Per impostare correttamente una
discussione sulla crisi dell’eurozona sarebbe utile preliminarmente
sgombrare il campo dagli errori e dalle falsificazioni provenienti sia
dal fronte dei pasdaran pro-euro che da quello degli ultras anti-euro.
Riporto qui pochi esempi, tra i tanti possibili.
I difensori dell’eurozona a oltranza
talvolta affermano che una deflagrazione della moneta unica
determinerebbe una catastrofe economica talmente violenta da condurre
l’intera Europa sull’orlo di un conflitto bellico. La loro tesi è che
l’Unione economica e monetaria rappresenti una condizione necessaria per
garantire la pace tra i popoli europei. Chiunque si azzardi a evocare
la possibilità di un’uscita dall’euro viene quindi immediatamente
considerato un avventuriero irresponsabile, potenzialmente un
guerrafondaio. In verità i supporters pro-euro non forniscono chiare
evidenze a sostegno dei loro anatemi. La tesi secondo cui le unioni
economiche e monetarie – e più in generale il liberoscambismo –
garantirebbero la pace tra le nazioni, non trova adeguati riscontri
storici. Basti ricordare che nel 1914, alla vigilia del primo conflitto
mondiale, sussisteva piena libertà di circolazione internazionale dei
capitali e vigeva il gold standard, un rigido sistema di cambi fissi
molto simile all’euro. Inoltre, come segnalato dal “monito degli economisti” pubblicato sul Financial Times
lo scorso 23 settembre, l’attuale crisi dell’eurozona presenta analogie
con la fase storica successiva alla ratifica del Trattato di Versailles
del 1919, che costrinse la Germania ad adottare tremende politiche di
deflazione nel vano tentativo di pagare i debiti e le riparazioni di
guerra. Il tracollo che ne seguì creò i presupposti per l’ascesa del
nazismo e per il secondo conflitto mondiale. Stando dunque all’evidenza
storica non sembra esservi relazione tra permanenza nell’euro e
mantenimento della pace. Anzi, una disamina non frettolosa degli eventi
passati suggerisce che gli strenui apologeti della zona euro “in nome
della pace” farebbero bene a considerare la possibilità che un terreno
favorevole alla reazione soverchiante del nazionalismo più retrivo e
xenofobo, e al limite del bellicismo tra nazioni, lo stiano preparando
proprio loro.
Allo stato attuale le infondate opinioni
dei pasdaran dell’euro risultano preponderanti nel dibattito politico.
Tuttavia anche i sostenitori dell’uscita dall’euro commettono spesso
errori e omissioni. Alcuni di essi, per esempio, glissano su un altro
aspetto cruciale sottolineato dal “monito degli economisti”: esistono
modalità alternative di gestione di una eventuale uscita dall’euro,
ognuna delle quali avrebbe ricadute molto diverse sui diversi gruppi
sociali coinvolti. Una prova di ciò sta nel fatto che in questa fase sta
guadagnando consensi quella che personalmente ho definito una modalità
“gattopardesca” di gestione della crisi, in base alla quale si sarebbe
disposti a cambiare tutto, persino la moneta unica, pur di non cambiare
in fondo nulla, ossia pur di non mettere in discussione le politiche
liberiste, liberoscambiste e di austerity di questi anni, nonostante le
sperequazioni e i tracolli occupazionali che hanno provocato.
Il fatto che l’oltranzismo pro-euro sia diffuso soprattutto tra gli eredi del movimento operaio novecentesco implica automaticamente che una uscita “gattopardesca” dalla moneta unica sia oggi l’eventualità più probabile. Si tratta di un cortocircuito funesto, ed è difficile dire se ci sia ancora tempo e modo per cercare di spezzarlo.
Emiliano Brancaccio
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