Caos internazionale.
Il 25 febbraio è stata una giornata difficile sotto molti punti di vista.
L’agenzia di rating Moody’s ha tolto la tripla A all’Inghilterra, provocando il deprezzamento della sterlina sia verso il dollaro sia verso l’euro, aggiungendo un nuovo squilibrio nella guerra valutaria con cui Giappone, Stati Uniti d’America e la stessa Inghilterra stanno cercando di rendere le proprie esportazioni più competitive sul piano internazionale. In Portogallo i commissari della Troika hanno stabilito i nuovi termini per il rilascio degli aiuti internazionali,e hanno candidamente ammesso che le previsioni ottimistiche su una crescita zero nel 2013 sono infondate. L’economia di Lisbona scenderà di almeno due punti percentuali, ed è abbastanza facile immaginare che il graduale ritorno sul mercato privato del debito non avverrà nel secondo semestre del 2013 come previsto. Infine, i risultati delle elezioni politiche italiane.
L’alleanza tra il centrosinistra di Bersani e il centro di Monti, soluzione sponsorizzata da tutto il capitalismo internazionale, con tanto di editoriale dell’Economist, non ha ottenuto i numeri per governare.
La “reazione dei mercati” è stata di crescita dello spread e perdita dei valori azionari. L’economista Emiliano Brancaccio negli scorsi anni è stato uno dei più noti sostenitori dell’europeismo dialettico, in altre parole di una linea per la ricontrattazione delle basi su cui è fondata l’Unione Europea contro il rigorismo imposto dalla Germania e dai paesi cosiddetti “virtuosi”. In un suo intervento post-elettorale Brancaccio ha sostenuto che il coma farmacologico in cui la Banca Centrale Europea di Draghi ha posto la moneta unica è al termine, i fatti di fine febbraio sarebbero il sintomo che tutte le tensioni disgregatrici sono tornate in azione e che si dovrebbe seriamente pensare al “piano B”: cosa fare dopo che l’euro sarà saltato.
Qualcuno ci pensa, in Italia?
Le elezioni politiche hanno determinato lo stallo dell’opzione politica più gradita alla Germania e al grande capitale europeo. A poter cantare vittoria rimangono Berlusconi, uscito momentaneamente dalla fossa in cui sembrava relegato solo due mesi fa, e Grillo, il “non-capo” del primo partito italiano. In maniera diversa entrambi hanno criticato l’impostazione di austerità di Monti. È facile immaginare che la destra berlusconiana e leghista tornerà a votare l’austerità, come ha fatto durante il governo Berlusconi IV e come ha fatto durante il governo Monti, nonostante gli smarcamenti mirati a preservare almeno un po’ di consenso. Le posizioni anti-euro assunte a giorni alterni da Berlusconi lo rendono uno dei possibili interpreti dell’uscita dall’euro “da destra”: privatizzazioni fatte per svendere a basso prezzo gli assetti industriali, diminuzione drastica dei salari, tagli draconiani alla spesa pubblica. Sono tutte misure che il centrodestra ha proposto e perseguito. L’ostacolo maggiore non è quindi la volontà, ma l’incapacità del gruppo dirigente berlusconiano. Il Movimento 5 Stelle si approccia alla questione europea con abbondanti dosi di ambiguità. Ufficialmente il programma dei grillini prevede un referendum sulla permanenza nell’euro. L’adesione ai trattati non è però sottoponibile a referendum per Costituzione, e il M5S non ha ancora risolto le ambiguità tra chi dice che bisognerà cambiare la Costituzione per poi fare il referendum (un processo che come minimo impiegherebbe un anno e mezzo) e chi propone invece un referendum solamente consultivo. Mentre scrivo, lo stesso Grillo propone un “referendum web”, qualsiasi cosa sia. L’economista Gallegati, collaboratore di Stiglitz più volte intervenuto sul blog del comico-politico, in varie interviste ha espresso una linea impostata sull’europeismo dialettico, negando che il M5S voglia uscire dall’euro.
Sul blog di Grillo è prontamente comparsa una nota per spiegare che nessun economista può parlare in nome del Movimento, smentendo così anche la posizione anti-euro di Loretta Napoleoni (sulle cui competenze di “economista” le virgolette sono d’obbligo). Nella confusione grillina si agitano tendenze di ogni tipo, non sembra esserci però la consapevolezza sulla necessità, in caso di uscita dall’euro, di tempi rapidi e di azioni pesanti a difesa dei salari, contro l’espatrio dei capitali e di limitazioni al mercato comune europeo. Nella coalizione di centrosinistra, e nei suoi referenti sindacali, accennare alla possibilità che l’euro venga meno è una bestemmia. Fassina, leader della “corrente di sinistra” del PD, s’è addirittura espresso a favore del sistema di commissariamento per i paesi che sforano i parametri del Fiscal Compact. Negli scorsi mesi alcuni esponenti piddini, in ambienti ristretti, hanno parlato della necessità dell’europeismo dialettico e financo della possibilità di minacciare la fine del mercato unico nelle trattative con la Germania. Proiezioni politiche pubbliche di tutto questo non se ne sono però viste. Addirittura, la proposta dello Standard Salariale Europeo contenuta nel programma del Partito Socialista Europeo, è stata completamente accantonata dal PD durante la campagna elettorale.
Che le forze politiche italiane vogliano considerare l’uscita dall’euro, da destra o da sinistra, una possibilità o meno, è in Germania che si gioca la partita fondamentale.
In Germania ci si pensa.
La fine dell’euro, come lo conosciamo ora, è un’ipotesi discussa apertamente in Germania. Il ministro delle finanze Schauble a maggio scorso ha esplicitamente sostenuto che i costi dell’uscita della Grecia dall’euro sono sostenibili. L’intransigenza del governo Merkel ha già portato l’euro sull’orlo del collasso fino alle immissioni di liquidità decise da Draghi nel Luglio scorso. Il discorso dei falchi tedeschi è semplice: contano di uscire vincitori dall’uscita a destra dall’euro, conservando il mercato comune potrebbero continuare a esportare verso i paesi deboli dell’Europa e al massimo salverebbero un “mini euro” con i paesi del nord fedeli al rigore, senza dover condividere le turbolenze monetarie dei paesi del sud. Alle elezioni generali in autunno il governo cristiano-democratico ha ottime probabilità di essere riconfermato. La possibilità di un cambio di alleanze, da un Partito Liberale in difficoltà ai Verdi, non migliora la situazione. I Verdi tedeschi hanno tenuto un congresso straordinario per dibattere sul Fiscal Compact, finendo per assumere una posizione favorevole e lasciando la sinistra radicale di Die Linke come unica forza parlamentare contraria.
I socialdemocratici dell’SPD non offrono prospettive migliori. L’allineamento al rigorismo non è stato scalfito neanche dalla stagione sindacale rivendicativa portata avanti dai metalmeccanici di IGMetall. Le timide critiche sulla conduzione dei salvataggi delle banche e degli stati portate dal candidato cancelliere Steinbruck sono accompagnate dalla conferma dei patti europei. È probabile che dopo la sconfitta elettorale l’SPD torni sulle posizioni Jurgen Stark, socialdemocratico dimessosi due anni fa dalla BCE in polemica contro qualsiasi ipotesi di euro-bond. Il partito della sinistra radicale Die Linke ha compiuto negli ultimi anni un percorso che l’ha portato da un europeismo con tratti anche ingenui a posizioni più consapevoli e di critica all’impostazione generale dell’Unione Europea e della moneta unica. La fine dell’euro sembra però uno scenario non ancora preso in considerazione, quantomeno nel dibattito pubblico. Ancora questa estate la Fondazione Rosa Luxemburg,vicina ma non organica al partito, consigliava di assumere posizioni europeiste dialettiche ma di non scivolare su posizioni euroscettiche come quelle del Partito Socialista in Olanda. In Germania la possibilità di porre fine alla moneta unica è discussa pubblicamente. Le forze che ne trarrebbero vantaggio sono al governo e probabilmente ci rimarranno. A Roma l’ipotesi non è discussa, nel caso avvenisse un’uscita da destra, il peso sarebbe scaricato interamente sulle classi popolari. Chi dovrebbe rappresentarne gli interessi, la sinistra sindacale, di movimenti e politica, risulta: non pervenuto.
Paolo Rizzi
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