di Michele Paris
Nel corso di una recente intervista televisiva al network americano MSNBC,
uno degli ex alti ufficiali più autorevoli e influenti degli Stati
Uniti ha apertamente invocato misure di controllo e repressione del
dissenso tipiche del regime nazista. Il generale in pensione Wesley
Clark, già due volte brevemente candidato alla nomination democratica
per la Casa Bianca, ha infatti prospettato la detenzione in campi di
internamento per coloro che ha definito come “americani sleali”.
L’inquietante
proposta è stata illustrata nel corso di un intervento seguito alla
recente sparatoria in un centro di reclutamento delle forze armate USA a
Chattanooga, nel Tennessee, per mano di un giovane di origine
kuwaitiana che avrebbe manifestato simpatie fondamentaliste.
Per
trovare una soluzione alla presunta minaccia terroristica che
incomberebbe sugli Stati Uniti, Clark ha fatto riferimento al periodo
della Seconda Guerra Mondiale. Durante il conflitto, cioè, “se qualcuno
appoggiava la Germania nazista a spese degli Stati Uniti”, ha spiegato
l’ex generale, “veniva rinchiuso in un campo come prigioniero di
guerra”, visto che questa opinione non era considerata come una
manifestazione della libertà di espressione.
Allo stesso modo,
nella situazione odierna, per queste persone con tendenze
fondamentaliste, “diventare radicalizzate, non appoggiare gli Stati
Uniti ed essere sleali verso gli Stati Uniti, in linea di principio è un
loro diritto”, secondo Clark. Tuttavia, “è nostro diritto e obbligo di
isolarli dalla comunità per la durata del conflitto” in corso contro il
terrorismo internazionale.
Ancora più sbalorditiva è stata la
tesi successiva dell’ex comandante NATO in Europa, per il quale il
rischio rappresentato dai musulmani “radicalizzati” autorizzerebbe
misure preventive. Il governo dovrebbe così “identificare le persone che
hanno maggiori probabilità di seguire un percorso di radicalizzazione”,
in modo da “interromperlo precocemente”. Il consiglio di Clark non è
indirizzato infine soltanto alle autorità americane, ma anche ai “paesi
alleati come Regno Unito, Germania e Francia”, i quali dovrebbero
“rivedere le loro procedure legali”, ovvero procedere con lo
smantellamento delle più fondamentali garanzie democratiche.
In
sostanza, il consiglio avanzato da Clark implica che il governo dovrebbe
prendere di mira individui non solo che non hanno commesso alcun
crimine ma che non hanno nemmeno manifestato l’intenzione di commettere
qualche atto vagamente illegale. Un’iniziativa di questo genere –
evidentemente adeguata a uno stato di polizia – dovrebbe comportare
un’ulteriore espansione della sorveglianza di massa ai danni della
popolazione americana, così da identificare potenziali “terroristi”
sulla base delle loro idee o, ancora peggio, delle loro ipotetiche
tendenze o inclinazioni.
La
gravità delle parole di Wesley Clark è difficile da sopravvalutare.
Com’è evidente, il concetto di “slealtà” verso gli Stati Uniti evocato
dall’ex generale, nonostante sia stato collegato da egli stesso alla
minaccia del terrorismo islamista, è sufficientemente indefinito da
includere virtualmente ogni genere di opposizione alle politiche
repressive, imperialiste e al servizio dei grandi interessi economici
del governo americano.
Al di fuori di ogni vincolo legale, Clark
auspica inoltre la detenzione in campi di internamento per l’intera
durata della “guerra” senza fine che gli USA starebbero combattendo
contro il terrorismo, risultando di fatto in una prigionia indefinita.
La
sua citazione del clima di paranoia durante la Seconda Guerra Mondiale è
poi ulteriormente allarmante per i musulmani, visto che fa riferimento
alle decine di migliaia di americani di origine tedesca e, soprattutto,
giapponese, internati praticamente soltanto a causa del loro paese di
provenienza, in quello che viene ormai comunemente riconosciuto come un
crimine commesso dal governo USA.
Il cenno alle simpatie naziste
che avrebbero giustificato in passato la detenzione di civili innocenti
in suolo americano è inoltre tristemente ironico, poiché la proposta
avanzata settimana scorsa da Clark è perfettamente in linea con i
provvedimenti adottati proprio da Adolf Hitler a partire dal 1933 contro
i suoi oppositori con la scusa di combattere un’inesistente minaccia
“terroristica” che gravava sul Reich.
Sconcertante quasi come le
parole dell’ex generale Clark è stato il quasi completo silenzio della
stampa ufficiale negli Stati Uniti. I suoi commenti sui campi di
internamento non sono stati riportati dalle principali pubblicazioni,
nemmeno quelle teoricamente “liberal” come New York Times e Washington
Post.
I pochi media, soprattutto alternativi, che ne hanno dato
notizia hanno spesso ricordato come questa proposta non sia giunta da
una delle varie figure di agitatori della galassia dell’estrema destra
americana, bensì da un ex alto ufficiale che, secondo la testata on-line
The Intercept, “si è fatto un nome all’interno dei circoli politici
progressisti”.
Affiliato al Partito Democratico, per il quale,
come già ricordato, ha corso in due occasioni senza successo per la Casa
Bianca, Clark è un sostenitore della candidatura alla presidenza di
Hillary Clinton. Nel passato più o meno recente, inoltre, l’ex generale
era stato molto critico sugli abusi dell’amministrazione Bush
all’indomani dell’11 settembre.
La maschera “progressista” di
Clark è però caduta definitivamente, assieme a quella della classe
dirigente americana, dal momento che il pensiero dell’ex generale è con
ogni probabilità condiviso da molti nelle stanze del potere a
Washington.
Già sul finire degli anni Ottanta, nell’ambito dello
scandalo Iran-Contras gli americani erano venuti a conoscenza della
cosiddetta “Operazione Rex 84” che prevedeva, in una situazione di
crisi, la sospensione della Costituzione, l’entrata in vigore della
legge marziale, l’assegnazione dei compiti di governo ai militari e il
trasferimento forzato in campi di detenzione di coloro che erano
considerati una minaccia alla sicurezza nazionale.
Più
recentemente, la questione dei campi di internamento è tornata a
circolare negli Stati Uniti. Lo scorso anno, ad esempio, il giudice
ultra-reazionario della Corte Suprema, Antonin Scalia, nel corso di un
discorso pubblico aveva citato una sentenza del 1944 che autorizzava le
detenzioni di massa in campi di internamento sul territorio americano,
avvertendo i suoi ascoltatori che si sarebbero “auto-ingannati se
avessero pensato che la stessa cosa non potrebbe succedere ancora”.
Senza
evocare teorie cospirazioniste, è dunque tutt’altro che improbabile che
all’interno dell’apparato politico-militare americano da qualche tempo
si sia tornati a discutere di misure estreme come la detenzione di massa
di individui “radicalizzati” o semplicemente di oppositori del governo.
Una
misura di questo genere è d’altra parte in linea con molte altre
adottate nell’ultimo decennio per rafforzare i poteri di controllo
dell’apparato della sicurezza nazionale, dal Patriot Act ai
provvedimenti pseudo-legali che autorizzano il monitoraggio di massa
delle comunicazioni elettroniche.
Vista la reale entità della
minaccia del terrorismo islamista, di gran lunga inferiore ad esempio a
quella rappresentata dalle forze di polizia USA, responsabili in media
di più di mille uccisioni di civili ogni anno, le ragioni della
creazione delle fondamenta di uno stato di polizia sono da ricercare
altrove.
La classe dirigente americana è attraversata cioè dal
timore quotidiano per una possibile esplosione sociale, alimentata da
politiche destabilizzanti e distruttive sul fronte internazionale e, su
quello domestico, da disuguaglianze economiche gigantesche e sempre meno
compatibili con sistemi di governo anche solo apparentemente
democratici.
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