Fiducia o non fiducia? I neo parlamentari ufficialmente sono compatti,
ufficiosamente sono divisi. Tanto che Casaleggio e Grillo minacciano di
ritirarsi se i gruppi sceglieranno di dare la fiducia a un governo
Bersani.
La prova del budino consiste nel mangiarlo. E quella della
politica consiste nel fare i conti con le soluzioni da trovare, dopo
aver trionfato a forza di critiche. In altri tempi si sarebbe detto è la
differenza tra dire e fare. Ora che devono per forza fare, i neo
parlamentari del Movimento Cinque Stelle mettono a nudo le incongruenze
di un “non movimento”, dotato di un “non statuto” e in possesso di una
“non ideologia”. Liberarsi delle strutture logiche, organizzative,
addirittura burocratiche, sembra sempre una ficata pazzesca. Quando poi
arrivi a poter mettere in pratica le cose che hai pensato, il gioco si
rivela teso e tetro. A dispetto della “trasparenza” sbandierata come
valore, si può legittimamente pensare che dentro il gruppo di 165
neodeputati e senatori grillini la confusione sul che fare sia alquanto
consistente. Non si può spiegare altrimenti il doppio e consecutivo
altolà che prima Casaleggio e poi lo stesso Grillo hanno gridato contro
qualunque ipotesi di fiducia a un governo guidato dal Pd. «Qualora ci
fosse un voto di fiducia dei gruppi parlamentari del M5S a chi ha
distrutto l'Italia, serenamente, mi ritirerò dalla politica», ha detto
ieri "il genovese" con un tweet.
La minaccia di
abbandonare la creatura che hanno assemblato dal nulla dovrebbe essere
una sorta di “arma finale” contro scelte che non si condividono. Il
fatto che venga usata subito, preventivamente, al primo vero dilemma
posto davanti ai “parlamentari vergini”, sembra essere un segno di
profonda debolezza, che rivela difficoltà di gestione.
Ufficialmente
parlano solo i due capigruppo in pectore, Vito Crimi e Roberta Lombardi
(la quale oltre alle lodi del “fascismo buono”, è ora sotto accusa per
il giudizio non proprio amichevole per il vecchio art. 18:
“un'aberrazione”), che parlano la lingua originale dei due “proprietari
del logo” a cinque stelle. Quindi: nessun appoggio a nessun governo dei
partiti (resta dunque il dubbio che uno “tecnico” potrebbe invece venir
tollerato), “proporremo a Napolitano un governo nostro” basato sui 20
punti del programma, senza pregiudiziali sui nomi. In
teoria una chiusura netta. Ma parlano davvero a nome dei gruppi
parlamentari o per conto di Grillo e Casaleggio (che invece non si sono
nemmeno candidati)?
Un altro dei
neoeletti, Ivan Catalano, nonostante il rischio scomunica per chi parla
con la stampa senza autorizzazione, ha detto tutt'altre cose. Catalano
ha 26 anni, disegnatore e progettista meccanico, eletto in Lombardia;
non ha escluso un referendum interno al movimento sull'alleanza con
Bersani: «Un governo va fatto se no non va avanti il Paese.
Qualcuno prenderà la decisione di farlo e lo si farà. Ma c'è tempo per
discutere, è inutile fare pressioni, non serve a nulla». Anzi. «Su
questa cosa il movimento è in fermento da giorni. Si può fare tutto, non
ci sono vincoli».
I due boss
extraparlamentari, però, un vincolo d'acciaio lo hanno posto. E con
molta decisione. E' chiaro che ci sono pressioni enormi da parte del Pd e
dei poteri collegati perché i grillini diano un via libera a un
esecutivo purchessia, riservandosi poi di applicare il “modello
Crocetta” (che, però, in Sicilia una maggioranza se l'era guadagnata indipendentemente dal M5S). Hanno scomodato prima alcuni intellettuali, poi
alcune star del “moderatismo progressista” come Saviano, Fazio,
Jovanotti, ecc. Impossibile che quei 165 “cittadini semplici” buttati
nell'arena senza alcuna preparazione specifica reagiscano come i 300 di
Leonida. Le smagliature, tra persone provenienti da ambiti e culture
politiche molto diverse, non potevano non esserci e restare invisibili.
“Governare” questo corpo informe, privo di regole istituzionali chiare, è
possibile solo nel modo indicato dal “non statuto”: decidono i
proprietari del logo. Chi la pensa diversamente se ne può andare,
riprecipitando nel limbo degli sconosciuti al prossimo giro elettorale
(peraltro abbastanza vicino nel tempo, se le cose restano grosso modo in
stallo come ora). Se poi fossero addirittura la maggioranza, allora
l'esperienza del M5S finisce qui, con i due fondatori-proprietari che
tornano alle loro vecchie attività imprenditoriali.
Vedremo
gli sviluppi. Quel che la vicenda mette in evidenza, dal nostro punto
di vista, è decisamente più interessante sul medio e lungo periodo.
Molti militanti della sinistra, infatti, erano rimasti in varia misura
affascinati dal M5S, dalla sua radicalità retorica, dal suo “rifiuto
delle ideologie”, dal suo modo di “parlare alla pancia” della gente, da
una far politica senza strutture, “in rete” e via cantando.
Ma
la realtà ha la testa dura. Per raccogliere voti puoi fare e dire di
tutto, per cambiare il mondo – persino il già semidistrutto sistema
politico italiano – devi avere un progetto, ovvero una lettura
realistica della situazione e soluzioni (per quanto ipotetiche)
all'altezza dei problemi. Bisogna insomma avere un “intellettuale
collettivo” capace di elaborare analisi e soluzioni, una struttura di
movimento articolata e trasparente nei meccanismi decisionali,
“responsabilità” precise e imputabili, ovvero dirigenti e gerarchie (ci
sono voti che “pesano” e altri che “si contano”), ben oltre la retorica
illusoria del “ognuno dice la sua”. Perché, alla fin fine, si tratta di
scegliere tra due vie, non centomila. Serve un'organizzazione, insomma. E
un insieme sistematico di principi condivisi, non “20 punti di
programma” e poi ognuno la pensi come vuole.
Diciamo
questo per amore di “centralismo democratico”? Macché... Anche se il
peggior “centralismo democratico” risulta comunque “più democratico” del
principio del franchising messo all'opera da Grillo e Casaleggio
(“chiunque può aderire e discutere, ma noi controlliamo il logo e
stabiliamo chi se lo merita e chi no”).
È
il mondo attuale a esser troppo complesso per poter essere affrontato – o
addirittura cambiato – con soluzioni semplici, da chiacchiere al bar,
senza competenze né formazione particolari. Lo abbiamo già visto con la
Lega, che pure un forte legame territoriale e sociale lo aveva. Un
movimento di “rifiuto della vecchia politica” può assumere anche
dimensioni maggioritarie, capace di travolgere come uno tsunami –
appunto – la cittadella dei mestieranti senza più progetto e morale. Ma
non è in grado di “costruire” istituzioni alternative. Il rischio di
sfasciarsi alla prima curva è alto. Grillo e Casaleggio lo sanno meglio
dei loro beneficiati di un laticlavio.
La questione, per
noi, è: se il M5S esplode, chi e come proverà a raccogliere la rabbia e
le istanze di ceti sociali fin qui "annegati" nella generica protesta
anti-casta?
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