a quello sociale e civile, soprattutto quando viene dominato da una ristretta oligarchia di ricconi che fanno dei loro guadagni il principio guida della società.
Oggi siamo regrediti in un epoca in cui ogni progresso della scienza e della tecnica pare minacciare, anziché migliorare, le sorti dell’umanità. E questo perché “il progresso” è stato preso in mano da una ristretta cerchia di super ricchi, che con le loro imprese dominano la politica e le scelte economiche. Questi super ricchi possono anche dividersi nelle scelte di rappresentanza politica, come è avvenuto nelle elezioni USA dove Musk ha vinto e Buffet ha perso, ma sono uniti nelle scelte di fondo, in quelle “di sistema”.
Musk più di altri è la rappresentazione personificata del male di questa nostra epoca, dove il capitalismo viene esaltato come bene assoluto, anche quando produce effetti e mali mostruosi.
I suoni e le luci dei razzi, dei satelliti, delle auto computerizzate del padrone di Tesla, si accompagnano alla profonda regressione sociale e civile dell’Occidente. Siamo nel terzo millennio con la scienza, ma stiamo precipitando più in basso dell’Ottocento nella civiltà.
Il fascismo aziendale dilaga anche da noi. Un lavoratore della USB dipendente dell’aeroporto civile di Montichiari a Brescia rischia il licenziamento per aver detto in una intervista che da quell’aeroporto transitano armi. Un altro sindacalista della USB è stato licenziato a Pisa da un appalto di Amazon perché rivendicava migliori condizioni di lavoro. Amazon è in mano a Bezos, un altro oligarca che contende a Musk il ruolo di persona più ricca del mondo.
Due secoli fa Balzac aveva scritto: dietro ogni grande ricchezza si cela sempre un grande crimine. E più si esaltano le figure dei “padri padroni” mega imprenditori, più le libertà di chi lavora per loro e di tanti altri vengono negate.
Il fatto che un rappresentante puro di questa razza padrona oggi assuma rilevanti responsabilità di governo nella prima potenza occidentale, è un segno dei tempi ed anche un utile chiarimento sulla deriva autoritaria delle cosiddette democrazie liberali.
Il capitalismo liberista, la cui più vecchia, falsa e sciocca propaganda ritroviamo anche nell’intervista di Stroppa su Il Giornale, non può fare a meno di farsi Stato.
Ha cominciato nel 1973 in Cile, con il golpe di Kissinger e di Pinochet. Il rovesciamento nel sangue del governo del socialista Allende permise di fare di quel paese la prima cavia del liberismo economico di Milton Friedman e dei suoi discepoli. Oggi il nuovo governo di Trump è composto in gran parte da ammiratori di Pinochet. E lo sono prima di tutto per l’esaltazione del dominio assoluto degli affari, dei ricchi e della libertà d’impresa.
La libertà d’impresa è quella libertà che uccide tutte le altre libertà. Coerentemente Elon Musk rivendica solo per se stesso tutte quelle libertà costituzionali che nega ai propri dipendenti.
Evidentemente il “libero mercato” non è un luogo così confortevole, se i suoi più fanatici propugnatori ricercano e accaparrano cariche pubbliche per garantire i propri affari.
Oggi il fascismo aziendale di Musk si fa Stato e probabilmente diventerà un esempio per i paesi, come il nostro, legati a filo doppio agli USA. Un esempio da denunciare e da abbattere.
Fonte
Basta questa affermazione per definire chi sia: un sostenitore del fascismo aziendale, che nei luoghi di lavoro nega ai dipendenti quelle libertà costituzionali di cui il padrone pretende per sé il massimo delle garanzie e disponibilità.
Elon Musk è un padrone che ha proibito ai propri dipendenti negli USA di organizzarsi in sindacato e che ha persino vietato ad essi di indossare magliette con loghi sindacali. Un padrone che controlla minuziosamente come i propri dipendenti si comportino in ogni momento della loro vita, per cacciare chi non sia d’accordo con lui. E non vengono solo colpiti dissidenti e rompiscatole che vorrebbero un sindacato.
Poco tempo fa Elon Musk ha licenziato 13.000 dipendenti con una semplice email, un decimo di tutta la sua forza lavoro. Nelle prime settimane del suo possesso di Twitter diventata X, Musk ha licenziato una media di quaranta persone al giorno. Tutto questo per mantenere inalterato il margine dei suoi colossali profitti.
Ora il suo discepolo italiano Stroppa propone la stessa ricetta per il nostro paese: licenziamenti, privatizzazioni e naturalmente soldi ai padroni, a quelli come il suo soprattutto.
Non c’è davvero niente di nuovo nella tanto esaltata modernità di Musk, anzi sì prova persino una noia storica nel sentire sempre lo stesso blablabla reazionario. Altri prima di lui hanno praticato le stesse ricette liberalfasciste, anche quando producevano innovazioni tecnologiche.
Henry Ford era un ammiratore di Mussolini e Hitler e come il padrone di Tesla vietava i sindacati nelle sue fabbriche. Nell’Ottocento i baroni industriali che avevano costruito le ferrovie negli Stati Uniti erano tanto ladri quanto criminali assassini di lavoratori e sindacalisti.
Lo sviluppo tecnologico a volte va in direzione opposta a quello sociale e civile, soprattutto quando viene dominato da una ristretta oligarchia di ricconi che fanno dei loro guadagni il principio guida della società.
Oggi siamo regrediti in un epoca in cui ogni progresso della scienza e della tecnica pare minacciare, anziché migliorare, le sorti dell’umanità. E questo perché “il progresso” è stato preso in mano da una ristretta cerchia di super ricchi, che con le loro imprese dominano la politica e le scelte economiche. Questi super ricchi possono anche dividersi nelle scelte di rappresentanza politica, come è avvenuto nelle elezioni USA dove Musk ha vinto e Buffet ha perso, ma sono uniti nelle scelte di fondo, in quelle “di sistema”.
Musk più di altri è la rappresentazione personificata del male di questa nostra epoca, dove il capitalismo viene esaltato come bene assoluto, anche quando produce effetti e mali mostruosi.
I suoni e le luci dei razzi, dei satelliti, delle auto computerizzate del padrone di Tesla, si accompagnano alla profonda regressione sociale e civile dell’Occidente. Siamo nel terzo millennio con la scienza, ma stiamo precipitando più in basso dell’Ottocento nella civiltà.
Il fascismo aziendale dilaga anche da noi. Un lavoratore della USB dipendente dell’aeroporto civile di Montichiari a Brescia rischia il licenziamento per aver detto in una intervista che da quell’aeroporto transitano armi. Un altro sindacalista della USB è stato licenziato a Pisa da un appalto di Amazon perché rivendicava migliori condizioni di lavoro. Amazon è in mano a Bezos, un altro oligarca che contende a Musk il ruolo di persona più ricca del mondo.
Due secoli fa Balzac aveva scritto: dietro ogni grande ricchezza si cela sempre un grande crimine. E più si esaltano le figure dei “padri padroni” mega imprenditori, più le libertà di chi lavora per loro e di tanti altri vengono negate.
Il fatto che un rappresentante puro di questa razza padrona oggi assuma rilevanti responsabilità di governo nella prima potenza occidentale, è un segno dei tempi ed anche un utile chiarimento sulla deriva autoritaria delle cosiddette democrazie liberali.
Il capitalismo liberista, la cui più vecchia, falsa e sciocca propaganda ritroviamo anche nell’intervista di Stroppa su Il Giornale, non può fare a meno di farsi Stato.
Ha cominciato nel 1973 in Cile, con il golpe di Kissinger e di Pinochet. Il rovesciamento nel sangue del governo del socialista Allende permise di fare di quel paese la prima cavia del liberismo economico di Milton Friedman e dei suoi discepoli. Oggi il nuovo governo di Trump è composto in gran parte da ammiratori di Pinochet. E lo sono prima di tutto per l’esaltazione del dominio assoluto degli affari, dei ricchi e della libertà d’impresa.
La libertà d’impresa è quella libertà che uccide tutte le altre libertà. Coerentemente Elon Musk rivendica solo per se stesso tutte quelle libertà costituzionali che nega ai propri dipendenti.
Evidentemente il “libero mercato” non è un luogo così confortevole, se i suoi più fanatici propugnatori ricercano e accaparrano cariche pubbliche per garantire i propri affari.
Oggi il fascismo aziendale di Musk si fa Stato e probabilmente diventerà un esempio per i paesi, come il nostro, legati a filo doppio agli USA. Un esempio da denunciare e da abbattere.
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