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03/11/2014

Iraq - Fosse comuni e autobombe, l’avanzata dell’Isis sembra inarrestabile

di Sonia Grieco

O sei con il califfato o sei morto. È la regola professata dallo Stato islamico dell’Iraq e della Siria (Isis) che negli ultimi giorni ha compiuto l’ennesimo bagno di sangue in Iraq, mentre continua ad avanzare in Siria.

Il bersaglio dei jihadisti sono stati centinaia di sunniti della tribù Albu Nimr della provincia occidentale dell’Anbar, ormai quasi totalmente sotto il controllo delle milizie di Abu Bakr al Baghdadi, passati per le armi per essersi opposti all’avanzata degli uomini dell’autoproclamato califfato dello Stato islamico (Is). E i jihadisti non hanno mancato l’appuntamento neanche con la ricorrenza religiosa dell’Ashura (termina domani), particolarmente sentita nell’islam sciita, uccidendo in diversi attentati decine di pellegrini diretti nella città santa di Karbala, ogni anno meta di milioni di fedeli assieme a Najaf. L’anno scorso, secondo le stime, furono venti milioni e anche allora ci furono diversi attacchi con 41 morti. Il timore è che nelle prossime ore gli attentati dell’Isis si intensifichino e puntino direttamente alle due città sacre sciite.

Il bilancio delle violenze è da guerra civile: oltre duecento tra uomini, donne e bambini del clan Abu Bakr giustiziati negli ultimi dieci giorni e due (forse tre) attentati nel fine settimane con autobombe che nell’area di Bagdad e sulla strada per Karbala hanno fatto almeno 36 morti e oltre 50 feriti tra i pellegrini. Per l’Isis i primi sono traditori che si oppongono al dominio del califfato, i secondi sono eretici che non possono trovare posto nel regno di al Baghdadi, le cui milizie spadroneggiano in Iraq e in Siria nonostante i raid della coalizione internazionale capeggiata da Washington.

Nelle ultime settimane le truppe del governo iracheno sono state respinte dai combattenti jihadisti che imperversano in quasi tutta la provincia a maggioranza sunnita, confinante con Siria, Giordania e Arabia Saudita da dove arrivano armi e combattenti. È dall’Anbar che è iniziata l’offensiva dell’Isis all’inizio dell’anno, dopo mesi di occupazione dei jihadisti che in questa zona hanno potuto costruire la loro base anche grazie al malcontento diffuso tra la popolazione, a maggioranza sunnita, bistrattata ed emarginata dal governo sciita dell’ex premier Nouri al Maliki.

Dopo l’invasione statunitense iniziata nel 2003 e terminata nel 2011, gli sciiti (messi ai margini da Saddam Hussein) hanno iniziato a dominare la vita politica del Paese e hanno optato per una politica settaria - portata avanti con leggi antiterrorismo, pena capitale, repressione - che ha esacerbato le antiche rivalità tra i due islam e ha creato il terreno fertile per il proliferare dell’estremismo islamista. La risposta di Bagdad alla presenza delle formazioni jihadiste nell’Anbar è stata debole e il governo ha chiesto l’intervento degli Stati Uniti che, a sua volta, ha messo su una coalizione e bombarda l’Iraq e la Siria, ma ha sempre escluso l’impiego di truppe di terra.

Le Forze armate irachene, aiutate anche dalle milizie tribali, faticano a liberare i territori occupati dall’Isis che ha una formidabile capacità bellica e di reclutamento, e attinge a fondi enormi. Gli uomini del califfato stanno imponendo la loro versione fanatica della sharia alla popolazione, seminando il terrore e spingendo alla fuga migliaia di persone.

In Siria la città di Kobane, al confine con la Turchia, difesa dai guerriglieri kurdi, è diventata il simbolo della resistenza all’aggressione islamista. Da oltre sei settimane i kurdi stanno respingendo gli attacchi dell’Isis, mentre la coalizione internazionale sgancia bombe sulle loro basi. La città, però, resta nella morsa dei jihadisti che vogliono il controllo di una via di comunicazione strategica con la Turchia, altro Paese da dove arrivano armi e uomini, e vogliono pure smantellare un sistema amministrativo, quello appunto dei Kurdi del Rojava, di cui Kobane è un cantone, totalmente opposto alla loro ideologia e visione del mondo. Un sistema in cui le donne amministrano e combattono a fianco agli uomini e in cui si è aperto un dialogo con le altre etnie e le comunità religiose presenti sul territorio. Un sistema, insomma, che prova a essere democratico e partecipativo e che proprio per questo è agli antipodi del totalitarismo impregnato di religione dello Stato islamico.

Oggi l’Isis ha annunciato la presa dei giacimenti di gas della provincia di Homs, dopo una settimana di scontri con le truppe fedeli al governo di Damasco. Inoltre, i qaedisti del Fronte al Nusra, riconciliatisi con le milizie di al Baghdadi, hanno occupato diversi villaggi nella provincia di Idlib, roccaforte dell’opposizione siriana spalleggiata dall’Occidente, sempre più messa all’angolo nel conflitto siriano scoppiato tre anni fa per rovesciare il presidente Bashar al Assad. Un duro colpo ai piani americani di sostegno all’opposizione cosiddetta laica che dovrebbe combattere qaedisti, Stato islamico ed esercito siriano.

L’avanza jihadista pare dunque inarrestabile. Gli uomini del cosiddetto califfato controllano un terzo del territorio siriano, dilagano in Iraq e minacciano di colpire anche fuori da questi due Paesi. Ed è sempre più chiaro che i raid della coalizione non riescono a fermarli.

Fonte

Prima o poi gli occidentali saranno obbligati ad ammettere che la guerra all'ISIL non andrà da nessuna parte senza un coordinamento politicamente e militarmente integrato tra Stati Uniti (che devono più che altro rimettere il guinzaglio a tutti i cani sciolti dell'area - Arabia Saudita, Qatar, Turchia) Iran, Governo Assad e Curdi.
E' certamente un'opera immane e attualmente fuori dalla portata di un'amministrazione americana in piena "fine dell'impero", guidata da personaggi senza un briciolo di preparazione, autorevolezza e carisma, ma che diventa essenziale ogni giorno di più pena il trasformare Siria e Iraq in una macro Somalia con effetti destabilizzanti potenzialmente incalcolabili.

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