Una storia si è chiusa. Una conclusione ampiamente prevedibile da
parecchio tempo. Non riguarda solo le dimissioni delle Segreterie
Nazionali di PRC e PdCI ma, più complessivamente, l’esaurirsi di una
parabola storica iniziata con la nascita del PRC dopo la fine del PCI.
Una storia si è
chiusa. Questa conclusione, a dire il vero, era già ampiamente
prevedibile e anche da parecchio tempo. Sia chiaro: non vogliamo – qui –
fare riferimento esclusivamente alle dimissioni delle Segreterie
Nazionali del PRC e del PDCI ma, più complessivamente, all’esaurirsi di
una parabola storica iniziata con la nascita del PRC dopo la fine del
PCI. Quando avvengono fatti di questa rilevanza non è mai solo una
questione oggettiva ma sempre il suo combinarsi con quelle soggettive.
Nessun comunista può mai essere sollevato quando vede il pezzo di una
tradizione, cui lui stesso appartiene, scomparire nell’irrilevanza
dell’attualità. Ma allo stesso tempo, la consapevolezza di essere dentro
una battaglia lunga, aiuta a comprendere i passaggi di fase e lo
smascheramento degli errori. Ovviamente pesantissimi, date le
circostanze favorevoli in cui un’organizzazione comunista si trova in
questo momento di crisi sistemica del modo di produzione capitalistico.
Crisi che, come sottolineiamo da anni, è sistemica e non strutturale. Il
capitale però sta sì su di un piano inclinato ma da solo non precipita.
Davanti alle praterie sterminate che ci aspettano e in un momento in
cui è molto più facile che non venti anni fa dirsi comunisti, aver
preferito una linea politicista e non di organizzazione politica di
rappresentanza del blocco sociale, è apparsa una scelta suicida. E,
allora, affondiamo i piedi nel piatto. Che il risultato elettorale di
Rivoluzione Civile sia stato negativo poco deve importare ai comunisti,
nulla al paese. Molto, invece, deve importare (ai comunisti, quanto al
paese in generale, poiché le battaglie dei comunisti hanno sempre
rappresentato una progressione anche all’interno della democrazia
borghese) che questo risultato ha determinato la scomparsa, già durante
la campagna elettorale, di un chiaro riferimento al movimento di classe.
Nella lettera di dimissioni del gruppo dirigente del PRC si legge il
rammarico per non essere riusciti «a far emergere il profilo
antiliberista, di sinistra e popolare della lista, che è rimasta
schiacciata tra le spinte al voto utile e quelle al voto di protesta.»
Prima osservazione: la lista Rivoluzione Civile non aveva per nulla – ed
era chiaro a tutti – i connotati di sinistra o popolari cui si è
accennato e per questo era impossibile comunicarli. Seconda
osservazione: al cospetto della crisi più grave che il modo di
produzione capitalistico ha mai conosciuto non darsi, da comunisti, un
profilo coerentemente anticapitalista (in realtà, a differenza del PRC,
il PDCI dice di esserlo) ma limitarsi a un generico antiliberismo
apparendo né più né meno dei liberali un po’ democratici, è
incomprensibile. Ma ancora più stupefacente – e però indicativo delle
ragioni della sconfitta – è il bollare (spregiativamente) «le spinte al
voto utile e quelle al voto di protesta». Che cosa sarebbe, allora, il
voto? Solo un pronunciamento etico? Un voto d’opinione? Roba da
borghesia e da radicali.
Tutto questo è estraneo al
patrimonio d’analisi e di pratica del movimento comunista
internazionale. È ovvio, infatti, che il voto dev’essere utile e di
protesta. Come in un freudiano abbassamento del livello di controllo del
conscio sull’inconscio, il gruppo dirigente del PRC ammette, dopo la
batosta, di aver consegnato i potenziali voti ad altri: per quale
motivo, infatti, l’elettorato ‘di sinistra’ viste le opzioni in campo,
avrebbe dovuto preferire RC al PD o, anche, al Movimento 5 Stelle?
Non vogliamo credere che si sia privilegiato un ragionamento volto a
salvaguardare il ceto politico ricorrendo (qui sì alla categoria di
utile!) alla giustificazione della pattuglia (1 o 2 eletti?) in
Parlamento. Mussolini pensava di avere bisogno di qualche morto per
sedere al tavolo delle trattative tra vincitori e poi all’Italia
rimasero solo i morti: nel caso di queste elezioni che non ci fosse
nessuna partita aperta per la vittoria (se non come appendice
ininfluente del PD) era logicamente prevedibile. Rimangono i morti: ecco
perché il problema è l’atterraggio. È questo che ora, come comunisti
ovunque collocati, ci deve interessare: non disperdere il patrimonio di
passione e impegno che i militanti hanno profuso anche in
quest’occasione e lavorare perché un’organizzazione comunista
all’altezza della sfida posta all’ordine del giorno sappia comprendere
il paese, stare dalla parte dei lavoratori e trasformarlo.
Per
questo motivo sarebbe opportuno che chi è stato responsabile – e non da
oggi – di questa deriva faccia silenzio e passi la mano sulle
prospettive future dei comunisti in questo paese. Deriva inscritta,
politicamente e culturalmente, già nelle tesi di maggioranza del V
congresso del PRC nel 2002. Ciò che risaltava era, infatti, non il
riferimento ideale a Marx (ovvio), bensì l’esclusione del resto.
Un resto (l’intera tradizione del marxismo e del movimento comunista)
spesso irriducibile alla sola riflessione marxiana e, molte volte, non
includibile nell’identità di Marx. Sarebbe opportuno ribaltare un luogo
comune: cos’è l'album di famiglia (come spesso si legge da più parti),
citare Gramsci come ossequio rituale o, al contrario, farsi carico
responsabilmente dei significati che tal eredità lascia? Questo è – oggi
come allora – il punto: farsene carico, vuol dire fare uscire il
marxismo dalla storia delle idee in cui si vorrebbe sterilmente e
ideologicamente irreggimentarlo (come se la storia delle idee fosse
altra cosa rispetto ai processi reali) per riagganciarlo alla storia
dell’umanità che esso ha modificato sostanzialmente partendo da Lenin e
dalla rivoluzione
d’ottobre. Altrimenti, fuori di questa relazione, di Gramsci (spesso
citato per giustificare tutto e il contrario di tutto), rimane solo
l’icona. Ecco, dunque, perché il riferimento a Lenin appare decisivo:
perché significa la traduzione nella prassi politica concreta di un
patrimonio d’idee e di lotte che lì hanno conosciuto il senso del
misurarsi con la storia, interrompendo le drammatiche sconfitte che il
movimento operaio aveva conosciuto con le prime due Internazionali.
Questo spinse Gramsci a definire “moderno principe” il partito di Lenin:
riuscire a mettere in atto ciò che la Russia del tempo chiedeva;
determinare, cioè, il passaggio dalla potenza all’atto. Infondere nuovo
senso alla storia è una grandezza, sia consentito, incommensurabile
rispetto a tanti altri esempi; o, almeno, stabilisce un’inconfutabile
priorità dalla quale non si può prescindere. La capacità d’analisi e
d’azione volta a sviluppare in senso progressivo o rivoluzionario
l’emergere di una congiuntura storica è, probabilmente, la cifra più
indicativa della politica di un partito comunista.
Proporre,
dunque, che Rivoluzione Civile dia oggi inizio alla costruzione di un
polo politico è più che sbagliato: è perseverare. Il problema non sono
le alleanze che è necessario, ovviamente, fare, ma l’orizzonte
strategico entro cui collocarle e, soprattutto, intraprenderle nel
momento in cui i rapporti di forza siano più favorevoli ai comunisti.
Individuare, cioè, un blocco storico (cosa più ampia e conflittuale di
un blocco sociale) all’interno del quale i comunisti possano ingaggiare
una battaglia per l’egemonia. Il coraggio si misura dalla capacità di
comprendere quando una sfida è possibile intraprendere giocandosela e
non, invece, quando abbandonando la ragione si va allo sbaraglio: l’aver
soltanto pensato che, per i comunisti, fosse possibile stare dentro
alleanze spurie, senza riferimenti di contenuto alla sinistra e alla
trasformazione e con rapporti di forza sfavorevoli, significa, in fondo,
non vedere le differenze ed essere quindi percepiti come nulli.
Rilanciare un disegno politico sconfitto oggi in maniera evidente ma le
cui ragioni sono da ricercare in scelte (del PRC) più che decennali
sarebbe un errore imperdonabile.
C’è
bisogno di una battaglia culturale e teorica che ci consenta di leggere
i dati politici (anche quelli elettorali) all’interno di una visione
organica delle contraddizioni della realtà economica e sociale.
Battaglia culturale che affronti, qui e ora, il tema della crisi del
capitalismo e le sue alternative possibili.
La prima
regola per riuscire in questa battaglia è quella, però, per chi ha
partecipato indirettamente agli errori delle scelte strategiche dei
gruppi dirigenti, di non introiettare la sconfitta, altrimenti non si
porrà mai effettivamente il tema delle prospettive alternative.
Una battaglia culturale e teorica che è, quindi, imprescindibile anche
per rafforzare e organizzare una nuova soggettività politica capace di
porsi come concreta pratica agente della trasformazione del mondo; nuova
soggettività che i tempi della crisi attuale del capitalismo rende
sempre più impellente, accelerando la necessità storica di una forma
organizzata dei comunisti che si faccia trovare attrezzata. È un lavoro
prezioso, perché, ponendo questioni teoriche e situandosi all’interno
delle contraddizioni sociali, fornisce strumenti necessari per tutti i
compagni che, in vario modo, sono impegnati nella comprensione e nella
trasformazione della realtà circostante. E la soggettività politica di
un’organizzazione comunista non può non porsi, infatti, il problema dei
rischi dell’assoggettamento ideologico e culturale che, inevitabilmente,
si producono all’interno delle società capitalistiche che pongono
l’accento sui modi (e sui tempi) dell’acquisizione di un reale ed
efficace punto di vista radicalmente altro, di una prospettiva
differente.
La congiuntura nella quale operiamo, inoltre, non è
una semplice contingenza: le leggi delle crisi cicliche del modo di
produzione capitalistico, sono sì tendenziali ma, proprio per questo,
durano; sono, cioè, rapporti stabili che vanno indagati e, poi,
aggrediti. Una battuta (che adesso va spiegata, altrimenti cinica nella
sua drammaticità) può farci comprendere cosa si voleva intendere,
inizialmente, quando si sosteneva delle sterminate praterie che ci si
prospettano: i comunisti, le crisi se le devono augurare!
La
ragione (cui, come marxisti, dobbiamo sempre appellarci) mostra di
farsi carico della complessità della realtà e di porsi come soluzione,
proprio quando si colloca nel momento fecondo della crisi. Marx
individuava proprio nelle crisi ciò che consentiva alla contraddizione
tra forze produttive e relazioni di produzione di prospettare una realtà
alternativa: «queste catastrofi si ripetono regolarmente con ampiezza
sempre maggiore e infine conducono al suo violento rovesciamento»
(Grundrisse). Che le «catastrofi» descritte da Marx, in altre parole la
caduta tendenziale del tasso medio di profitto, si ripetano regolarmente
è sotto gli occhi di tutti; così come (è pure sotto gli occhi di tutti)
che il loro «rovesciamento», proprio perché situato nel processo di una
caduta tendenziale e non necessaria, richiede un elemento soggettivo.
Le crisi, dunque, determinano le condizioni oggettive per il loro
superamento, ma da sole non sono sufficienti.
In
sintesi: per quanto ci riguarda, come comunisti (e come marxisti perché
le due cose non sempre coincidono, sebbene dovrebbero, poiché non è
sufficiente autoproclamarsi tali), abbiamo il compito di porci il
problema dell’organizzazione politica, sia riflettendo sulla
forma-partito (consapevoli che esso è uno strumento fondamentale ma non
un fine) sia lavorando perché essa stessa diventi l’intellettuale
collettivo necessario per la trasformazione del mondo.
Non
sono pochi, quindi, gli elementi di sana autocritica che le forze
politiche che in qualche modo derivano dall’anomalia italiana, e cioè
dalla storia del PCI, devono fare: solo a titolo esemplificativo è
possibile citare il tabù culturale sul socialismo reale e, dal punto di
vista prettamente politico-elettorale, le alleanze a perdere sul terreno
dell’avversario, come nel caso della guerra e delle politiche
neoliberiste avallate e perpetrate dai governi di centro-sinistra (con
ministri che si autoproclamavano comunisti!).
Utopisti e
ideologici nel denunciare questo? Questo è lo strano paradosso (ma
comprensibile se teniamo, appunto, a mente l’assoggettamento culturale e
ideologico al pensiero dominante) per chi, con Marx e attraversando
tutta la grande tradizione del marxismo ha voluto costruire, invece, una
scienza, attraverso rotture difficili ma necessarie con le precedenti
teorie di un socialismo vagamente umanitario o comunitario. Un paradosso
per tutti i compagni che sentono sulle loro spalle il peso della
sconfitta sul piano, evidente, dell’oggettività, ma anche su quello
della capacità soggettiva di formulare una controffensiva. È naturale
che il marxismo sia ostacolato anche attraverso la sua mistificazione;
fa parte della battaglia politica e della lotta di classe. Tutto questo è
ideologico (nel senso marxiano), perché funzionale a occultare e a
dominare la lotta di classe che, invece c’è, nella società come nella
teoria.
È una questione, a nostro avviso, centrale e che
chiederebbe dieci, cento, mille iniziative: la lotta di classe è, oggi,
combattuta con consapevolezza di parte, essenzialmente dalle classi
dominanti e, proprio per questo, per invertire l’invertito corso del
mondo, bisogna ribaltare il tavolo e, partendo, dall’elaborazione
teorica e culturale, prospettare un punto di vista irriducibilmente
antagonistico.
Riannodare i fili è possibile, non siamo,
infatti, alla fine della storia: lo dimostrano i fatti, basta una
semplice cartografia della storia presente.
Ci occorre, dunque,
una vera e propria mappatura delle forze in campo. Consapevoli che
siamo solamente alla tappa d'apertura di un processo di
ricomposizione che non può partire dalla somma di frammenti elettorali,
peraltro insignificanti e che tante altre occasioni di confronto e di
verifica sullo stato della navigazione sono ancora necessarie.
Concludendo: dobbiamo prendere la parola, da comunisti e da marxisti,
sulla natura della crisi, nel mondo, in Europa e in Italia, perché essa,
come si diceva, ha sì un piano oggettivo, ma ci chiede un intervento a
partire dalla nostra soggettività: noi non possiamo inseguire il mito
del superamento capitalistico della crisi del capitale; vale a dire il
massacro sociale. Il superamento vero della crisi del capitalismo (che
è, appunto, sistemica e non strutturale) è, per i comunisti, il
passaggio, la transizione a un modello politico e sociale radicalmente
diverso. Per noi significa pure ripartire, dopo un’accurata analisi di
classe, dalla concreta, effettiva, realtà sociale del paese e
su di essa misurare le nostre forze. Siamo davanti a un nuovo inizio da
affrontare con forza e responsabilità.
L’atterraggio può essere meno duro del previsto, anche perché altre forze sono in campo già da qualche tempo.
Fonte
Mi aggrada come prospettiva ma non riesco proprio a sentirla mia, credo sia la misantropia a fregarmi.
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