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02/05/2014

Secolarizzazione e imbarbarimento di massa: dalla canonizzazione dei "papi santi" alla celebrazione del 1 maggio


Naturalmente ai più l’accostamento tra la grande kermesse mediatica della canonizzazione dei “Papi Santi” e la celebrazione del Primo Maggio potrà apparire irrituale, campata in aria se non, addirittura, blasfema.

Eppure il nesso c’è, ed è quello della “copertura” attraverso la mistificazione di una società malamente secolarizzata, portata all’imbarbarimento nel complesso dei suoi rapporti sociali con un’evidente manipolazione degli orientamenti e dello stesso modo di vivere delle grandi masse: il Potere (quello con la P maiuscola, religioso e politico, di Trono o di Altare che si tratti, punta come sempre alla propria autoperpetuazione).

Secolarizzazione dovrebbe significare uscita dalla costrizione dei dogmi sui comportamenti morali; secolarizzazione avrebbe dovuto significare la laicizzazione dell’etica, mantenendo principi nell’elaborazione dei progetti di società per il futuro.

Secolarizzazione, invece, ha significato – nella cosiddetta modernità – la sostituzione degli antichi dogmi con un nuovo messaggio, subdolamente veicolato per via mediatica, rappresentato dall’esaltazione dell’individualismo, della proclamazione di una necessità della diseguaglianza, dall’evidenza della sopraffazione tra i singoli e tra le diverse componenti (religioso, etniche, politiche, di varia “diversità’) in una visione pericolosamente “neo-corporativa”.

Il dramma della quotidianità non viene più affrontato attraverso l’idea che promuove l’azione nel senso del cambiamento delle relazioni umane, della società, della politica, degli equilibri economici: quando la chiesa cattolica proclama i “papi santi”, esprime volutamente e scientemente semplicemente un mito ammantato di apparenti buone parole utili appunto a mantenere la cappa della mistificazione su fedeli che accorrono all’evento bardati alla stessa stregua delle tifoserie dei concerti o del calcio.

Così in questo primo Maggio ci si dirige per la stessa strada, facendo finta di proclamare l’insieme dei drammi che compongono oggi quello che fu il mondo del lavoro: drammi che compongono per intero quel quadro d’imbarbarimento che contrassegna l’essere e l’agire dell’oggi.

Il tutto viene affidato, alla fine, e dato in pasto al pubblico attraverso una categoria che non è altro che una cosiddetta “virtù teologale”: la categoria della speranza.

Si pronunciano parole, come nel caso dell’ingannevolità evidente del nuovo papato, per dare “speranza”: senza tentare mai di intaccare la realtà degli equilibri e dei rapporti sociali.

Si cerca di collocarsi oltre “l’homo omini lupus”, per assistere allo sbranamento da parte dei potenti verso gli inermi, edulcorandone i termini chiedendo la carità.

Eccola la cifra comune tra la canonizzazione dei “papi santi” e la celebrazione del primo maggio: la richiesta della carità verso i potenti, una carità da elargire benignamente dopo aver distrutto qualsiasi prospettiva e possibilità di rivoluzionamento delle relazioni di classe: relazioni di classe che non debbono mai essere considerate, semplicisticamente, relazioni economiche, del dare per avere, ma sono relazioni culturali, di modo d’essere, di comportamenti nel mondo.

Coloro che avrebbero dovuto combattere questa cattiva secolarizzazione che ha aperto spazi così importanti a una nuova “millenarizzazione della speranza” si sono mossi invece, nel solco, del ricreare nell’insieme delle coscienze l’idea della lotta del singolo e della sopravvivenza personale: così sono passati di nuovo i messaggi della “solidarietà” dello status quo e accanto alla speranza il ritorno dell’altra virtù teologale della carità.

Siamo ridotti davvero a questo? Abbiamo gettato via il portato di oltre un secolo di elaborazione e di lotta? Davvero alla CGIL di Piombino non è rimasto altro che scrivere al distributore della speranza per chiedere la carità?

Domande senza risposta: certo che assistere al vagare delle masse alla ricerca di parole di conforto invece che dell’espressione, almeno, di una dignità sociale se non di un’identità rivoluzionaria ci pone tutti in una situazione di grande disagio e di profonda tristezza.

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