Dopo oltre quattrocento giorni di galera Peter Greste, il giornalista australiano corrispondente di Al Jazeera al Cairo è tornato libero. Il collega Mohamed Fahmy, tuttora in carcere con la comune accusa d’aver tramato contro la sicurezza del Paese, tenta l’escamotage di scrollarsi di dosso la nazionalità egiziana, conservando solo quella canadese, per uscire di prigione. Chi resta incastrato nell’essere egiziano e “traditore” è Mohammad Baher sebbene la sua “colpa” sia quella d’aver fatto il giornalista. Comunque gli avvocati nutrono speranze anche per lui. Perché corti e processi al Cairo risultano ondivaghi, orientati come sono dai risvolti politici, e stabiliscono cose terribili per poi bloccarle. E’ già accaduto a centinaia di condannati a morte, militanti della Fratellanza Musulmana, accusati di attacchi alle forze dell’ordine e dell’uccisione di poliziotti. L’ultima sentenza, giunta ieri, dispone che 183 arrestati fra il luglio e l’agosto 2013 nell’area della moschea di Rabaa (quella della strage compiuta dall’esercito) dovranno finire impiccati. Finora nessuna pena capitale è stata applicata; la situazione interna però si deteriora settimana dopo settimana e nella lotta al terrorismo proclamata dal presidente Al Sisi, non si possono escludere strette ulteriori. Nel Paese una certa pena di morte oggettivamente esiste, quella che polizia e militari applicano in strada contro i cittadini che manifestano, considerati potenziali terroristi. Ben sapendo che il disegno dei gruppi armati egiziani, che ha una storia antica e anche più recente, non ha nulla a che vedere con la rivolta anti Mubarak del 2011.
L’Egitto non è la Siria, ma nei sogni d’un certo jihadismo interno ed esterno si tenderebbe a trasformarlo, perlomeno in alcune zone. Prima fra tutte il Sinai, dove si concentra la maggiore presenza di quel gruppo (Ansar Beit al-Maqdis) recentemente apertosi a una partnership con l’Isis. Nell’avanzata verso Occidente che il Daesh prospetta nei suoi piani, la grande nazione nord africana potrebbe rappresentare un piatto appetibile e al tempo stesso indigesto che mescola sembianze occidentali e un cuore arabo. Conta una popolazione giovane e numerosa, densa di contraddizioni irrisolte, fra cui una povertà radicata in ampi strati sociali e il desiderio di riscatto da un colonialismo patrigno e tuttora presente. E’ culla d’un antico impegno dell’Islam politico tessuto dalla Brotherhood, che non escludeva la lotta armata. Ha di recente conosciuto, proprio nei passi istituzionali della leadership della Fratellanza, un limite oggettivo del disegno moderato, respinto e ostracizzato dall’Egitto secolare. La polarizzazione estrema che vede l’Islam politico endogeno, escluso, umiliato e criminalizzato offre a soluzioni che si sperimentano altrove, un possibile serbatoio da sfruttare per iniziative diverse, delle quali finora il combattentismo di Ansar costituiva un percorso minimo e sabotatore. Basato su obiettivi militari da colpire (caserme o soldati), danneggiamenti anti governo centrale (attentati ai gasdotti) qualsiasi fosse la sua componente guida: lo Scaf, Mursi o Sisi.
Per quello che sta mostrando il Califfato è un’utopia “da sogno” che potrebbe trovare proseliti anche sul Nilo. Non solo nelle arretrate aree dell’Alto Egitto, ma proprio nelle periferie di Cairo, Alessandria, Port Said dove i ragazzi ribelli vengono fucilati in strada. Certo lo stendardo nero non offrirebbe solo armi e organizzazione a chi volesse abbracciare il kalashnikov del jihad. Lo ingloberebbe in comportamenti e mentalità che a un pezzo dei musulmani d’Egitto potrebbero star stretti. Il confronto-scontro nel mondo islamico non si riaccende solo su questioni teologiche fra sunnismo e sciismo, da tempo attraversa il sunnismo con varie interpretazioni che hanno ampi riscontri geopolitici. In questi anni in Paesi come l’Egitto anziché cercare incontro e dialogo con la componente islamica, i partiti laici ha fomentato la frizione, sino al tracollo d’un confronto che appariva aspro ma si svolgeva sul filo del voto democratico. Al di là dei lugubri assalti densi del loro simbolismo assassino come quello parigino a Charlie Hebdo, è nelle società in disfacimento (Siria, Iraq, Libia) o in quelle che non trovano transizioni realistiche (Egitto) che il fondamentalismo cerca di seminare. In Egitto trova un apparato repressivo che incarna una buona parte della nazione, fattore che può far desistere i jihadisti oppure condurli alle estreme conseguenze, le attuali siriane o quelle conosciute nell’Algeria del ventennio scorso.
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