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Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
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28/12/2025

New York - “Proteggiamo i nostri vicini dall’ICE”

Da poco ha smesso di nevicare; è il momento più bello in città quando la coltre è ancora immacolata e noi pedoni procediamo seguendo uno le orme dell’altro. Così avvolti nel gelido candore attraversiamo il parchetto del quartiere per raggiungere l’entrata della metropolitana, dove staziona una donnina anziana, imbacuccata e sorridente. Offre una busta di plastica trasparente che contiene un pieghevole informativo e un fischietto e a tutti dice “Proteggiamo i nostri vicini dall’ICE”.

Il suono è lo stesso, ice, ma non si riferisce a pericolosi lastroni di ghiaccio, bensì a qualcosa di ben più letale: l’Immigration and Custom Enforcement, la famigerata agenzia deputata al controllo dell’immigrazione che dall’avvento di Trump al governo sta traumatizzando le città americane.

Il volantino è un vero e proprio mini-manuale di istruzioni. Dice come riconoscere un agente dell’ICE e come comportarsi. La cosa più importante è essere pronti a raccogliere informazioni. Quanti sono. Che cosa fanno. Dove e in che direzione si muovono. Come sono vestiti. Se indossano il passamontagna e il giubbotto anti proiettile. Orario dell’avvistamento. Che equipaggiamento portano (armi, manette, bastoni, ecc.). Se si è in sicurezza, cioè se loro non ti vedono, fare foto e video. Infine inoltrare i dati raccolti al network del quartiere (di cui è dato il numero in hotline).

La sezione dedicata al fischietto è commovente e meriterebbe un posto al museo dadaista (se esistesse). Illustra due codici. Codice Numero 1: bwee! bwee! bwee! Soffiare a ripetizione significa: l’ICE è stato avvistato in zona, state allerta. Codice Numero 2: bweeeeeeeeeeeeeeeeeeee !!! Emettere un suono forte e continuativo significa l’ICE sta effettuando un arresto – massima allerta e pronti ad attivare il servizio legale, di cui ovviamente il manuale fornisce il numero.

Come me anche gli altri passanti ritirano entusiasti il kit anti ICE. Mi chiedo se avremo mai l’occasione e la freddezza di usarlo. Non lo so. Non nascondo che mi piacerebbe assistere alla scena di un gruppo di cittadini che armati di fischietti riescono a gabbare gli energumeni dell’ICE e proteggere i loro vicini di casa, di negozio, di strada.

Perché queste sono le vittime di ICE: il signore gentile che ti saluta mentre spazza la strada dalle foglie, la signora che pulisce le scale del condominio e ti fa la cortesia di raccogliere il tuo pacco mentre sei in vacanza, la ragazza che serve ai tavoli della tua trattoria preferita, il ragazzo che ti shakera alla perfezione la margarita al cocktail bar dell’angolo, il garzone che ti porta la spesa a casa, la mamma del nuovo amichetto di tuo figlio e così via; uomini, donne, famiglie uguali e mischiate a milioni di altre, che da un anno a questa parte vivono nel terrore di essere scoperte come migranti irregolari.

So bene che la propaganda anti-immigrazione italiana e non solo racconta che gli Stati Uniti a causa del lassismo dei democratici (che sono sì lassi e infingardi, ma per altro) sono stati invasi da milioni di immigrati, ovviamente brutti, sporchi e cattivi e che il governo Trump finalmente fa quello che anche da noi si dovrebbe fare, ossia rimandarli a casa loro. Peccato che ciò non corrisponda al vero e che questa sia casa loro.

La maggior parte dei braccati dall’ICE vive stabilmente negli Stati Uniti da molti anni, anche trenta o quaranta, lavora, produce reddito, paga le tasse, affitta case, guida una macchina, possiede conti in banca e manda i figli (americani) a scuola. Capite dunque che cosa significa la frase della signora: “Proteggiamo i nostri vicini”?

Forse qualche lettore si starà chiedendo perché queste persone non si regolarizzano. In Italia tanti da irregolari trovano un lavoro con contratto e iniziano un faticoso, lungo e difficile percorso di regolarizzazione che nel tempo, e purtroppo solo per pochi, se è loro desiderio investire il proprio futuro nel Belpaese, li porterà alla naturalizzazione. Negli Stati Uniti non è così.

Forse sarà un retaggio puritano, ma se hai commesso l’errore di far scadere il visto d’ingresso non puoi riscattarti; devi andartene dal Paese. Per la verità c’è un modo legale per iniziare da capo il percorso di immigrazione: arruolarsi! O tu clandestino o tuo figlio/a, appena raggiunta la maggiore età, potete scegliere la via dell’esercito e andare a morire per una patria che non vi voleva.

Non credo che avrò mai la soddisfazione di assistere alla messa in fuga degli agenti dell’ICE sul campo e so che alla tv come sui giornalacci continueranno a giustificare la caccia al clandestino come giusta e necessaria, ma so anche che c’è un umanità nuova e sveglia, che avanza e aumenta di giorno in giorno, che silenziosamente si organizza per resistere, per aiutarsi l’un l’altro, per sostenere i propri membri più deboli e in difficoltà.

So anche che il fenomeno dei quartieri contro l’ICE non è un’eccezione di Brooklyn e di New York City perché è stato eletto Mamdani, dato che si sta diffondendo a macchia d’olio nelle principali città del Paese. Nel sud della California, tartassata dall’ICE e pure dalla Guarda Nazionale, gruppi di cittadini hanno preso l’abitudine di appostarsi di fronte a grandi magazzini, come Office Depot, Target ecc., così se l’ICE viene avvistata c’è tempo di avvisare i lavoratori dentro il negozio.

L’emergenza sveglia l’essere umano; l’emergenza fa nascere la comunità, la ricompatta. Non importa se non avremo mai l’occasione di usare il fischietto e probabilmente continueremo a essere impotenti davanti alle scorribande dell’ICE. Ma sappiamo che non lo saremo per sempre e possedere quel fischietto, tenerlo nella borsetta o in tasca, rappresenta la possibilità di riscatto di un intero gruppo sociale, anzi di più, della comunità umana che fa onore al nome che porta e rifiuta la barbarie, che si ribella a chi vuole farci tornare indietro, in una società rozza e brutale.

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Cambogia e Thailandia firmano un nuovo cessate il fuoco

I governi della Thailandia e della Cambogia hanno firmato un nuovo accordo di cessate il fuoco per porre fine a quasi tre settimane di intensi scontri armati lungo il confine conteso.

«Le parti concordano di mantenere gli attuali schieramenti di truppe senza ulteriori movimenti» recita una dichiarazione congiunta firmata dai ministri della Difesa dei due paesi asiatici, il thailandese Natthaphon Narkphanit e il cambogiano Tea Seiha. «Qualsiasi rafforzamento aumenterebbe le tensioni e influenzerebbe negativamente gli sforzi a lungo termine per risolvere la crisi», sottolinea invece il ministero della Difesa cambogiano in una dichiarazione pubblicata sui propri profili social.

L’8 dicembre le forze armate dei due paesi avevano ripreso gli scontri infrangendo la precedente tregua negoziata dalla Malesia, in qualità di presidente di turno dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean), e dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

Entrato in vigore questa mattina, l’accordo ha posto fine a 20 giorni di combattimenti che hanno causato la morte di almeno 101 persone e lo sfollamento di oltre mezzo milione di abitanti su entrambi i lati del confine.

Tra le principali clausole previste dall’intesa, c’è la cessazione immediata di ogni forma di attacco, il mantenimento delle posizioni attuali delle truppe, senza ulteriori rinforzi, e l’impegno della Thailandia a rimpatriare 18 soldati cambogiani catturati in precedenza, nel caso il cessate il fuoco regga per almeno 72 ore.

Un team di osservatori dell’ASEAN monitorerà l’attuazione dell’accordo attuale, afferma l’accordo, aggiungendo che entrambi i paesi hanno anche concordato di mantenere una comunicazione aperta “per risolvere” eventuali problemi sul campo.

Domenica il ministro degli Esteri cambogiano Prak Sokhonn si recherà nello Yunnan, in Cina, per tenere un incontro trilaterale con il suo omologo thailandese e il ministro di Pechino Wang Yi. L’incontro è stato presentato come un’iniziativa volta a rafforzare la “fiducia reciproca” e a ripristinare “pace, sicurezza e stabilità” lungo il confine.

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27/12/2025

Frusciante al (non)Cinema: Frankenstein (2025) di Guillermo Del Toro

Cile - Una sconfitta nella battaglia culturale, prima che elettorale

Cosa spinge un minatore del Nord a votare per l’estrema destra? O un operaio del centro del Paese a optare per José Antonio Kast?

Come si suol dire, la vittoria ha molti padri, ma la sconfitta è orfana. Il risultato negativo del ballottaggio presidenziale non è sfuggito a questa logica. Non appena sono stati resi noti i risultati finali, le spiegazioni hanno iniziato a moltiplicarsi. Alcuni hanno additato l’anticomunismo come causa principale; altri hanno incolpato il governo e la percezione della sua continuità; altri ancora hanno sottolineato la composizione del team elettorale o gli errori tattici commessi durante la campagna elettorale. Un vero e proprio guazzabuglio di interpretazioni che, pur contenendo elementi attendibili, tralasciano una dimensione chiave del problema.

C’è un fattore che non siamo riusciti a stabilire con sufficiente chiarezza. E quando l’abbiamo fatto, non sempre siamo stati in grado di comprenderlo in tutta la sua profondità.

Non è un caso che il leader dell’estrema destra cilena, José Antonio Kast, invochi il “senso comune” come se fosse un mantra. Lo stesso concetto risuona sulle labbra di Donald Trump negli Stati Uniti e di VOX in Spagna; Jair Bolsonaro lo traduce nella sua ormai celebre frase “il popolo sa”; Marine Le Pen parla del “buon senso” francese; e Giorgia Meloni fa appello al “realismo” del popolo italiano.

Non si tratta di slogan isolati, ma di una coerente strategia ideologica della destra radicale. Siamo di fronte, quindi, a una disputa sul senso comune, su come ampi settori della società interpretano la realtà. Siamo, quindi, di fronte a una battaglia ideologica e culturale di lungo periodo che l’estrema destra ha condotto con efficacia. E se guardiamo al panorama internazionale – e ora anche a quello nazionale – è difficile non ammetterlo: su questo terreno, stiamo perdendo con un ampio margine.

Quando parliamo di senso comune, non parliamo di un’astrazione neutrale o spontanea. Antonio Gramsci, scrivendo dal carcere negli anni ’20 del secolo scorso, avvertiva che il senso comune è un terreno in disputa permanente. È, in sostanza, un mix caotico di idee ereditate, pregiudizi, esperienze materiali e narrazioni dominanti. Chiunque riesca a organizzare quel senso comune, riesce anche a dirigere politicamente una società. Questa è egemonia.

L’estrema destra ha compreso questa lezione con una chiarezza che fa male. Non compete solo nelle elezioni; compete soprattutto nella vita di tutti i giorni. Nel linguaggio che usiamo, nelle paure che mettono radici, nelle false certezze che sembrano ovvie. Mentre discutiamo di programmi, cifre e progetti istituzionali, loro si disputano emozioni, identità e risposte semplici... ordine contro caos, merito contro parassitismo, nazione contro minaccia. Non vincono perché hanno ragione; vincono perché riescono ad apparire ragionevoli.

Jason Stanley, nel suo libro “How Fascism Works” [n.d.t.: “Come funziona il fascismo”], lo spiega con chiarezza. Le persone sono frustrate dalle condizioni di vita offerte dal sistema. È innegabile che la radice della criminalità e della precarietà lavorativa risieda nel cuore stesso del modello. Tuttavia, il politico fascista agisce con astuzia, deviando questa rabbia accumulata. Così, professionisti che hanno studiato per anni e non riescono a trovare lavoro finiscono per dare la colpa ai migranti, non a un sistema che precarizza strutturalmente la vita.

Qui sta il nocciolo della nostra sconfitta. Non basta denunciare le fake news o attribuire l’esito a una “cattiva campagna elettorale”. C’è una classe operaia stanca, precaria, fisicamente e mentalmente esausta, che non si sente rappresentata da un progetto di trasformazione che molte volte è espresso in termini estranei, eccessivamente tecnici o moralizzanti. In questo vuoto, l’estrema destra offre risposte facili, colpevoli chiari e un’illusione di controllo (dato che è molto più facile incolpare un migrante per le proprie disgrazie che il settore imprenditoriale che accumula ricchezza, non è vero?). Il fascismo non offre futuro, ma promette un sollievo immediato.

Tuttavia – e questo è fondamentale – niente di tutto ciò è irreversibile. La storia non procede in linea retta, né è predeterminata. Proprio come oggi stiamo assistendo a un’offensiva reazionaria globale, sappiamo anche che i momenti di maggiore regressione sono stati, molte volte, il preludio di profonde ricomposizioni popolari. Ma queste ricomposizioni non avvengono da sole. Devono essere ricostruite.

E qui è fondamentale chiarire una cosa. Se il nostro obiettivo è il superamento del capitalismo, non possiamo permetterci una frammentazione permanente. In “La trappola della diversità”, Daniel Bernabé sostiene con chiarezza che il sistema opera attivamente per atomizzare la classe lavoratrice, disperdendola in molteplici lotte parziali che, scollegandosi l’una dall’altra, perdono la loro capacità reale di contestare il potere.

Ciò non implica – e va detto senza ambiguità – negare o relativizzare lotte fondamentali come il femminismo, l’ambientalismo, la difesa della diversità sessuale e di genere o i diritti degli animali. Tutte esprimono reali contraddizioni del capitalismo e legittime richieste di emancipazione. Il problema non sono queste lotte in sé, ma il loro isolamento, la loro depoliticizzazione o la loro disconnessione da un progetto condiviso di trasformazione sociale.

Dall’inizio di questo secolo, una parte della sinistra ha teso a perdere di vista questo filo conduttore: la condizione comune di coloro che vivono della loro forza lavoro e subiscono, in modi diversi, lo sfruttamento e il dominio della classe dominante. Al di là delle nostre differenze – che esistono e devono essere riconosciute – c’è un fattore comune che ci attraversa e ci unisce: la subordinazione al capitale.

È proprio lì, in quella base materiale condivisa, che risiedono la nostra principale forza e la reale possibilità di vittoria. Non nella negazione delle lotte, ma nella loro consapevole articolazione all’interno di un progetto collettivo capace di sfidare l’egemonia e trasformare la società nel suo complesso.

Fare appello alla speranza non significa negare la sconfitta, ma comprenderla in tutta la sua profondità. È riconoscere che il compito che ci attende è più impegnativo di vincere un’elezione. È ricostruire un senso comune solidale, collettivo ed emancipatore. Tornare a parlare di dignità senza scusarsi. Tornare a organizzare dove oggi c’è solo frustrazione. Tornare a politicizzare la vita quotidiana senza disprezzarla.

Perché anche nel vuoto – e, a volte, proprio lì – c’è spazio per la ricostruzione. E questa ricostruzione, se vuole essere reale e duratura, deve essere radicata nella classe lavoratrice e mirare a disputarsi, gomito a gomito, la coscienza del nostro popolo. Infine, il giorno in cui potremo dire “abbiamo trionfato”, non come risultato esclusivo di un’elezione, ma come frutto di un’organizzazione popolare orientata al superamento del capitalismo, quel giorno avremo vinto la battaglia culturale.

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Prove di accordo sull’Ucraina, “europei” fuori dalla porta

Capodanno col botto o come al solito? Sulla possibilità di metter fine alla guerra in Ucraina si è alzata una brezza ottimistica davvero stramba, che assume connotazioni molto differenti a seconda della collocazione di protagonisti e comprimari.

Partiamo da chi conta. Trump ha convocato Zelenskij, stavolta direttamente a casa sua, in quel di Mar-a-lago, in Florida. Lo stesso presidente ucraino ha dato il la alle ipotesi più speranzose, parlando del piano in 20 punti su cui stanno lavorando i rappresentanti degli Stati Uniti e dell’Ucraina come «pronto al 90%». «Il nostro compito è garantire che tutto sia pronto al 100%. Non è facile e nessuno dice che sarà pronto al 100% subito. Ma nonostante ciò, dobbiamo avvicinarci al risultato desiderato con ogni incontro, ogni colloquio», ha affermato.

I due nodi ufficialmente ancora da districare sarebbero il destino delle parti di Donbass ancora non riconquistate da Mosca e la gestione della centrale nucleare di Zaporizhzhia. Tutto il resto, a cominciare dai territori perduti, non ci sarebbe più un contenzioso plausibile… Ma non è proprio così, come stiamo per vedere.

Sui territori del Donbass il governo di Kiev vorrebbe partire dall’attuale linea del fronte per disegnare una zona smilitarizzata in parti uguali sui due lati, mentre Mosca ufficialmente pretende di arrivare al confine dell’oblast di Donetsk.

Sulla gestione della centrale nucleare – fisicamente nelle mani dei russi da quattro anni – Trump vede un menage a trois con Ucraina, Usa e Russia, mentre Zelenskij sogna ancora di escludere Mosca, la quale ovviamente non ne vuole neanche sentir parlare, ammettendo al massimo una compartecipazione statunitense.

Sulle “garanzie di sicurezza” invece la nebbia è fitta, anche perché la junta ucraina parla di solito soltanto di quelle che pretende da Mosca ma non di quelle che la Russia vuole dall’Occidente. La questione è sempre quella dell’ingresso, oppure no, di Kiev nella Nato, che si porta dietro quella della presenza o meno di truppe Nato sul territorio ucraino, a diretto contatto con quelle russe.

È sempre da ricordare che questo è stato il principale motivo della guerra, per Mosca. E qualunque soluzione che permetta alla Nato di ammassare truppe e basi da quelle parti non può trovare nessuna approvazione dal Cremlino.

Il quale però – evidentemente in possesso delle bozze “vere” del piano statunitense – sembra a sua volta cautamente ottimista. La portavoce del ministero degli esteri, Maria Zakharova, lo ha detto in modo estremamente chiaro: “Siamo pronti a firmare un patto di non aggressione [con la Nato e l’Ucraina, ndr]. Nero su bianco, giuridicamente vincolante“. Niente più giochetti come per Misnk 1 e 2, stipulati dall’Occidente solo per avere il tempo di riarmare i neonazisti in fregola per la guerra, che hanno continuato per otto anni ad attaccare le due repubbliche autonomiste del Donetsk e di Lugansk.

Messa così sembrerebbe quasi fatta. Al 90%, diciamo...

E invece chi non conta prova ancora a mettere ostacoli seri su un percorso comunque non facile.

Sentite come se ne è uscito ieri Manfred Weber, capogruppo tedesco del Partito Popolare Europeo a Strasburgo: «Vorrei vedere soldati con la bandiera europea sulle uniformi, lavorare a fianco dei nostri amici ucraini per garantire la pace». Ossia soldati tedeschi, francesi, placchi, ecc, direttamente al fronte. «Dopo un cessate il fuoco o un accordo di pace, la bandiera europea deve sventolare lungo la linea di sicurezza».

Siamo sicuri che Weber non ignora il fatto, piuttosto semplice, che “l’Europa” ha agito fin qui come parte in causa nella guerra e quindi non può pretendere nessun ruolo “fintamente neutrale”. Ossia la condizione minima per selezionare – eventualmente – quali paesi potranno mandare soldati a garantire la pace interponendosi tra i contendenti.

È quello che fa l’Onu, insomma, quando forma i contingenti Unifil. Pretendere invece di mandare “alleati” significa voler riprendere la guerra appena possibile (dopo aver ricostruito strade, ferrovie e un po’ di esercito ucraino, ormai agli sgoccioli.

Persino il rozzo fascistone che guida l’Ungheria, Viktor Orbàn, sembra quasi un essere ragionevole quando commenta questa “esternazione” tedesca: «Die Zeit ha pubblicato un’intervista in cui Manfred Weber dichiara apertamente che vorrebbe vedere i soldati tedeschi in Ucraina sotto una bandiera Ue. […] In realtà, questa non è pace, è una chiara escalation verso la guerra».

Coerentemente, la sedicente “coalizione dei volenterosi” prosegue nell’organizzazione di altri vertici “per l’Ucraina”, già in gennaio, con Macron tuttora impegnatissimo nel mediare il “dispiegamento di un contingente multinazionale deterrente” in Ucraina.

La pace ha molti nemici, a quanto pare. Deve essere per questo che “i volenterosi” restano esclusi dalle trattative vere e proprie.

«Sarò in contatto costante con loro, vorremmo [noi ucraini, ndr] che gli europei fossero presenti», ha detto Zelenskij ammettendo che Trump non li vuole in presenza. «Come minimo, ci collegheremo online e i nostri partner saranno in contatto». Così forse prenderanno atto di quanto sono inutili… Anzi. Dannosi.

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L’azione a senso unico del governo italiano: i terroristi sono i palestinesi

Nuovo attacco alle organizzazioni palestinesi presenti in Italia con l’arresto di nove persone, con la solita accusa di sostenere Hamas. Questa volta gli elementi a carico sarebbero i finanziamenti che queste associazioni avrebbero inviato direttamente o indirettamente all’organizzazione combattente palestinese. Non siamo ovviamente in grado di entrare nel merito dell’inchiesta giudiziaria ma il dato che balza agli occhi è sempre lo stesso: la completa sudditanza del governo italiano alle operazioni militari del governo genocida di Netanyahu. Mentre è sempre più esplicita la collaborazione con Israele sul piano economico e militare, con una fitta di rete di interscambi commerciali ma anche sul piano della compravendita di armamenti, le forze di polizia italiane sono attive per colpire il mondo della diaspora palestinese, immancabilmente accusato di terrorismo.

Il ministro Piantedosi si è ben guardato dall’indagare su quei cittadini italiani con doppio passaporto israeliano che avrebbero partecipato come militari al genocidio dei palestinesi, nonostante le interrogazioni parlamentari. Né si è preoccupato di intervenire a proposito delle vacanze italiane di militari israeliani, segnalate sui media in diverse occasioni, con tanto di protezione della polizia italiana. Il dato più evidente è che il genocidio dei palestinesi viene derubricato a diritto di Israele a difendersi mentre la resistenza del popolo palestinese è indiscutibilmente definita terrorismo.

Naturalmente dietro queste operazioni di polizia si cela anche l’intento di mettere la museruola al movimento di solidarietà con la Palestina, che negli ultimi mesi ha dato un’ampia dimostrazione di incontrare il sostegno di larga parte del Paese. Mentre sul genocidio in atto i riflettori mediatici si sono spenti, è forte l’amplificazione della notizia degli arresti, per lasciar intendere che i milioni di italiani scesi in piazza siano stati manipolati dal terrorismo.

Ma il terrorismo di cui siamo tutti vittime è quello di Israele e dei suoi alleati, complici del massacro della popolazione palestinese e oggi mobilitati in una impressionante campagna generale di riarmo.

Gli arresti di oggi puzzano di complicità con il governo di Netanyahu: quando arresteranno i vertici della Leonardo per le armi vendute ad Israele?

Unione Sindacale di Base

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L’Algeria dichiara la colonizzazione un “crimine di Stato” e chiede risarcimenti alla Francia

Il 24 dicembre l’Assemblea Popolare Nazionale di Algeri, cioè il parlamento algerino, ha approvato all’unanimità una legge che indica la colonizzazione francese, che ha riguardato il paese dal 1830 al 1962, un “crimine di Stato”. Il presidente dell’Assemblea, Brahim Boughali, ha indicato il testo come un modo per fissare la responsabilità storica dello stato francese nel processo di colonizzazione.

Nei 27 articoli della norma vengono esplicitamente citati alcuni dei crimini commessi da Parigi contro il popolo algerino: gli esperimenti nucleari nel deserto e gli annessi danni ambientali, le esecuzioni extragiudiziali, la tortura fisica e psicologica e il saccheggio sistematico delle risorse naturali e culturali del paese. La lista non ha solo un valore storico, però.

Con l’indicazione di azioni specifiche, infatti, l’Algeria pretende dalla Francia anche il risarcimento dei danni materiali e morali causati dal suo imperialismo, considerandolo un diritto inalienabile dello stato e del popolo algerino. Algeri vuole indietro gli archivi sottratti dopo l’indipendenza, così come i beni culturali rubati e anche i resti dei combattenti della resistenza ancora in possesso dei francesi.

Tra le altre cose, viene anche richiesta la bonifica dei siti dei test nucleari. Con la legge vengono inoltre stabilite misure penali per chi si macchia di apologia del colonialismo, con pene detentive da cinque a dieci anni, e sanzioni pecuniarie che si estendono anche a chi lo glorifica attraverso i media, i social o pubblicazioni di vario genere.

Ovviamente, la legge algerina non ha un potere vincolante verso l’Eliseo, ma allo stesso tempo rappresenta un importante cambiamento nel quadro delle relazioni tra l’ex colonia e “l’ex” colonialista, con importanti ripercussioni sulla situazione diplomatica dell’intera regione, la quale si è fatta sempre più complessa negli ultimi mesi.

Il ministro degli Esteri della Francia, Jean-Noël Barrot, ha detto di non voler commentare “dibattiti politici in corso in paesi stranieri”, a ribadire che il provvedimento non ha nessun potere vincolante nei confronti di Parigi. Ma ha anche affermato che si tratta di “un’iniziativa chiaramente ostile alla volontà di riprendere il dialogo franco‑algerino”.

In passato Macron ha definito la colonizzazione algerina come un crimine contro l’umanità, mentre Algeri aveva proseguito su una linea che chiedeva il riconoscimento storico, piuttosto che scuse formali e il risarcimento dei danni. Ma appunto, il dialogo franco-algerino si è fatto molto più complesso per una serie di dossier intrecciati nello scenario geopolitico.

Il riconoscimento delle mire marocchine sul Sahara occidentale; il diverso posizionamento dei due paesi del Maghreb riguardo alla causa palestinese; le accuse sull’immigrazione diretta verso la UE attraverso l’Algeria; l’inasprimento del regime dei visti per i diplomatici algerini e la preoccupazione per le relazioni intrattenute dal paese africano con Mosca, in particolare sul nucleare.

La politica imperialista europea, che vuole stringere il proprio controllo sul Mediterraneo allargato con uno sguardo al Sahel, ha trovato nell’Algeria un ostacolo non facilmente controllabile. La nuova legge algerina si inserisce in questa cornice diplomatica, e segnala la netta opposizione alle politiche neocoloniali, oltre a sollevare le responsabilità storiche delle potenze coloniali proprio nel momento in cui la loro estrema propaggine sionista ne mostra l’attualità dei crimini.

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Le società pubbliche fanno speculazione finanziaria. Il caso di Poste italiane

di Alessandro Volpi

Il valore complessivo delle società partecipate pubbliche quotate in Borsa era a luglio di quest’anno pari a quasi 264 miliardi di euro di cui lo Stato e Cassa Depositi e Prestiti possedevano quasi 90 miliardi.

In un anno il valore di questa partecipazione dello Stato solo per effetto dell’aumento del valore dei titoli di tali società è salito di quasi dieci miliardi. Tutto bene allora? Non proprio. Il Governo Meloni, infatti, ha deciso un piano di privatizzazioni di oltre 20 miliardi di euro, di cui ha già messo in atto una parte con dismissioni tra Eni, Mps e altri per cinque-sei miliardi, ceduti a grandi fondi Usa o al salottino buono della finanza nostrana (Delfin e Caltagirone in primis).

Questo piano sta proseguendo: è in rampa di lancio la cessione di un ulteriore 14% di Poste italiane, a cui potrebbe seguire quella di Ferrovie dello Stato, magari attraverso lo strumento di uno spin off dedicato. Intanto si parla di imminente cessione della Banca del Mezzogiorno, naturalmente dopo averla risanata a spese dei contribuenti e dopo che è tornata a distribuire dividendi, di una quota parte di Enav, l’ente che gestisce il traffico aereo civile, e persino della Zecca di Stato dopo averla portata in Borsa.

In estrema sintesi, la presidente del Consiglio e il suo ministro dell’Economia scelgono con cura le società che garantirebbero maggiori introiti allo Stato in termini di utili e ne vendono pezzi crescenti a privati -grandi fondi statunitensi e “grandi famiglie”- in modo da trasferire loro gli utili pubblici.

In quest’ottica emerge un altro dato, costituito dalla crescente finanziarizzazione delle partecipate pubbliche. Un caso davvero eclatante è quello costituito da Poste che ha preso parte alla nota operazione di acquisizione da parte del fondo americano Kkr della rete fissa Tim. In quell’operazione la quota dei francesi di Vivendi è stata sostituita da Poste che ha raggiunto il 27% della società, per effetto anche dell’acquisizione del 10% posseduto da Cassa depositi e prestiti, e si è legata al processo di ridefinizione del perimetro delle attività della stessa Tim.

È interessante notare che oggi Tim ha una capitalizzazione di quasi 12 miliardi di euro, più del doppio di luglio, e che tale aumento ha, assai probabilmente, molto a che fare con la presenza nell’azionariato proprio di Poste, a cui si affianca la quota conservata dal ministero dell’Economia. In altre parole, le società pubbliche fanno “speculazione” finanziaria comprando pezzi di società che erano in passato monopolistiche e ora sono diventate private, contribuendo al successo della speculazione con la garanzia della presenza dello Stato proprietario visto che i settori di cui si occupano sono “regolati”. Naturalmente dal momento che ragionano in termini finanziari tali società pubbliche, come avviene per Poste, abbandonano ogni altra attività che riguardi il loro core business e la loro natura di servizio pubblico per cercare la remunerazione a breve del capitale, la cui massimizzazione è poi propedeutica alla dismissione di porzioni significative di quello stesso azionariato.

Un esempio analogo proviene da Eni che ha realizzato in nove mesi 2,5 miliardi di utili e ha deliberato un’operazione di buy-back, cioè di riacquisto delle proprie azioni, per 1,8 miliardi di euro. In pratica un regalo senza alcuna tassazione agli azionisti che si troveranno con azioni dal valore decisamente accresciuto. È bene ricordare che lo Stato ha il 31,8% di Eni, mentre il secondo e il terzo azionista sono BlackRock e Vanguard, a cui si aggiungono altri fondi battenti bandiera statunitense per una quota proprietaria non lontana dal 10%.

Il problema è che questi utili dipendono in buona parte anche dalle bollette dell’energia pagate da italiani e italiane; circa il 48% della bolletta dipende dal costo della materia prima e in questo ambito Eni, tramite Plenitude, di cui ha ceduto di recente il 20% a un fondo, ha un grande rilievo. Di nuovo, dunque, le partecipazioni pubbliche si inoltrano in continue operazioni finanziarie, godendo della natura monopolistica delle attività di cui si occupano, e traducono la loro azione in dividendi che sono il vero elemento in grado di rendere possibile la loro privatizzazione. Finanza e privatizzazioni non possono andare disgiunte.

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