di Michele Paris
Una lunga indagine apparsa nel fine settimana sul New York Times
ha provato a fare chiarezza sull’attacco islamista al consolato
americano di Bengasi, in Libia, nel settembre del 2012 che causò la
morte dell’ambasciatore, Christopher Stevens, e di altri tre cittadini
statunitensi incaricati del servizio di sicurezza. Oltre a smentire la
ricostruzione dei fatti sostenuta dai repubblicani a Washington, che ne
assegnava la responsabilità ad al-Qaeda, l’articolo ha confermato come
l’attentato sia stato condotto da forze domestiche che solo pochi mesi
prima avevano collaborato con l’amministrazione Obama per rovesciare il
regime di Gheddafi.
Firmata dal reporter David Kirkpatrick, l’indagine del Times si
apre significativamente con la descrizione di un incontro avvenuto
proprio a Bengasi il 9 settembre 2012, due giorni prima dell’attacco al
consolato, tra l’ambasciatore Stevens e i leader di alcune milizie
libiche. In quell’occasione, questi ultimi intendevano avvertire dei
crescenti pericoli per la sicurezza degli americani nel paese
nord-africano e, allo stesso tempo, volevano esprimere la loro
gratitudine “per l’appoggio garantito dal presidente Obama nella rivolta
contro Gheddafi”. Allo stesso tempo, i miliziani non avevano mancato di
manifestare il desiderio di “costruire una partnership con gli
Stati Uniti, in particolar modo attraverso maggiori investimenti” in
Libia, ad esempio per aprire nel paese negozi di “McDonald’s e KFC
[Kentucky Fried Chicken]”.
Secondo il reportage, dunque,
sarebbero stati gruppi fondamentalisti che ruotavano nell’orbita
dell’opposizione armata anti-Gheddafi e che avevano legami con gli
individui incontratisi con Stevens a giustiziare lo stesso diplomatico
americano, a sua volta in prima linea fin dalla primavera del 2011
proprio per stabilire legami tra gli Stati Uniti e le forze “ribelli”
sul campo in Libia.
Dopo mesi di interviste con testimoni
dell’attacco dell’11 settembre 2012, Kirkpatrick sostiene di non avere
trovato alcuna prova che i responsabili siano da individuare in al-Qaeda
o in altri gruppi legati al terrorismo internazionale. L’attacco,
invece, è stato opera di “guerriglieri che avevano beneficiato
direttamente del supporto logistico e delle massicce incursioni aeree
della NATO durante la rivolta contro il colonnello Gheddafi”.
Questa
conclusione è un clamoroso atto d’accusa nei confronti del governo
degli Stati Uniti, il quale per i propri interessi strategici ha
deliberatamente appoggiato sia militarmente che finanziariamente gruppi
fondamentalisti sunniti, indicati come nemici giurati per oltre
un decennio.
Il pezzo del New York Times
si inserisce poi nel dibattito in corso da oltre un anno a Washington
sui fatti di Bengasi e che ha messo di fronte la versione ufficiale
dell’amministrazione Obama e dei democratici al Congresso a quella
sostenuta dal Partito Repubblicano. Secondo la prima, gli eventi che
portarono alla morte di quattro americani erano impossibili da prevedere
perché scaturiti dalle proteste spontanee esplose dopo la diffusione di
un video di propaganda che irrideva il profeta Muhammad.
Per i
repubblicani, al contrario, l’ambasciatore Stevens morì in seguito ad un
piano meticolosamente studiato da al-Qaeda ed eseguito nel giorno
dell’anniversario degli attacchi al World Trade Center.
L’amministrazione Obama, secondo questa interpretazione, avrebbe
nascosto la realtà dei fatti per non danneggiare il presidente in piena
campagna elettorale, durante la quale stava appunto sostenendo che la
minaccia terroristica contro gli interessi americani era diminuita in
seguito all’assassinio di Osama bin Laden.
Se la storia
pubblicata domenica serve perciò a dare credito a quanto sostenuto dalla
Casa Bianca e dal Dipartimento di Stato, entrambe le versioni che hanno
occupato le pagine dei giornali d’oltreoceano nei mesi scorsi sono
volte soprattutto ad occultare il punto centrale della questione. Cioè
che sia l’attacco al consolato di Bengasi che la drammatica situazione
in cui si trova oggi la Libia, di fatto nelle mani di milizie
integraliste armate, sono la diretta conseguenza della decisione presa a
Washington di puntare su formazioni integraliste ultra-reazionarie,
presentandole all’opinione pubblica internazionale come forze
democratiche per favorire l’abbattimento di un regime sgradito.
Nel caso di Bengasi, tra i responsabili dell’attacco il New York Times
ha individuato Amed Abu Khattala, definito come un “eccentrico e
insoddisfatto leader miliziano”, vicino “ ai più influenti comandanti
che dominavano” nella città della Libia orientale e che “collaboravano
con gli americani”. Costoro, inclusi i futuri responsabili della morte
dell’ambasciatore Stevens, con l’appoggio americano erano tutti “in
prima linea nella lotta contro il colonnello Gheddafi”.
Lo stesso
Stevens, inoltre, “così come i suoi superiori a Washington, riteneva
che gli USA potevano trasformare la massa di guerriglieri sostenuti
nella guerra al regime in amici fidati”, con ogni probabilità da
sfruttare in altre imprese a favore della strategia americana nel mondo
arabo, a cominciare da quella in Siria contro Bashar al-Assad.
Proprio
la presenza di una struttura occupata da un numeroso contingente della
CIA a breve distanza dal consolato di Bengasi suggerisce come la
rappresentanza diplomatica degli Stati Uniti in questa città fosse
subordinata alle operazioni di intelligence. Svariati resoconti
giornalistici nei mesi scorsi hanno infatti descritto l’arrivo in Siria
di armi e guerriglieri integralisti libici, verosimilmente reclutati
almeno in parte proprio dagli uomini dell’agenzia di Langley di stanza a
Bengasi.
I fatti dell’11 settembre 2012, dunque, possono essere
considerati un classico esempio di quello che nel gergo
dell’intelligence a stelle e strisce viene definito come “blowback”. Nel
caso specifico, cioè, le forze fondamentaliste islamiche mobilitate
dagli Stati Uniti per combattere un nemico comune - come avvenne in
Afghanistan negli anni Ottanta contro l’occupazione sovietica - si sono
ritorte contro i propri protettori e finanziatori, passando dall’altra
parte della barricata quando i rispettivi interessi hanno iniziato a
divergere o, per quanto riguarda forse Bengasi, semplicemente a causa di
una disputa relativamente minore.
Lo stesso copione libico è
sembrato doversi ripetere a lungo anche in Siria, dove una serie di
proteste spontanee contro il regime di Assad è stato ben presto
sfruttato dagli Stati Uniti e dai loro alleati per orchestrare una vera e
propria guerra condotta in grandissima parte da formazioni integraliste
e legate al terrorismo qaedista. Solo quando la minaccia dello
strapotere di queste ultime è apparso in tutta la sua evidenza, alcune
sezioni all’interno del governo e dell’apparato militare e
dell’intelligence americano hanno iniziato a esprimere dubbi sulla
strategia tenuta per oltre due anni.
Le forze scatenate,
tuttavia, come già in Libia hanno devastato forse irrimediabilmente
anche la variegata e relativamente prospera società siriana, facendo
riesplodere tensioni e violenze settarie, con il rischio di
destabilizzare ulteriormente l’intero Medio Oriente.
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