di Michele Paris
Con il paese sull’orlo di una nuova grave crisi, il primo ministro
thailandese, Yingluck Shinawatra, ha parlato in diretta televisiva per
ribadire la disponibilità del suo governo ad una soluzione negoziata che
metta fine alle proteste di piazza che da alcuni giorni stanno
paralizzando il centro di Bangkok. La sorella dell’ex premier in esilio,
Thaksin Shinawatra, ha però respinto decisamente una richiesta chiave
dell’opposizione - le sue dimissioni e l’assegnazione del potere di
scegliere il prossimo capo dell’esecutivo ad un “Consiglio Popolare” non
elettivo - bollandola come incostituzionale.
Il leader dei
manifestanti, l’ex parlamentare del Partito Democratico all’opposizione e
già vice primo ministro, Suthep Thaugsuban, aveva incontrato Yingluck
nella notte di domenica senza trovare un accordo per fare rientrare le
proteste. Suthep si era dimesso da deputato lo scorso 11 novembre per
guidare le manifestazioni contro il governo, esplose dopo il fallito
tentativo da parte di quest’ultimo di modificare la Costituzione
thailandese e, in precedenza, di fare approvare un’amnistia che avrebbe
consentito il ritorno in patria di Thaksin nonostante la condanna a suo
carico per corruzione.
Queste iniziative del governo sono state
sfruttate dall’opposizione per portare in piazza alcune decine di
migliaia di propri sostenitori - in gran parte facenti parte della
borghesia di Bangkok e provenienti dal sud della Thailandia - così da
far cadere il governo, considerato da molti una sorta di fantoccio
manovrato dall’estero dall’ex premier Thaksin.
In ogni caso, dopo
il faccia a faccia con la premier alla presenza dei vertici delle Forze
Armate, Suthep, sul quale grava un mandato di arresto, ha dichiarato
che non ci saranno altri negoziati né compromessi. L’opposizione,
secondo Suthep, non si accontenterà delle dimissioni di Yingluck e del
suo governo entro martedì ma pretende la creazione di uno speciale
“Consiglio” che decida l’immediato futuro politico del paese del sud-est
asiatico.
Questa richiesta da parte dell’opposizione nasconde il
tentativo di dare alle proteste in corso una facciata di legittimità
popolare, mentre la sua attuazione non sarebbe altro che un nuovo colpo
di stato contro il partito vicino all’ex premier Thaksin, preparato
negli ambienti reali, militari e della potente burocrazia statale, i cui
esponenti dovrebbero con ogni probabilità entrare a far parte del
“Consiglio Popolare” deputato alla scelta del prossimo governo.
Lo
stesso Thaksin era stato deposto da un golpe militare nel 2006, mentre
due anni più tardi un altro colpo di mano dell’establishment
tradizionale thailandese - questa volta con una sentenza giudiziaria -
avrebbe messo fuori legge il nuovo partito formato dai sostenitori
dell’ex premier e protagonista di una netta affermazione elettorale,
installando di lì a poco a capo di un nuovo governo il leader del
Partito Democratico, Abhisit Vejjajiva.
Come
già anticipato, lunedì la premier Yingluck ha tenuto un discorso di 12
minuti alla nazione per dire che la richiesta di Suthep creerebbe uno
scenario non contemplato dalla Costituzione. Cionondimeno, il capo del
governo si è detto disponibile ad “aprire ogni porta” per risolvere col
negoziato la crisi in corso.
Nei giorni scorsi, la stessa premier
aveva escluso un possibile intervento delle forze di polizia per
mettere fine alle proteste che avevano portato anche all’occupazione di
alcuni ministeri. L’intensificarsi dello scontro politico si è però
tradotto nel fine settimana in un confronto più duro tra polizia e
manifestanti, i quali lunedì hanno denunciato l’uso eccessivo di
proiettili di gomma e gas lacrimogeni. Gli scontri hanno anche fatto
registrare le prime vittime di questo nuovo round di proteste in
Thailandia, con almeno tre morti e oltre cento feriti.
Ad
aggravare la situazione è stato poi l’intervento dei sostenitori del
governo - le cosiddette “Camicie Rosse” - organizzati nel “Fronte Unito
per la Democrazia contro la Dittatura” (UDD). Questi ultimi sono
anch’essi accampati da qualche giorno a Bangkok e avevano finora evitato
qualsiasi scontro con i contestatori dell’opposizione, ma nel fine
settimana, al termine di una manifestazione pro-Yingluck tenuta in uno
stadio della capitale, le due fazioni sono venute in contatto.
Con
l’aumentare delle tensioni, secondo alcuni giornali, altre migliaia di
affiliati alle “Camice Rosse” starebbero per giungere a Bangkok dalle
aree rurali nel nord del paese, dove il partito attualmente al potere
trova la propria base elettorale, così che la crisi potrebbe precipitare
ulteriormente con esiti tutt’altro che graditi per gli stessi vertici
dell’UDD e del governo.
Nelle
strade, d’altra parte, per la prima volta dalla durissima repressione
delle proteste pro-Thaksin nel 2010 che fece più di 90 morti, sono
apparsi alcuni contingenti di militari, ufficialmente per proteggere gli
uffici governativi presi di mira dai manifestanti. La mobilitazione
delle Forze Armate, come accadde nel 2006, potrebbe facilmente portare
ad un nuovo intervento nell’ambito politico per rimuovere il governo di
Yingluck sull’onda delle proteste di piazza. Per il momento, tuttavia, i
comandanti militari hanno assicurato di non avere intenzione di
schierarsi a fianco di nessuna delle due parti in lotta.
All’origine
degli eventi a cui si sta assistendo in Thailandia ci sono in
definitiva le divisioni non risolte all’interno dell’élite politica ed
economica di questo paese, esplose dopo i tentativi di Thaksin
Shinawatra di mettere in discussione i tradizionali centri di potere e
di coltivare una propria base elettorale tra i ceti più disagiati con un
programma di limitate riforme sociali.
Di fronte all’inaspettata
intraprendenza delle classi solitamente escluse dalle decisioni
politiche prese a Bangkok, alla vigilia del voto del 2011 il partito di
Yingluck e Thaksin Shinawatra - Pheu Thai - aveva siglato un tacito
accordo con i vertici militari e la monarchia thailandese per consentire
la nascita del governo Yingluck e mantenere le aspettative di
cambiamento all’interno del sistema.
In cambio, il nuovo
esecutivo si era impegnato a non interferire nelle questioni militari e
reali, ma i tentativi di riportare in patria Thaksin e cambiare la
Costituzione approvata dai militari stessi nel 2007, assieme ad un
rapido deteriorarsi delle condizioni economiche e ad alcune misure del
governo poco gradite all’opposizione, hanno fatto riesplodere in tutta
la sua gravità il conflitto che attraversa da anni questo paese.
Ma
è l’intera Asia orientale - oltre alla Thailandia - che continua ad
occupare le cronache internazionali di questi giorni, anche per le
crescenti tensioni tra Cina da una parte e Giappone e Stati Uniti
dall’altra dopo che Pechino ha annunciato la creazione di una “zona di
identificazione per la difesa aerea” (ADIZ) nel Mar Cinese Orientale.
In
risposta a questa iniziativa, Washington la settimana scorsa aveva
provocatoriamente fatto sorvolare l’area in questione a due bombardieri
nucleari B-52, mentre sia il Giappone che la Corea del Sud avevano
espresso il proprio malcontento continuando a pattugliare con aerei
militari l’ADIZ cinese senza inviare alcuna notifica alle autorità di
Pechino.
Sebbene la Cina abbia finora evitato di prendere le
misure teoricamente previste dall’implementazione della “zona di
identificazione” - un’area immediatamente al di fuori dello spazio aereo
di un determinato paese e all’interno della quale gli aerei che volano
sono tenuti a comunicare ad esso informazioni in merito a rotta,
destinazione o qualsiasi altro dettaglio richiesto - l’escalation di
provocazioni ha fatto aumentare sensibilmente il rischio di scontri non
voluti. Anche per cercare di allentare le tensioni, perciò, il
vice-presidente americano Joe Biden ha iniziato lunedì una trasferta in
Estremo Oriente che lo porterà dapprima a Tokyo, poi a Pechino e a
Seoul.
Soprattutto, il vice di Obama dovrebbe riaffermare
l’impegno di Washington in quest’area del globo per isolare la Cina dopo
i danni provocati alla credibilità statunitense dalla mancata
apparizione dello stesso presidente nel mese di ottobre, quando decise
di cancellare una trasferta asiatica programmata da tempo per risolvere
la questione dello “shutdown” del governo federale.
Come
già fatto da vari membri del suo gabinetto nei giorni scorsi, Biden
ribadirà il sostegno degli USA al Giappone nell’ambito della disputa
territoriale attorno alle isole Senkaku (Diaoyu in cinese) nel Mar
Cinese Orientale, amministrate da Tokyo e rivendicate da Pechino.
Il vice-presidente americano dovrebbe poi avere parole di condanna
nei confronti dell’ADIZ cinese, in una prova di forza a favore
dell’alleato nipponico che, secondo alcuni osservatori, dovrebbe
inserirsi nei negoziati sul trattato di libero scambio trans-pacifico
(TPP), fortemente voluto da Washington ma visto con sospetto da svariate
sezioni del business giapponese.
L’alta tensione nel Mar Cinese
Orientale è comunque il frutto di quanto gli stessi Stati Uniti hanno
seminato in seguito all’annunciata “svolta” asiatica
dell’amministrazione Obama, ideata per contenere la crescita
dell’influenza cinese nell’area Asia-Pacifico e destinata fin
dall’inizio ad alimentare pericolosi sentimenti militaristi e
nazionalisti tra i propri alleati, a cominciare dal Giappone.
Tokyo,
infatti, ha risposto finora più duramente di Washington e Seoul alla
decisione cinese di istituire una “zona di identificazione”, che il
Giappone ha peraltro fissato da decenni. Il governo del premier di
estrema destra, Shinzo Abe, si sarebbe addirittura lamentato
privatamente per la reazione troppo tenera degli Stati Uniti, i quali,
pur ignorando l’ADIZ di Pechino in relazione alle proprie operazioni
militari, hanno però dato indicazioni alle compagnie aeree commerciali
americane di adeguarsi alle richieste di Pechino.
Il tentativo
degli USA di mantenere la supremazia in Asia Orientale a fronte
dell’avanzata cinese, dunque, ha riaperto vecchie rivalità, scatenando
forze centrifughe che rischiano di sfuggire di mano e a cui il
vice-presidente Biden proverà a rimediare nel corso della delicatissima
trasferta in corso.
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