21/05/2014
Libia: «Khalifa Haftar prova a diventare il nuovo raìs»
Scontri tra milizie, attacchi al Congresso, omicidi eccellenti. La Libia è un campo di battaglia, in cui emerge il ruolo del settantunenne generale Khalifa Haftar: che già a febbraio aveva annunciato in internet di voler agire contro il governo di transizione. Ne abbiamo parlato con lo storico e giornalista Angelo Del Boca, profondo conoscitore dell’area e del paese.
A tre anni dall’uccisione di Muhammar Gheddafi, le sue parole tornano come una profezia: senza di me, il caos aveva detto.
Sì, Gheddafi poteva avere tanti difetti, ma conosceva bene il suo paese, diviso in molteplici fazioni difficili da governare e per cui è quasi impossibile ottenere un equilibrio. Era anche un uomo con molte qualità, che ho conosciuto personalmente. Nel ’96 ho parlato con lui per due ore e un quarto. Alla fine, uscendo dalla tenda, mi ha detto in inglese che mi ringraziava per i miei libri: «scrivendo del suo paese, lei ha scritto del mio», ha detto. Di certo non meritava di finire in quel modo, umiliato e linciato il 20 ottobre del 2011. Come si ricorderà, la Nato e 17 paesi avevano mosso guerra alla Libia per quasi un anno, provocando 36 miliardi di danni. Gheddafi si era arroccato a Sirte, la nuova capitale, insieme alla famiglia e ai suoi, ma ha dovuto abbandonarla per mancanza di cibo e armi. E allora ha commesso un errore fatale, usando il Gps satellitare: che è stato intercettato dalla base di Sigonella e sono partiti i droni. E poi i Mirage francesi. Gheddafi allora era sopravvissuto, ma venne trovato e ucciso barbaramente. E sono in molti a pensare che a volerlo fosse stato in particolare l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy, che aveva ricevuto molto denaro libico per la sua campagna elettorale e non voleva imbarazzi. E adesso c’è il caos. Presidenti del consiglio che scappano in Europa e poi tornano, i Fratelli musulmani, gli attentati…
E ora il generale Haftar, legato alla Cia, che si propone come carta vincente.
Di fronte al caos assoluto, Khalifa Haftar è un personaggio capace di produrre qualcosa di nuovo e potremmo trovarci di fronte a una svolta. Per ironia della storia, può assumere il ruolo di successore di Gheddafi. Ha combattuto al suo fianco fino all’avventura (sbagliata) intrapresa dal Colonnello con la guerra al Ciad, tra il 1978 e l’87. Haftar fu prigioniero dell’esercito ciadiano e in carcere cambiò idea. Venne liberato dagli Stati Uniti, si allenò da loro insieme a un centinaio di uomini per anni, foraggiato e costruito come personaggio anti-Gheddafi. E poi a un certo punto Gheddafi cambia idea, accetta di consegnare quella che pomposamente era definita la bomba atomica (una pagliacciata). Ricordo le cinque tonnellate di armi in partenza per gli Stati Uniti. Non era più il «cane pazzo» come lo aveva definito Ronald Reagan, ma un alleato fedele dell’Occidente, baluardo contro il fondamentalismo islamico. Il ruolo di Haftar venne così ridimensionato. Il generale rimase vent’anni negli Usa. Ma quando Gheddafi è ridiventato il cattivo, per Sarkozy e gli altri, è tornato in auge. Nel 2011, è rientrato a Bengasi e ha comandato le forze di terra del Consiglio nazionale di transizione. E ora sta ottenendo appoggi importanti da parte delle milizie di Zintan, che hanno combattuto Gheddafi ma non sono islamiste, e si oppongono a quelle di Misurata, alleate ai jihadisti. E si vede anche l’aviazione, controllata dai governativi. Nel vuoto di potere esistente, Haftar è il successore di Gheddafi contro l’avanzata islamista.
E qual è il ruolo dei sostenitori di Gheddafi?
Circa 600.000 si sono spostati in Tunisia, quasi un milione in Egitto. La popolazione libica è di 5–6 milioni, si tratta dunque di cifre considerevoli. Sono scappati con le armi e ora tornano. Haftar è appoggiato anche dall’Egitto, spaventato dall’idea di avere un paese ancora più instabile e nelle mani dell’aborrita Fratellanza musulmana. Haftar ha organizzato il suo ritorno, ha costruito alleanze, nel futuro ci potrebbero essere sorprese.
E c’è lo scenario statunitense. L’attacco al consolato di Bengasi in cui è rimasto ucciso l’ambasciatore Chris Stevens è un tallone di Achille per le ambizioni della segretaria di Stato Usa Hillary Clinton.
Senz’altro. La crescente somalizzazione della Libia ha anche portato alla caduta della produzione petrolifera. Da 1.800.000 barili si è scesi drasticamente a 200.000, il che colpisce direttamente l’Italia. E di recente le milizie hanno tentato anche di vendere il petrolio per conto loro. Una svolta nel paese potrebbe avere grossi effetti nell’area, e anche sull’Algeria, un paese in mano ai soldati.
Intervista a cura di Geraldina Colotti per Il Manifesto
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