Sul dopo elezioni e la situazione del paese continua la latitanza dei
vertici confederali. Anche per Giorgio Cremaschi serve uno tsunami nel
sindacato.
Bisognerebbe forse rivolgersi a "Chi l'ha visto?" per
avere notizie dei gruppi dirigenti di CGIL CISL UIL. Sono scomparsi
anche dallo spettacolo mediatico e se qualche presenza c'è stata, non se
ne è accorto nessuno.
Qualcuno potrebbe obiettare che questo
avviene perché le grandi confederazioni sono estranee all'avvitarsi su
se stessa della crisi politica, fanno un altro mestiere. Ma è difficile
dimenticare il loro impegno pre elettorale.
La CISL è stata
promotrice della lista Monti, mentre la CGIL ha investito tutto sulla
vittoria di Bersani. Entrambi i gruppi dirigenti di queste
confederazioni sono dunque usciti sonoramente sconfitti dal voto, a
maggior ragione perché un gran numero degli iscritti alle loro
organizzazioni non li ha seguiti e ha votato 5 stelle.
Ma la
scelta di collateralismo elettorale non è la causa, ma solo un
disperato, fallito, tentativo di affrontare così una crisi del
sindacalismo confederale che ora sta precipitando dopo anni e anni di
scivolamento verso il basso.
Oggi milioni di lavoratori si
chiedono a che serva il sindacato. E non perché abbiano sposato le
teorie neoliberiste secondo le quali la contrattazione sindacale sarebbe
un freno allo sviluppo. Ma al contrario perché sentono il sindacato
assente o lontano dal disastro della loro condizione sociale.
I
precari e i disoccupati sono fuori dal mondo sindacale organizzato, ma
anche quest'ultimo è sempre meno tutelato dalla contrattazione. Gli
accordi che si firmano sono solo peggiorativi, sia quelli separati come
l'ennesimo in Fiat, sia quelli unitari come alle Trenord. Ovunque i
lavoratori sindacalizzati ricevono più danni che benefici dagli accordi
sindacali.
Si può obiettare a questo brutale giudizio che
sempre nei momenti di crisi e disoccupazione i sindacati hanno fatto
fatica a reggere. Però bisogna anche provarci a resistere.
Il
governo Monti ha realizzato le sue peggiori controriforme, dalle
pensioni all'articolo 18, e la sua disastrosa politica di austerità con
il consenso della Cisl e con le brontolate senza mobilitazione della
CGIL. La UIL non è pervenuta.
Questo ultimo anno catastrofico
per le condizioni complessive del mondo del lavoro ha visto una
complicità e una passività sindacale uniche in Europa, o in ogni caso in
contrasto clamoroso con quello che era considerato uno dei movimenti
più forti del continente. Le resistenze della FIOM e dei sindacati di
base, le singole lotte aziendali, non sono riuscite a fermare questa
ritirata generale.
Si capisce allora meglio perché i gruppi
dirigenti di CGIL e CISL si sono così platealmente spesi nella campagna
elettorale. Dalla vittoria dello schieramento amico speravano di
riottenere quel ruolo istituzionale che avevano perso senza lottare.
Non è andata così ed ora i gruppi dirigenti delle grandi confederazioni
brancolano nel buio, sperando in chissà quale miracolo che permetta
loro di continuare così senza cambiare nulla.
La burocrazia
sindacale sente arrivare la crisi, ma spesso reagisce ad essa con la
chiusura al dissenso e l'obbligo alla fedeltà. Due operai, militanti
sindacali esemplari generosi e onesti, sono stati espulsi dalla CGIL a
Padova perché su internet contestavano i dirigenti. E non è certo il
solo caso di autoritarismo nella vita interna.
Questo sindacato
che oggi pare scomparso, non produce autocritiche, non ricerca vie nuove,
non si rinnova né tanto meno si sburocratizza, ma pretende solo
l'arroccamento dell'organizzazione attorno ai gruppi dirigenti.
Eppure oggi come non mai le lavoratrici ed i lavoratori, i precari e i
disoccupati, quel 65 % della popolazione il cui reddito non basta più
per vivere, avrebbero bisogno di un sindacato che lotti e soffra assieme
a loro.
Serve oggi un sindacato di lotta e cambiamento sociale
profondamente democratico e totalmente indipendente dagli schieramenti
politici. E se per ottenerlo occorre che anche le grandi confederazioni
siano colpite dallo tsunami che ha sconvolto il quadro politico, bene
che accada.
Il prezzo che il mondo del lavoro paga oggi, anche per la passività sindacale, è troppo pesante e ingiusto per continuare così.
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