Le pareti si stringono, le onde si vanno alzando. Il risultato
elettorale ha disegnato uno stallo inusuale, anche perché l'ultimo
potere legittimo rimasto – la presidenza della Repubblica – è in pieno
“semestre bianco” e quindi impossibilitato a sciogliere le nuove Camere
ed indire un altro round elettorale.
Siamo tutti alquanto nauseati della “politica di palazzo”, e
quindi spinti a guardare con sufficienza, o addirittura disattenzione, a
questo delicato passaggio. In fondo, ci si dice anche tra compagni,
stiamo assistendo alla fine di un'epoca, in cui queste istituzioni
svuotate tirano, come ampiamente previsto, le cuoia.
Eppure,
proprio nella morte risiede in genere l'interesse di un qualcosa che è
vissuto a lungo nella banalità, nella corruzione, nella negazione della
propria stessa dignità. Proprio ora, dunque, bisognerebbe guardare con
attenzione a cosa accade oltre i pupazzi che si agitano sulla scena,
oltre ai partiti vecchi e nuovi, qualsiasi definizione diano di sé.
Detto in un altro modo: usciamo da questa roba, ma finiamo dove?
Il punto di rottura si è avuto, fin dal 1992, con la fine del ruolo
“ideologico” dei partiti politici, fin lì esistiti come manifestazioni
empiriche di visioni del mondo differenti, ancorché concorrenti – ma
"responsabilmente" – al governo del paese. Investiti da Tangentopoli
(dalla magistratura e da qualche monetina in piazza), l'establishment
politico sopravvissuto si è scomposto e ricomposto dentro contenitori
dai nomi sempre diversi, per assemblaggi e assembramenti sempre più
chiaramente strumentali al mantenimento dello statu quo. La
“sinistra radicale” ha pagato il prezzo più alto a questa “strategia
mimetica” suicida, perché da lei era lecito attendersi l'esatto
contrario. Ossia la rigorosa corrispondenza tra parola e azione. E
invece abbiamo avuto leader che tuonavano contro la precarietà ma
votavano il “pacchetto Treu”, assessori che scendevano in piazza contro
“grandi opere” che poi in sede consiliare approvavano.
Che
“politica” è quella che vende i propri obiettivi in cambio di un patto
elettorale, una carica pubblica, una poltrona nelle controllate? È la
“politica” che è morta in queste elezioni, sotto la spinta della crisi e
di una rabbia senza soluzioni.
Colpa dei partiti, certamente.
Che non hanno mai voluto dare un quadro di regole che potesse inverare
in modo funzionale l'art. 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini
hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con
metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Morte le
ideologie, quindi, è stato un proliferare di partiti personali o di
piccoli “cerchi magici”, accomunati dal trattare gli elettori come
clienti di un supermercato, bombardati dalla pubblicità. “Furbizie”
all'italiana, tipiche di un ceto politico (anche “vecchio comunista”)
per cui fatta la regola generale (in questo caso quella costituzionale)
si pensa subito a come aggirarla (evitando di redigere i “decreti
attuativi”).
Comunque sia, siamo in punto di morte. Lo scontro sotterraneo che i
media tengono in sordina vede contrapposti Napolitano e Bersani. Con il
primo a suggerire l'“inciucio” estremo (un governissimo che includa
tutte le forze che hanno già fatto la prova del governo, ossia Pd, Pdl, e
Monti) e il secondo che recalcitra, consapevole che questo sarebbe la
fine sua e dell'insieme che rappresenta, senza alcun guadagno nemmeno “per il paese”.
Del resto, il Berlusconi accusato di aver ribaltato un governo
comprando per tre milioni il voto decisivo di De Gregorio, e che
probabilmente riceverà entro marzo ben tre condanne penali, una più
infamante dell'altra, non è un “compagno di strada” che possa essere
nuovamente accettato senza una sovrattassa in termini di consenso e
perfino di tenuta dell'organizzazione.
E il movimento di Grillo,
anche soltanto per puro istinto di sopravvivenza, non può concedere
“fiducia” a un esecutivo – chiunque lo diriga – che dovrebbe puramente e
semplicemente eseguire i diktat della Troika proprio nell'anno in cui
diventano operative le misure previste dal Fiscal Compact (50 miliardi
di tagli alla spesa pubblica, intanto).
Ma non si può tornare a
votare prima che sia stato eletto un nuovo Presidente della Repubblica
con pieni poteri, in grado di sciogliere le Camere.
Se tutto
questo avvenisse nella quiete sociale ed economica, probabilmente la
soluzione sarebbe già stata trovata (dimissioni di Napolitano il giorno
dopo la prima riunione del nuovo Parlamento, anticipata ora al 13
marzo). Ma non c'è quiete. Lo spread ha guadagnato 100 punti in una
settimana, prima che una qualche decisione istituzionale chiara prenda
forma sarà almeno raddoppiato, ponendo pesanti e ulteriori vincoli sul
bilancio statale.
L'unico potere esecutivo resta così nelle mani di un esecutivo “tecnico”, mai eletto (e anzi stracciato da un elettorato
furente), in teoria attivo solo per “l'ordinaria amministrazione”. Ma
abbiamo visto un ministro degli esteri interpretare addirittura il ruolo
di coordinatore dell'alleanza che dovrà dare l'assalto finale alla
Siria. Se questa è “ordinaria amministrazione”, può esserlo qualsiasi
cosa.
Come si vede, sono tempi “d'eccezione”, con grandi vuoti
aperti nell'architettura istituzionale. Ma non ci viene di gorgheggiare,
come a qualcuno è capitato di fare, un “viva l'ingovernabilità!”. Per
un motivo semplice, ma piuttosto potente: la natura rifiuta il vuoto. E
un vuoto di potere, quando si crea, viene certamente riempito da chi ha
la forza per farlo.
La forza, non la ragione. E non siamo certamente noi ad averla, oggi.
Fonte
In chiusura avverto un vago richiamo ai decenni dei colonnelli che dalla Grecia al sud America irrompevano nei palazzi di governo...
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