Francesca La Bella
Un nuovo attore si è
affacciato nella contesa libica e media, governi ed opinione pubblica si
sono improvvisamente ricordati della Libia e della guerra civile che la
insanguina ormai da quattro anni. La decapitazione di 21 copti da parte
dello Stato Islamico (IS) ha, così, riportato il Paese agli onori della
cronaca ed al centro del dibattito politico internazionale. Molto
interessante, in questo quadro, è leggere le dichiarazioni del governo e
delle forze politiche italiane. C’è chi si è immediatamente proposto
per un’azione, anche armata, per impedire l’avanzata dell’IS, chi ha
preferito una posizione attendista rispetto alle decisioni delle Nazioni
Unite, senza nascondere l’intenzione di essere protagonista di un
eventuale intervento nel Paese; chi ha interpretato gli eventi per
supportare le proprie posizioni in tema migratorio. Si è paventato lo
spettro di migrazioni di massa e dell’infiltrazione di “terroristi”
attraverso questi canali.
Ora, tutto questo potrebbe sembrare frutto della paura e
dell’incapacità di gestire un fenomeno, come quello dello Stato
Islamico, di cui poco si conosce e che risulta, anche per la propria
capacità di propaganda mediatica, particolarmente temibile. In realtà,
le motivazioni alla base di quest’alzata di scudi di tutta la compagine
politica italiana è più legata a fattori storico-economici che a istinti
primari di difesa nel “qui ed ora”. La Libia per l’Italia è
sempre stato un Paese chiave. Il controllo coloniale prima e
l’interdipendenza economica in seguito hanno portato il nostro Paese ad
un attivismo molto maggiore a livello internazionale laddove le
questioni riguardavano il territorio libico. Un legame talmente forte da
non venire spezzato nemmeno con la scomparsa di Gheddafi.
L’intervento del 2011 che portò all’eliminazione del colonnello,
inizialmente percepito come un terremoto per la stabilità degli
interessi economici italiani, aprì, infatti, una fase nuova per le
imprese italiane, ma non per questo meno fruttuosa. Dopo un primo
momento di stallo il livello di interscambio tra Italia e Libia è
cresciuto, anche se con alcune fluttuazioni dovute alle diverse
contingenze interne, fino agli avvenimenti degli ultimi giorni. Se,
da un lato, il business della ricostruzione ha permesso a circa il 70%
delle aziende italiane presenti in Libia prima della caduta di Gheddafi
di rientarvici nella fase successiva, per quanto riguarda il settore
petrolifero, Eni ha stretto alleanze che gli hanno permesso di mettere
in sicurezza i propri impianti e di garantire l’approvvigionamento
energetico del nostro Paese.
Da una parte, dunque, l’investimento nel settore infrastrutturale
attraverso programmi come il Progetto Italia-Libia (Apil), inteso a
favorire l’ingresso nel Paese africano di piccole e medie imprese
italiane, ha stabilizzato la presenza di imprenditori italiani nel
Paese, dall’altra l’Italia è rimasta il primo partner libico sia per
l’import sia per l’export grazie alla commercializzazione di petrolio e
gas naturale attraverso il gasdotto Greenstream tra Mellitah e Gela. A
tal proposito è fondamentale sottolineare come la sicurezza dell’export
di petrolio sia stata garantita proprio da alleanze trasversali come
quella per la protezione del terminal di Mellitah tra Eni e Fajr Lybia
(milizia islamica vicina al Governo di Tripoli guidato da al-Hassi e
principale contendente del Governo internazionalmente riconosciuto di
Tobruk guidato da al-Thani). Alla luce di questo non stupisce
che, mentre l’emergenza sicurezza risulta essere ai massimi livelli e
anche Eni impone il rientro di parte del personale espatriato,
l’amministratore delegato della compagnia italiana, Claudio Descalzi,
dichiari che nell’ultimo trimestre la produzione petrolifera sia
aumentata attestandosi sui 275.000 barili al giorno rispetto ai 240.000
dell’anno passato.
L’inserirsi in questo contesto di un attore imprevedibile
come lo Stato Islamico ha, però, portato con sè un elemento di
incertezza che induce il Governo italiano alla cautela nelle scelte. Una
mancata presa di posizione italiana potrebbe essere percepita come
segno di debolezza lasciando spazio al protagonismo di altri stati
europei (in primis la Francia). Investire troppo poco nell’impresa
libica potrebbe, inoltre, togliere al Governo e alle imprese italiane la
possibilità di creare rapporti con chi, supportato dall’intervento
internazionale, prenderà il potere nel Paese con la conseguente
estromissione dal “grande affare” della ricostruzione.
Partecipare attivamente ad un intervento bellico di ampia scala, d’altra
parte, potrebbe costituire un costo eccessivo per un’Italia in crisi
economica e, qualora non si giungesse ad una pacificazione duratura,
potrebbe portare problematiche simili a quelle conseguenti al’intervento
del 2011. A questo si aggiunga la variabile Stato Islamico e la sua
capacità di radicamento in situazioni di crisi che porrebbe l’Italia
nella scomoda posizione di avversario dell’IS, facendola diventare
possibile obiettivo di attentati.
Alla luce di tutto questo appare, però chiaro che il focus delle decisioni rimane puntato sull’Italia. La
scelta di intervento dipenderebbe dalle sue conseguenze sulla sicurezza
e sull’economia italiana e non dalle eventuali ricadute sul destino
della Libia e della sua popolazione in quanto tale. Anche se la
decisione presa sarà diversa da quella del 2011, la linea guida risulta
essere la stessa: preservare interessi e sicurezza italiana
appoggiandosi ai soggetti che si ritiene offrano maggiori garanzie. Difficilmente
un’azione spinta da queste motivazioni potrà cambiare il destino del
Paese in quanto non crea le premesse per la nascita di un tessuto
sociale che porti alla rinascita di una nuova Libia sotto nuovi auspici.
Probabilmente un intervento (o un mancato intervento) in questo senso
muterà i soggetti che gestiranno il potere interno e che medieranno gli
accordi commerciali internazionali, senza modificare le condizioni di
vita della popolazione civile libica, la cui protezione non è uno dei
punti dell’agenda politica internazionale.
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