Paese reale e paese “raccontato” stanno in universi differenti, dove vigono regole quasi opposte. Mentre gli spettatori della Rai vengono tenuti nell'ignoranza più disperante, sottoposti al lavaggio del cervello e quindi delle coscienze con massicce dosi di fiction (“Gli anni spezzati”, è quella che impazza in queste settimane), persino nei Tribunali della Repubblica si sente tutt'altra musica. Non dappertutto, certo, basti pensare alla Procura di Torino e alla sua “creativa” interpretazione del codice penale indirizzato unicamente alla repressione della resistenza No Tav; oppure agli altri tribunali che comminano pene abnormi per banali “confronti” di piazza (dai presìdi alle manifestazioni, fioccano denunce come se ci fosse una rivoluzione in corso...).
Ma per la seconda volta nella storia un tribunale riconosce che in in Italia si è torturato come scelta politica da parte dello Stato. La sentenza è tanto più importante in quanto il torturato era un brigatista, negli anni '70. Non solo, era stato anche condannato per “calunnia” per aver osato denunciare i sui torturatori. Quindi si tratta di un vero e proprio rovesciamento di giudizio che ristabilisce la “verità giudiziaria”. La quale, sia detto per inciso, magari non coinciderà spesso con la “verità storica” – frutto del conflitto sociale e politico, non certo “oggettività” incontrovertibile – ma sicuramente incrocia la realtà dei fatti in modo meno “soggettivo” e arbitrario di quanto non faccia una fiction fondata sugli interessi del committente.
E quindi: il tribunale di Perugia riconosce che Nicola Ciocia, ex funzionario Ucigos, aveva ricevuto da Umberto Improta (allora capo della Digos) e De Francisci (capo dell'Ucigos) l'incarico di torturare i detenuti politici (non tutti, certo, specie nel 1978) in base a una decisione del governo di allora (il famoso “governo di solidarietà nazionale”, guidato da Giulio Andreotti con i voti del Pci guidato da Enrico Berlinguer; insomma, uno dei “mostri” politici che hanno iniziato a demolire la “Costituzione materiale” del paese). Una conclusione “gravata da forti indizi di reità”.
Insomma: non solo Ciocia ha torturato e quindi Triaca non ha mentito, ma Ciocia ha anche commesso un reato. Vero è che quel reato è ormai prescritto, e persino di difficile qualificazione giuridica (il codice pensale italiano, unico in Europa, non contempla il reato di tortura, e quindi si dovrebbe ricorrere – di volta in volta – a reati similari, come le “lesioni personali gravi”, con l'aggravante di essere commessi da “personale della polizia giudiziaria in funzioni di servizio!, ecc (più è complessa l'architettura accusatoria, più facile diventa lo svicolamento difensivo dei torturatori, come accaduto anche per Bolzaneto e la Diaz).
Ma anche questa eventuale, praticamente certa, “prescrizione” deve essere dichiarata dall’autorità giudiziaria. Ovvero, Ciocia deve (dovrebbe) essere processato e solo alla fine “prescritto”. Lo stesso imputato torturatore, insomma, avrebbe così la possibilità di difendersi (facendo i nomi di complici e superiori, magari anche dei magistrati allora impegnati nelle indagini sulle Brigate Rosse a Roma, chessò: Domenico Sica e Ferdinando Imposimato) o rinunciare alla prescrizione.
Gli atti verranno perciò inviati alla procura di Roma. Vedremo se “il porto delle nebbie” inghiottirà anche questo piccolo vascello accusatorio nei confronti di uno Stato torturatore.
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