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08/03/2013

La strettoia

Le pareti si stringono, le onde si vanno alzando. Il risultato elettorale ha disegnato uno stallo inusuale, anche perché l'ultimo potere legittimo rimasto – la presidenza della Repubblica – è in pieno “semestre bianco” e quindi impossibilitato a sciogliere le nuove Camere ed indire un altro round elettorale.
Siamo tutti alquanto nauseati della “politica di palazzo”, e quindi spinti a guardare con sufficienza, o addirittura disattenzione, a questo delicato passaggio. In fondo, ci si dice anche tra compagni, stiamo assistendo alla fine di un'epoca, in cui queste istituzioni svuotate tirano, come ampiamente previsto, le cuoia.

Eppure, proprio nella morte risiede in genere l'interesse di un qualcosa che è vissuto a lungo nella banalità, nella corruzione, nella negazione della propria stessa dignità. Proprio ora, dunque, bisognerebbe guardare con attenzione a cosa accade oltre i pupazzi che si agitano sulla scena, oltre ai partiti vecchi e nuovi, qualsiasi definizione diano di sé. Detto in un altro modo: usciamo da questa roba, ma finiamo dove?

Il punto di rottura si è avuto, fin dal 1992, con la fine del ruolo “ideologico” dei partiti politici, fin lì esistiti come manifestazioni empiriche di visioni del mondo differenti, ancorché concorrenti – ma "responsabilmente" – al governo del paese. Investiti da Tangentopoli (dalla magistratura e da qualche monetina in piazza), l'establishment politico sopravvissuto si è scomposto e ricomposto dentro contenitori dai nomi sempre diversi, per assemblaggi e assembramenti sempre più chiaramente strumentali al mantenimento dello statu quo. La “sinistra radicale” ha pagato il prezzo più alto a questa “strategia mimetica” suicida, perché da lei era lecito attendersi l'esatto contrario. Ossia la rigorosa corrispondenza tra parola e azione. E invece abbiamo avuto leader che tuonavano contro la precarietà ma votavano il “pacchetto Treu”, assessori che scendevano in piazza contro “grandi opere” che poi in sede consiliare approvavano.

Che “politica” è quella che vende i propri obiettivi in cambio di un patto elettorale, una carica pubblica, una poltrona nelle controllate? È la “politica” che è morta in queste elezioni, sotto la spinta della crisi e di una rabbia senza soluzioni.

Colpa dei partiti, certamente. Che non hanno mai voluto dare un quadro di regole che potesse inverare in modo funzionale l'art. 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Morte le ideologie, quindi, è stato un proliferare di partiti personali o di piccoli “cerchi magici”, accomunati dal trattare gli elettori come clienti di un supermercato, bombardati dalla pubblicità. “Furbizie” all'italiana, tipiche di un ceto politico (anche “vecchio comunista”) per cui fatta la regola generale (in questo caso quella costituzionale) si pensa subito a come aggirarla (evitando di redigere i “decreti attuativi”).

Comunque sia, siamo in punto di morte. Lo scontro sotterraneo che i media tengono in sordina vede contrapposti Napolitano e Bersani. Con il primo a suggerire l'“inciucio” estremo (un governissimo che includa tutte le forze che hanno già fatto la prova del governo, ossia Pd, Pdl, e Monti) e il secondo che recalcitra, consapevole che questo sarebbe la fine sua e dell'insieme che rappresenta, senza alcun guadagno nemmeno “per il paese”.

Del resto, il Berlusconi accusato di aver ribaltato un governo comprando per tre milioni il voto decisivo di De Gregorio, e che probabilmente riceverà entro marzo ben tre condanne penali, una più infamante dell'altra, non è un “compagno di strada” che possa essere nuovamente accettato senza una sovrattassa in termini di consenso e perfino di tenuta dell'organizzazione.

E il movimento di Grillo, anche soltanto per puro istinto di sopravvivenza, non può concedere “fiducia” a un esecutivo – chiunque lo diriga – che dovrebbe puramente e semplicemente eseguire i diktat della Troika proprio nell'anno in cui diventano operative le misure previste dal Fiscal Compact (50 miliardi di tagli alla spesa pubblica, intanto).

Ma non si può tornare a votare prima che sia stato eletto un nuovo Presidente della Repubblica con pieni poteri, in grado di sciogliere le Camere.

Se tutto questo avvenisse nella quiete sociale ed economica, probabilmente la soluzione sarebbe già stata trovata (dimissioni di Napolitano il giorno dopo la prima riunione del nuovo Parlamento, anticipata ora al 13 marzo). Ma non c'è quiete. Lo spread ha guadagnato 100 punti in una settimana, prima che una qualche decisione istituzionale chiara prenda forma sarà almeno raddoppiato, ponendo pesanti e ulteriori vincoli sul bilancio statale.

L'unico potere esecutivo resta così nelle mani di un esecutivo “tecnico”, mai eletto (e anzi stracciato da un  elettorato furente), in teoria attivo solo per “l'ordinaria amministrazione”. Ma abbiamo visto un ministro degli esteri interpretare addirittura il ruolo di coordinatore dell'alleanza che dovrà dare l'assalto finale alla Siria. Se questa è “ordinaria amministrazione”, può esserlo qualsiasi cosa.

Come si vede, sono tempi “d'eccezione”, con grandi vuoti aperti nell'architettura istituzionale. Ma non ci viene di gorgheggiare, come a qualcuno è capitato di fare, un “viva l'ingovernabilità!”. Per un motivo semplice, ma piuttosto potente: la natura rifiuta il vuoto. E un vuoto di potere, quando si crea, viene certamente riempito da chi ha la forza per farlo.

La forza, non la ragione. E non siamo certamente noi ad averla, oggi.

Fonte

In chiusura avverto un vago richiamo ai decenni dei colonnelli che dalla Grecia al sud America irrompevano nei palazzi di governo...

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