Non era, probabilmente, un periodo facile per Mauro. I quotidiani – e in particolare «Il Mattino» di Padova, nell’articolo già citato e altri, hanno parlato della denuncia di alcuni comportamenti «strani» da parte di Mauro negli ultimi giorni: l’invio di un mazzo di fiori a una ragazza del luogo, che sarebbe «corsa dai carabinieri a raccontare tutto e in quel momento si è attivato tutto l’apparato previsto per legge quando si annusano casi di possibile stalking commessi da persone potenzialmente border line. Probabilmente, in quel momento, le autorità hanno deciso di agire» (un comportamento strano? Stalking?); l’avvistamento da parte di una famiglia dietro una siepe del loro cortile (??); di uno schiaffo immotivato a un compagno della palestra; e, nella mattinata della sua morte, di una visita alla caserma dei carabinieri, dove avrebbe consegnato «un papello delirante in cui parlava di Dio e del diavolo, di Ezechiele e del destino del mondo». Insomma, le stesse cose che ogni papa ogni domenica propone dalla finestra di piazza San Pietro: nessuno, però, che gli faccia presente quanto sia delirante e lo voglia per questo sottoporre a un tso.
Il racconto degli eventi successivi si fa più confuso. «Il Mattino» lo ha descritto in questo modo:
Quando la pattuglia del nucleo Radiomobile si è presentata davanti a casa, il trentatreenne è uscito in cortile nudo. Indossava solo le mutande. Sudava e parlava a sproposito. Sosteneva di voler parlare con un certo “Vito”, militare in forze alla stazione di Carmignano che evidentemente lui conosceva bene. Ma i protocolli previsti in questi casi sono rigidi e chi deve essere preso in consegna dall’autorità sanitaria non può scegliersi questo o quel carabiniere. Così gli animi si sono scaldati in un attimo. Mauro entrava e usciva di casa. I militari gli parlavano e lui non li ascoltava. Si innervosiva sempre di più e non dava retta a nessuno, nemmeno ai genitori. Medici e infermieri dell’ambulanza, partiti dal pronto soccorso dell’ospedale di Schiavonia per un “codice verde”, sono stati avvisati strada facendo che la situazione si stava complicando. E dalla prospettiva di un semplice ricovero in Psichiatria, si sono trovati a dover praticare la tracheotomia a un giovane dissanguato.A seguire, il tentativo dei carabinieri di arrestarlo, la fuga nei campi, la rincorsa, il placcaggio e l’ammanettamento eseguiti da un brigadiere. Secondo i testimoni, «Mauro era stato bloccato, già gli era stata infilata una delle manette ma il carabiniere lo avrebbe aggredito e lui ha reagito. Non so cosa gli abbia detto ma è vero che Mauro lo ha colpito, due-tre pugni, non so. Così si è divincolato, si è girato ed è andato via quasi camminando… camminava… ma gli ha sparato alle spalle. E gli altri carabinieri, che erano a cento metri, quando sono arrivati, hanno continuato a prenderlo a calci quando già era a terra!». Diversa ovviamente la versione dei carabinieri: Guerra si sarebbe opposto all’arresto cercando di picchiare il carabiniere che lo aveva ammanettato e il maresciallo avrebbe sparato per difendere il collega. La storia – e casi non molto diversi, come quello di Federico Aldrovandi – ci hanno già insegnato quale sia la credibilità della seconda versione...
Una periodo non facile per Mauro Guerra, dicevamo. Ma le domande che questo caso dovrebbero far emergere non riguardano le presunte colpe di Mauro Guerra: l’obbligo è, in casi come questo, quello di sfuggire al tentativo dei media – che hanno cercato addirittura di suggerire l’idea che fossero stati i familiari a chiamare la polizia (episodio poi smentito senza mezzi termini dalla sorella) – di sbattere il mostro in prima pagina e di criminalizzare la vittima, come evidenziato da Acad-Associazione contro gli abusi in divisa (leggi). Ci si dovrebbe chiedere, piuttosto, perché un «possibile stalking» (un mazzo di fiori?) e la consegna di un «papello delirante» dovrebbe richiedere l’arresto e/o un tso (che dovrebbe essere richiesto dopo una visita medica e non prima, almeno secondo la legge) e perché di esso si occupino i carabinieri – non certo noti per la loro sensibilità d’animo – prima dell’arrivo del personale sanitario, che dovrebbe avere le competenze (o, comunque, competenze superiori a quelle di un maresciallo e di un brigadiere) per trattare il caso. Ci si dovrebbe chiedere perché il modulo di richiesta del tso per Guerra non era firmato né dalle autorità comunali (l’unico che può ordinarlo, dopo due perizie mediche, è il sindaco) né da un medico, come invece stabilisce la procedura (leggi e leggi). Ci si dovrebbe chiedere come un quotidiano possa parlare di un «semplice» (!!) ricovero in Psichiatria. Ci si dovrebbe chiedere se il trattamento sanitario obbligatorio per cause psichiatriche, dopo decenni di critica alla psichiatria, sia una pratica davvero compatibile con un sistema che si dice democratico o se non debba invece essere considerato come un sopruso. Ci si dovrebbe chiedere se la pena per un rifiuto possa essere la morte, ci si dovrebbe chiedere quale sia la formazione delle forze dell’ordine che vengono incaricate di gestire tali pratiche e quale sia l’impunità da cui si sentono coperte. Ci si dovrebbe chiedere se sparare contro una persona possa essere considerato un «omicidio colposo»: non ci interessa, ovviamente, la pena a cui probabilmente non verrà condannato il maresciallo che ha sparato, ma il fatto che il capo di imputazione la dice lunga sul contesto culturale e politico in cui questo omicidio è maturato. Lo stesso contesto culturale che, del resto, il 23 luglio, ha portato un pm a chiedere la cifra simbolica di 3 anni e 4 mesi per il carabiniere che lo scorso settembre, al Rione Traino (Napoli), ha ucciso il sedicenne Davide Bifolco (leggi), «colpevole» di andare senza casco e in tre su un motorino e di vivere in un «quartiere difficile». Ci si dovrebbe chiedere quante persone ancora debbano essere uccise dalla forze dell’ordine o debbano morire in circostanze che eufemisticamente possiamo definire «poco chiare» mentre sono sotto la loro custodia – l’elenco e le storie sul sito di Acad Italia sono indicativi – prima che ciò possa scuotere l’opinione pubblica.
Come dice la sorella di Mauro Guerra, «neanche un cane si ammazza così». Ma le domande che poniamo sopra – e che a noi sembrano scontate – non sembrano emergere nell’opinione pubblica. Che forse non è neanche venuta a conoscenza del caso. Pensiamo a repubblica.it, la fonte di informazione probabilmente più consultata d'Italia. Forse è un’incapacità nostra, ma non vi riusciamo a trovare neanche un trafiletto su Mauro Guerra. Neanche uno. Contemporaneamente, lo stesso sito di informazione online pubblicava nella homepage un articolo di denuncia sulla «zoopornografia» e le violenze sessuali sugli animali (leggi) che è stato condiviso da migliaia di persone. In esso, prendono parola un’attivista per i diritti del cane e un criminologo. Immediatamente dopo dal punto di vista grafico, nella homepage di repubblica.it compariva un altro articolo, Milano, per vendetta sevizia a morte la cagnolina della compagna. E siamo ancora alla colonna dell’estrema sinistra, e non in quella ridicola di destra. Nella colonna centrale, invece, trovava sabato il suo posto un articolo sul fatto che, accogliendo le richieste dalla regione Trentino, il ministero dell’Ambiente stia legiferando sulla figura dell’«orso dannoso», che sarebbe lecito uccidere in caso di aggressioni contro gli esseri umani. L’incipit dell’articolo riguarda – ovviamente – il caso dell’orsa Daniza (rimasta uccisa l’anno scorso da una dose di anestetico sparatale perché, dopo l’aggressione a un cercatore di funghi, si voleva ricondurla in cattività): repubblica.it ci informa della salute dei suoi orsetti e parla di un caso che aveva tenuto «col fiato sospeso». E ciò è vero. Ricordate le polemiche, i presidi, i blocchi stradali (a Roma fu bloccata persino la Colombo), gli appelli, le petizioni, le proteste, per garantire prima la libertà a Daniza e ai suoi orsetti e poi per chiedere giustizia per la sua morte?
Ecco, a ben vedere Mauro Guerra non è stato ucciso in circostante molto diverse: le autorità – dietro pretesti probabilmente infondati (o meno solidi rispetto all’aggressione a un cercatore di funghi…) – volevano procedere al suo arresto (la «riduzione in cattività» di Daniza), si è opposto e gli hanno sparato. Non una dote di anestetico, però, ma quattro colpi di pistola. Ma la sua vicenda non trova spazio nelle pagine di tutti i media nazionali, non si scomodano criminologi (avete mai sentito un criminologo o uno psichiatra parlare del perché tanto spesso poliziotti e carabinieri uccidano poveri, emarginati, marginali, proletari e sottoproletari, militanti politici, persone che vivono nelle periferiche ghettizzate o che attraversano fasi di labile lucidità psichica?), non vengono riportate le testimonianze di quanti hanno assistito alla sua morte ma solo la versione dei carabinieri (ricordate invece il racconto toccante dei testimoni sulla morte dell’orsa Daniza?) e non si fanno interviste agli attivisti: di conseguenza, il suo omicidio viene per lo più ignorato dall’opinione pubblica. Un’opinione pubblica che, comunque, leggerebbe la notizia magari con commozione, ma sicuramente non si mobiliterebbe nella richiesta di verità e giustizia.
Mauro Guerra è stato ucciso come non si fa neanche con un cane, dice giustamente sua sorella. Viene da chiedersi, quindi, cosa sarebbe accaduto se fosse stato un cane (o un orso), se il suo caso avrebbe ottenuto la giusta attenzione mediatica. Ma Mauro Guerra non era un cane, quindi repubblica.it non si sente in dovere di parlare della sua vicenda: dopo aver abituato le persone alle notizie sugli animali e alla commozione sulle vicende che li riguardano – e si tratta di una precisa scelta politica, non di un caso – ormai parlare di morti di polizia porta a pochi likes.
Sia chiaro – per prevenire le sterili polemiche che sappiamo essere tanto comuni quando si toccano tali temi – che non stiamo suggerendo che non bisognerebbe occuparsi della violenza sugli animali e dello sfruttamento della natura. Non stiamo affermando che i problemi siano ben altri: non è, la nostra, una forma di benaltrismo per il quale ci dovremmo preoccupare sempre di altro, come la fame nel mondo e i bambini che muoiono di malaria in Africa. Non ci stiamo, soprattutto, rivolgendo con tono di rimprovero ai compagni che coniugano le lotte sociali e anticapitaliste con una militanza animalista (e, infatti, pensiamo che lo sfruttamento dell’uomo sulla natura e sugli animali sia una delle facce del capitalismo). Non pensiamo che una lotta escluda l’altra. Il discorso che stiamo facendo riguarda il rapporto tra media e opinione pubblica, la relazione tra la società dello spettacolo e i temi che indignano e spingono alla mobilitazione. Non è un discorso che riguarda noi, i militanti politici, ma un discorso che riguarda il resto del mondo e il modo in cui la sua indignazione venga manipolata e indirizzata su tematiche poco conflittuali, interclassiste, generaliste che non possono mettere a repentaglio – soprattutto per il modo in cui sono poste – le fondamenta del sistema. È un discorso sull’importanza dei media nell’indirizzare i sentimenti delle persone. Non è una classifica sull’importanza della questione, ma un discorso sulla narrazione che intorno a essa viene costruita.
La domanda è come mai faccia più scalpore e crei più indignazione l’uccisione di un animale rispetto agli analoghi omicidi di persone, come mai si sia più pronti a mobilitarsi in nome della violazione dei diritti degli animali che per opporsi al quotidiano stillicidio di diritti sociali degli esseri umani e al sempre più diffuso sfruttamento che caratterizzano la nostra società. Una domanda importante – persino le neuroscienze si sono interessate a questa questione, tornata alla ribalta con la questione Daniza (leggi) –, intorno a cui cercare di costruire un’analisi politica.
Queste riflessioni ci sono state stimolate, tra l’altro, da un analogo dibattito che si sta sviluppando nei paesi anglosassoni: a questo proposito suggeriamo la lettura di due contributi, uno pubblicato dal quotidiano britannico «Indipendent» (Why can we unite behind Cecil the lion but not Sandra Bland?, «Perché possiamo essere uniti in nome del leone Cecil ma non quello di Sandra Bland?») e l’altro dal sito di controinformazione countercurrentnews.com (Why Is America Outraged For Cecil The Lion, But Not For Sandra Bland?, «Perché l’America si indigna per il leone Cecil e non per Sandra Bland?»).
Apriamo una parentesi sulle due figure che compaiono in questi articoli. Cecil – probabilmente più noto al pubblico italiano – era un leone, famosissimo e amatissimo in Zimbabwe, che è stato ucciso e decapitato da un ricco dentista del Minnesota durante un safari illegale: il dentista-bracconiere avrebbe pagato 50mila dollari per poter cacciare il leone, attirato con un’esca fuori dal parco naturale dove viveva e ucciso a colpi di frecce. Questa vicenda – giustamente esecrabile – ha scatenato un’ondata di vivaci proteste negli Usa, caratterizzata non solo dalla pubblicazione sui social networks di foto dell’animale, ma anche dalla richiesta di punizioni esemplari per il facoltoso dentista bracconiere, dall’invito a boicottarne e a distruggerne lo studio, da manifestazioni e presidi (leggi). Significativo il fatto che, anche in Italia, si è dato molto spazio a questa vicenda, con tanto di paure, come nel caso di Daniza, per la sorte dei suoi cuccioli (leggi), di allarmi sulla sorte di Jericho, il leone fratello di Cecil (leggi), e di denunce di una italo-americana «killer di giraffe» (leggi). Anche repubblica.it ha dedicato numerosi contributi alla vicenda di Cecil (ad esempio, questo): lo stesso quotidiano di informazione che, invece, non ha trovato spazio per parlare del caso Guerra.
Il caso di Sandra Bland è, invece, se si escludono i militanti politici, probabilmente meno noto al pubblico italiano, anche se se ne è parlato molto (con opinioni diverse e divise) negli Usa. 28enne, afroamericana, Sandra Bland era un’attivista contro le violenze a cui sono sottoposti negli Usa gli afroamericani. Il 10 luglio, mentre sta guidando in Texas (uno degli stati più razzisti degli Usa), viene fermata per non aver messo la freccia. A quel punto inizia la tragedia, ripresa da più video: il poliziotto la tratta in modo arrogante, le chiede di spegnere la sigaretta che sta fumando, lei rifiuta; le viene allora intimato di scendere dall’auto, lei risponde che questa richiesta non ha alcuna base legittima e, in un crescendo, viene quindi minacciata con il taser; Sandra Bland scende e, senza alcun motivo, viene ammanettata e sbattuta a terra, mentre il poliziotto si inginocchia sulla sua schiena; è quindi arrestata e condotta in carcere, dove tre giorni dopo viene trovata morta (leggi, leggi e leggi).
Si dice che si sarebbe soffocata con un laccio di un sacchetto di plastica. La famiglia non crede al suicidio: era un periodo molto positivo per lei e non si capisce per quale motivo avrebbe dovuto togliersi la vita. Ad ogni modo, Sandra Bland era stata arrestata in modo del tutto irregolare e illegittimo, trattata con arroganza, picchiata e detenuta in modo illegale: la sua morte non può che essere ricondotta – suicidio o meno – all’arbitrio della polizia razzista statunitense.
Il primo articolo afferma che tutti gli interrogativi sulla morte di Sandra Bland (tanto i dubbi che circondano il suo supposto suicidio quanto le accuse alla polizia per il suo arresto illegittimo) siano stati oscurati, in particolare sui social networks, dalla vicenda del leone Cecil, sulla quale anche le persone che non avevano avuto nulla da dire su Sandra Bland si sono espresse con dure parole di condanna e mobilitazioni. Nel caso di Sandra Bland,
le opinioni erano divise. Diversamente dal caso di Cecil, a Sandra Bland non è stato offerto il sostegno unanime del popolo americano. Jimmy Kimmel, Cara Delevigne, Debra Messing, Ricky Gervais e una sfilza di altre celebrità al pari potenti non hanno abbracciato la sua causa così facilmente e con la stessa emotività di quello che hanno fatto per Cecil. È più facile unirsi nel nome di un leone che in quello di un essere umano – specialmente, come è evidente, di un essere umano di colore in America. I leoni non hanno secoli di storia razzista da portare sulle loro spalle regali. I leoni non hanno pensieri e opinioni, i leoni non questionano con gli agenti di polizia e non reclamano di conoscere i propri diritti.Nel secondo articolo, M. David, che afferma di lottare da oltre venti anni per la terra e per gli animali pur avendo presente che in primo luogo si debba essere «la voce degli esseri umani che non hanno voce», si pone una domanda molto semplice: «Perché così tanti esseri umani sono più indignati per la morte di un animale di quanto siano per quella di membri innocenti della loro stessa specie?». Mentre per Cecil l’indignazione è unanime, per Sandra Bland si afferma sempre più spesso – come nel caso della criminalizzazione del comportamento di Mauro Guerra, aggiungiamo noi – che «se lei avesse» agito in modo diverso non sarebbe morta (come Davide Bifolco, «se non fosse andato in tre sul motorino»; come Cucchi, «se non fosse stato un tossicopidente»; come Carlo Giuliani, «se quel giorno fosse andato al mare», ecc. ecc.): anche coloro che criticano l’operato del poliziotto che ha arrestato illegalmente Sandra Bland, si sentono di dover aggiungere che comunque lei si era comportata in modo arrogante. Del resto, aggiunge David, la vita del leone conta agli occhi degli statunitensi perché le classi dominanti hanno deciso di mettere a valore il fatto che sia in via di estinzione, mentre la vita di un afroamericano non vale nulla negli Usa.
I casi di uccisioni di afroamericani, negli Usa, durante controlli della patente sono, del resto, piuttosto frequenti: l’ultimo, probabilmente quello del 22 luglio, quando in Ohio è stato ucciso un uomo fermato al volante senza aver fatto assolutamente nulla di vietato (leggi). Questo non perché gli afroamericani guidino in maniera più spericolata rispetto ai cosiddetti wasp (white anglo-saxon protestant), ma perché – in base alla percezione di pericolosità che la mentalità razzista statunitense attribuisce alle loro persone – vengono fermati molto più frequentemente e trattati in modo arbitrario e poco rispettoso, quando non propriamente violento. Una pratica che, come dimostra la morte di Sandra Bland, riguarda tanto gli uomini quanto le donne afroamericane (leggi).
Il razzismo e la brutalità delle forze dell’ordine contro gli afroamericani sono diffuse ad ogni livello: è per questo che negli ultimi mesi è cresciuto il movimento nato nel 2012 #blacklivesmatter, del quale anche Sandra Bland era un’attivista, perché per i neri negli Usa la tutela della propria vita è sempre più spesso un fatto non scontato (leggi). Sia sufficiente pensare che ogni 28 ore, negli Usa, un nero (uomo, donna, bambino) viene ucciso dalle forze dell’ordine. La versione online del quotidiano britannico «The Guardian» sta pubblicando una macabra «conta» delle persone uccise dall’inizio dell’anno dalla polizia negli Usa, direttamente o morte mentre si trovavano sotto custodia: possiamo così notare come, in sette mesi, i morti siano al momento 674. Circa 3 al giorno. Una violenza poliziesca e una repressione che, davvero, non hanno pari nei paesi occidentali. Andando più a fondo nei dati, notiamo come di essi 331 siano bianchi, 176 neri e 100 latinos: potrebbe sembrare, quindi, che non ci sia una discriminazione razziale dietro questi omicidi. Ma se si considerano questi dati in base alla popolazione di ogni gruppo etnico, si può notare come l’incidenza di omicidi di bianchi sia di 1,67 per milione, quella di neri di 4,21 per milione, quella degli ispanici di 1,85 per milione. In altre parole, l’incidenza di morti di polizia per i neri è il triplo di quella per i bianchi. 68 di questi omicidi sono avvenuti in Texas, lo stato in cui è morta anche Sandra Bland: esso si classifica secondo, dopo la California (110 morti).
Il movimento Black Lives Matter si sta configurando come una nuova versione del movimento per i diritti civili, non solo denunciando e sensibilizzando sulla violenza di stato a cui i neri sono sottoposti, ma anche facendo delle precise richieste, sociali e legislative, e affermando con forza che il razzismo non è solo un retaggio del passato che tenderà a scomparire col tempo, ma un elemento costitutivo dell’attuale struttura economica e politica statunitense che facilita il controllo degli oppressi e della working class.
A proposito di razzismo strutturale e di indignazione a comando, non è forse inutile ricordare la strage di nove afroamericani, avvenuta lo scorso giugno mentre pregavano in una chiesa metodista a Charleston, nel South Carolina: sono stati uccisi dal ventunenne Dylann Storm Roof, un suprematista bianco sostenitore del segregazionismo – in pratica un estremista, un fondamentalista, un terrorista – ma, nonostante l’indignazione di facciata, la loro vicenda è immediatamente sparita dai media e nessuno di quelli che solo pochi mesi fa avevano propagandato il loro «Je suis Charlie» hanno diffuso sul profilo facebook immagini con scritto «I’m Emanuel African Methodist Episcopal Church». Un’indignazione selettiva e comando, appunto, gestita dai media. Che, in questo caso, almeno in Italia, non si sono dilungati nel racconto strappalacrime della vita e della morte delle nove vittime della strage (sappiamo molto di più della vita del suo autore), non si sono preoccupati del destino dei loro figli/cuccioli, non hanno tenuto la notizia per giorni e giorni in prima pagina: l’indignazione e l’emotività intorno a questo evento, quindi, sono presto sparite.
Dopo mesi di rivolte nelle periferie e nei ghetti statunitensi, dopo le proteste seguite all’omicidio del diciottenne Micheal Brown a Ferguson, dopo la crescita e la diffusione del movimento Black Lives Matter, il clamore – comunque limitato e non unanime – sul caso di Sandra Bland, probabilmente, avrà fatto emergere qualche preoccupazione sul mantenimento dello status quo statunitense, fondato sul razzismo. Certo, esso non può essere superato con qualche manifestazione di protesta o con la richiesta di diritti civili, ma perché rischiare? Meglio far acquietare gli animi, addormentare le coscienze e distrarre gli spiriti più critici con una nuova – e meno conflittuale, oltre che interclassista e generalista – fonte di indignazione e «rabbia»: la morte del leone Cecil è stata provvidenziale, il clamore mediatico intorno a essa, invece, non può essere considerato casuale in un paese, gli Usa, in cui il controllo della grande borghesia – la stessa che finanzia guerre e campagne elettorali – sui media è pressoché totale. L’occhio dell’opinione pubblica, infatti, si posa dove i media vogliono e non è un caso se nell’articolo dell’«Indipendent» si affermi che il «caso Bland» sia sparito dai media a favore del «caso Cecil», che suscita emozioni molto più unanimi. Si tratta, tra l’altro, di una vera e propria strumentalizzazione della violenza sugli animali, al pari del clamore che in certi periodi viene costruito intorno ad alcuni strupri per criminalizzazione gli immigrati: ai proprietari di repubblica.it e di tutti i suoi consimili, a quanti fanno le scelte editoriali, delle uccisioni di orsi e leoni interessa zero.
Questo meccanismo non è nuovo ma, anzi, ha più di un secolo. La sua genesi storica è puntualmente spiegata da Domenico Losurdo nel suo recente La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra:
Sennonché – osserva Gustave Le Bon alla fine dell’Ottocento – occorreva prendere atto della realtà: «le folle sono femminili», irrazionali. E dunque per influenzarle e controllarle si doveva far leva sui «sentimenti», su ciò che «suggestiona» […]. A partire da questo momento, al centro della lotta per il potere era sì la lotta per il controllo delle idee, ma soprattutto delle emozioni […]. Qualche anno prima che Le Bon pubblicasse la sua Psicologia delle folle, Otto von Bismarck, tentato dall’espansionismo coloniale, [...] si era così rivolto ai suoi collaboratori: «Non sarebbe possibile reperire dettagli raccapriccianti su episodi di crudeltà?». Sull’onda dell’indignazione morale da essi suscitata sarebbe stato più agevole bandire la crociata contro la barbarie africana e asiatica […]. Se Le Bon spostava l’accento dalla produzione delle idee a quella delle emozioni, Bismarck indicava nell’indignazione l’emozione di decisiva importanza: la produzione artificiale dell’indignazione e il suo governo erano ormai divenuti uno strumento di politica internazionale. [pp. 72-73]Non solo di politica internazionale, tuttavia, ma anche di politica interna, soprattutto per quello che riguarda la cosiddetta colonia interna. E cosa suscita più emozione e indignazione, dopo l’omicidio di bambini (che infatti sono solitamente utilizzati proprio come strumento per promuovere guerre internazionali), dell’uccisione di un animale (e forse dei suoi cuccioli) che viene visto come inerme e a cui, quindi, non si può rivolgere l’obiezione «se avesse agito diversamente non sarebbe morto»? Se è vero, per parafrasare Malcom X, che se non stiamo attenti i media ci faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono, è altrettanto vero che dobbiamo prestare attenzione anche affinché non ci facciano amare quello che è più utile in quel momento per chi quei media controlla e utilizza.
L’indignazione che si crea intorno al leone Cecil, all’orsa Daniza, alla presunta eliminazione di massa di cani randagi che sarebbe stata ordinata dalle autorità russe in vista delle Olimpiadi invernali di Sochi del 2014 (leggi) è effimera, dura poco, distrae un po’ le persone, sposta l’attenzione dove serve in quel momento, è «di pancia», perché non viene mai inserita in un contesto generale di analisi e di lotta: ha, dunque, una ben precisa funzione politica. Siamo indignati per la morte inutile del leone Cecil? È giusto esserlo. Ma se vogliamo evitare di essere strumenti dei media che utilizzano questi eventi con l’evidente scopo di distrarre le persone dalle questioni che le riguardano più da vicino o di spostare le loro opinioni, dobbiamo ribaltare la prospettiva, superare l’emozione che questi fatti suscitano e costruire un’analisi politica intorno a essa, in modo che l’indignazione non duri poco più dei secondi necessari per condividere su facebook la grafica di un gruppo di leoni che dicono «stiamo cercando un dentista». L’uccisione del leone Cecil è avvenuta in Zimbabwe, quello che viene considerato il paese più povero del mondo, in cui l’aspettativa di vita alla nascita è di 52 anni e oltre l’80% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno (leggi): tutto ciò per garantire a un dentista bianco del Minnesota di spendere 50mila euro per uccidere un leone e farne un trofeo. Un paese – precedentemente chiamato Rhodesia – che ha alle spalle una lunga storia fatta di colonizzazione britannica e di segregazione razziale: anche dopo l’indipendenza, promossa dai bianchi di origine britannica, il regime di apartheid mantenne una forza tale da venir biasimato anche dalla Gran Bretagna e, non a caso, sul suo profilo facebook, Dylann Storm Roof, l’autore della strage di Charleston, aveva pubblicato delle sue foto mentre indossava una giacca con una toppa con la bandiera della Rhodesia segrazionista. Perché, appunto, lo sfruttamento dell’uomo sugli animali va sempre in coppia con lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo: puntare i riflettori solo sul primo è un ottimo modo per far distogliere lo sguardo dal secondo.
Bisogna, infine, stare attenti a tenere insieme le fila del discorso. Le uccisioni negli Usa dei neri non sono diverse da quelle che, in tutte le metropoli occidentali, hanno come vittime ragazzi delle periferie, marginali, extracomunitari, tossicodipendenti, persone confuse dal punto di vista psichico, individui considerati improduttivi: i componenti della colonia interna cambiano di paese in paese, ma ovunque, in nome di uno stato di emergenza permanente, viene legittimata la violenza e la repressione – fino all’eliminazione fisica – di coloro che sono considerati non integrabili nel sistema dominante.
Il rischio è quello che – a forza di piangere orsi, cani e leoni – il senso comune giunga a pensare – per parafrasare una nota frase generalmente attribuita a Stalin – che la morte di un animale sia una tragedia e la morte di migliaia di esseri umani solo statistica. Una sorta di ideologia di «fine della storia», in cui sfruttamento, brutalità, violenze sugli oppressi e sui marginali – anche in nome di questo stato di emergenza permanente – è considerata «normale» e «naturalizzata»: un bel regalo, insomma, allo stesso sistema di sfruttamento di cui la violenza sugli animali è solo un aspetto.
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