Il Fatto Quotidiano anticipa la relazione annuale tramessa dal governo al Parlamento (con tre mesi di ritardo). Domina Finmeccanica, protagoniste del business anche le banche, Bnp Paribas in testa. La legge 185/90 vieta la vendita a paesi in conflitto o che violino i diritti umani. Eppure nell'elenco figurano tra gli altri Israele, Cina, Libia, Ciad, Pakistan.
Con tre mesi di ritardo, il governo ha finalmente trasmesso al Parlamento la relazione annuale sull’export di armamenti italiani. Dal documento, di cui il Fatto Quotidiano è riuscito ad avere una copia in anteprima, emerge che l’anno passato il governo Monti ha autorizzato contratti di vendita per 2,7 miliardi
di euro (al netto dei programmi intergovernativi di cooperazione
industriale): una lieve flessione rispetto ai 3 miliardi dell’anno
precedente.
Ai primi posti per valore contrattuale delle commesse, quasi tutte aziende possedute o partecipate da Finmeccanica: svetta su tutte Alenia Aermacchi (con un miliardo di export ‘puro’), seguita da Agusta Westland (490 milioni), Selex Galileo (189), Mbda (172), Oto Melara (142), Fincantieri (68), Avio (66), Rheinmetall Italia (63), Piaggio Aero (60), Whitehead Alenia (59), Simmel Difesa (54), Selex Sistemi Integrati (47).
Gli articoli di maggior successo nel campionario del ‘made in Italy’ bellico, stagione 2012, sono stati come sempre aerei, elicotteri, navi, blindati, artiglieria, bombe, missili, siluri, fucili, munizioni e armi chimiche antisommossa (i candelotti Cs prodotti dalla Simad, venduti in gran quantità alle polizie di Brasile, Bangladesh, Romania e Spagna).
Secondo
la legge 185 del 1990, che regola l’export militare italiano, le
aziende italiane non possono fare affari con paesi in conflitto o in cui
siano accertate gravi violazioni dei diritti umani o la cui spesa
miliare è eccessiva rispetto a quella sociale. Ma la lista delle nazioni
con cui l’industria bellica tricolore continua a firmare contratti non
sembra rispettare tali criteri. Al primo posto c’è Israele (473 milioni di esportazioni autorizzate), seguito dagli Stati Uniti (419), dal regime algerino di Bouteflika
(263), dalla dittatura monopartitica del Turkmenistan (216) e dalla
monarchia autoritaria degli Emiri Arabi (150). L’elenco prosegue con
paesi come l’India (109 milioni), militarmente impegnata sia in Kashmir che contro la guerriglia naxalita; il Ciad (88), nazione poverissima con un esercito che arruola ancora bambini-soldato e destabilizzata da ribellioni armate; la Turchia
(43), in eterno conflitto con gli indipendentismi curdi; l’Arabia
Saudita (39), monarchia autoritaria e irrispettosa dei diritti umani
fondamentali; il Pakistan (24), in guerra aperta con i talebani locali; la Libia
(20), dove continuano i combattimenti tra fazioni; la Thailandia (13),
impegnata nel conflitto contro gli indipendentisti musulmani;
l’Afghanistan (8), dove in guerra ci siamo anche noi.
Tra i destinatari di esportazioni minori figurano altri Stati difficilmente compatibili con la legge 185, quali Libano, Kosovo, Cina,
Russia, Vietnam, Zambia, Behrein, Oman, Colombia, Perù e Filippine.
Nazione, quest’ultima, da decenni in guerra con guerriglieri islamici e
comunisti, ciononostante destinata a scalare rapidamente le classifiche
dell’export bellico italiano grazie a una commessa a Fincantieri da 310
milioni per la fornitura di due navi da guerra.
A fornire intermediazione finanziaria per questi contratti sono ovviamente le banche,
che su tali operazioni lucrano grossi profitti. Nel 2012 l’81%
dell’ammontare complessivo delle esportazioni è stato negoziato da tre
istituti bancari: la succursale italiana di Bnp Paribas, con intermediazioni per quasi un miliardo di euro (il 34 per cento del totale), Deutsche Bank con 740 milioni (27 per cento) e Unicredit
con 540 milioni (20 per cento). Seguono Barclays con 230 milioni (8 per
cento), Bnl con 108 milioni (4 per cento), Carispezia con 68 milioni
(2,5 per cento) e una sfilza di altri istituti piccoli e grandi che si
spartiscono le briciole, comunque milionarie, di questa torta.
“Nonostante
le lamentele, non pare proprio che il comparto militare italiano si
trovi in una situazione problematica, soprattutto rispetto ad altri
settori produttivi”, osserva il responsabile della Rete Disarmo, Francesco Vignarca, che sta per pubblicare sul sito della rivista Altreconomia
una dettagliata analisi della relazione. “Il problema è che le nostre
armi continuano a finire nei luoghi più problematici del globo: siamo
proprio convinti che in questo modo la nostra politica estera, cui
l’export di armi è sottoposta per legge, contribuisca alla pace a
livello internazionale?”.
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