Da un mese l'ATAC, l'azienda dei trasporti pubblici di Roma, campeggia
sulle prime pagine dei giornali locali e nazionali: tra “scioperi
bianchi”, tentativi di linciaggi dei dipendenti, dichiarazioni roboanti
su possibili privatizzazioni, ecc.
Tutto è cominciato a inizio Luglio, quando
l'azienda decide di disdettare unilateralmente tutto quello che la
contrattazione di secondo livello dal '62 ad oggi (!) assicurava ai
propri dipendenti.
Una misura volta al “recupero della produttività” e che in soldoni si
traduce nella diminuzione del salario variabile e in aumenti
dell'orario di lavoro. Segue immediato un piccolo presidio dei lavoratori,
mentre cominciano i primi rallentamenti e proteste dei macchinisti, i
primi ad essere colpiti da queste misure. Subito scattano le reazioni
dell'utenza, tra aggressioni verbali e fisiche e veri e propri linciaggi
ai danni dei lavoratori. A contribuire a questo clima è la voce pompata
ad arte dalla stampa per cui alla base della protesta ci sarebbe il
rifiuto del controllo elettronico delle presenze, il cosiddetto badge (Il Sole 24 Ore ad esempio insiste ancora su questa interpretazione),
che effettivamente rientra tra le misure introdotte ma che in realtà
conta poco per i lavoratori (la cui presenza effettiva viene già
controllata attraverso la firma nei turni) e che ne denunciano al
massimo l'irrazionalità: costringe a presenziare anche durante i tempi
morti e rende praticamente impossibile ricorrere agli straordinari per
coprire i turni mancanti, paralizzando il servizio.
Ad ogni modo
la protesta colpisce: numerosi treni registrano rallentamenti e tante
corse saltano, per via della decisione dei macchinisti di attenersi alla
lettera al regolamento sulla sicurezza (ad esempio non facendo viaggiare i treni privi di aria condizionata, come dovrebbe essere) e di astenersi dallo straordinario
(com'è nel loro diritto), su cui si regge il 40% del servizio. La cosa
di per sé sarebbe rivelatoria dello stato in cui versa l'azienda e le
condizioni in cui lavorano i suoi dipendenti, senza i cui sacrifici
quotidiani questo livello di disagi sarebbe la norma, ma viene coperta
da una campagna stampa di pesante criminalizzazione amplificata dal
sindaco Marino che, insieme al prefetto Gabrielli, subito annuncia
misure repressive contro quello che viene definito uno “sciopero bianco”.
Marino arriva addirittura a minacciare che se le cose non cambieranno e
non si troverà un accordo con i lavoratori, l'azienda potrebbe essere
privatizzata. Prepara così il terreno per l'accordo capestro che azienda
e sindacati confederali firmano il 17 Luglio, con questi ultimi che
accettano su tutta la linea quanto richiesto dall'azienda: aumento degli
orari di lavoro, erogazione del salario accessorio vincolata a criteri
di produttività, tagli ad una serie di indennità. I sindacati di base e
autonomi subito si schierano contro, ed alcuni avviano le procedure di
raffreddamento e annunciano scioperi. Anche gli stessi firmatari
dell'accordo, CGIL in primis, approvano l'idea di passare per il parere
dei lavoratori attraverso un referendum apposito proposto dal sindacato
autonomo FAISA-CONFAIL. Intanto il Sindaco definisce questo un momento
storico e si augura che terminino quindi le proteste e i conseguenti
disagi. Sembra così segnato il passo verso la ristrutturazione aziendale
che secondo Marino dovrebbe rilanciare l'azienda.
Poi però arriva una svolta improvvisa. Mentre le proteste continuano (d'altronde come aspettarsi il contrario), il
Sindaco fa un annuncio shock: dopo aver ottenuto la promessa
dell'agognata ricapitalizzazione dell'azienda grazie ai soldi della
Regione (in debito verso l'azienda da anni), promette di cancellare il
CDA, chiede le dimissioni dell'assessore ai trasporti, un nuovo piano
industriale e apre a partner privati. Quella stessa dirigenza e
quello stesso piano industriale che erano stati plauditi per aver
voluto, e forse ottenuto, l'abbattimento del costo del lavoro, vengono
sconfessati di punto in bianco. La minaccia della privatizzazione si fa
ancor più concreta, nonostante fosse stata invocata proprio per ottenere
quello che effettivamente sembrava ormai essersi ottenuto.
Privatizzazione e taglio del costo del lavoro, queste le direttrici che
secondo il sindaco dovrebbero portare alla soluzione della crisi del
trasporto pubblico romano. Più che una soluzione, questa è però una
punizione. Una punizione che serve a risolvere un'altra crisi, quella della classe dirigente capitolina e degli interessi che rappresenta,
profondamente delegittimata dai recenti scandali e nel mezzo di un
turbine finanziario senza precedenti. Tentiamo di capire perché.
Tra crisi finanziaria e scandali politici
Cominciamo con un dato che già la dice lunga: ATAC quest'anno non è
ancora riuscita ad approvare il bilancio (cosa che di norma avviene
verso Aprile). Data l'erosione del patrimonio netto, il rischio sarebbe
infatti la bancarotta dell'azienda. Secondo gli stralci del report gestionale citato dai giornali
i problemi sarebbero dovuti ai minori ricavi della bigliettazione,
delle multe, dei parcometri, ma soprattutto del mancato rinnovo del
contratto di servizio e ai minori chilometri percorsi (il contratto con
il comune prevede infatti dei finanziamenti proporzionali al servizio
reso, misurato in chilometri) principalmente per via dei guasti dei
mezzi stravecchi. La crisi dell'azienda insomma è grave, e in realtà
lo si capisce ancora di più leggendosi i bilanci approvati negli anni
precedenti. Giusto l'altr'anno l'azienda segnalava come tra le
principali criticità ci fossero: la svalutazione dei crediti vantati nei
confronti del Comune, gli inadempimenti della Regione nel versare 400
mln all'ATAC (per cui è in essere un contenzioso legale), le difficoltà
di valorizzazione degli immobili che l'azienda è intenzionata a svendere
per battere cassa e soprattutto la diminuzione degli introiti dovuti
alla mancata percorrenza dei chilometri previsti. A sua volta questo
sarebbe dovuto principalmente alle difficoltà di pagare i fornitori del
materiale essenziale per la circolazione dei mezzi, alla diminuzione del
personale di 120 unità (!), e, aggiungiamo noi, forse al fatto che al
2013 l'età media dei mezzi di trasporto è catastroficamente alta (30
anni per i treni e i tram, quasi 10 per gli autobus) e quindi i guasti
sono quotidiani.
Ma ci sono cause ancor più strutturali: come abbiamo già documentato un anno e mezzo fa nella nostra inchiesta, nella
crisi dell'azienda si possono trovare alcune di quelle tendenze che
sono state acuite dalla crisi economica globale degli ultimi anni. I tagli dei finanziamenti statali al
servizio di trasporto pubblico, complici i vincoli sempre più stretti
del patto di stabilità, che rendono più difficili manovre che potrebbero
aiutare a rinnovare la rete ed i mezzi e così contenere costi e
garantire un servizio migliore; le tensioni creditizie delle banche; le
difficoltà di vendere il patrimonio immobiliare per via del mercato del
mattone in crisi; addirittura gli azzardi speculativi dell'ATAC stessa
che ha perso fino a 28 milioni di euro
per via di un derivato, uno strumento finanziario a cui, d'altronde,
gli enti locali hanno fatto ricorso spesso negli ultimi anni nel
tentativo di nascondere buchi di bilancio che poi finivano in realtà per
allargare. Il tutto nel quadro di una crisi del bilancio comunale che
ha avuto una drammatica accelerazione nell'ultimo anno, una crisi
profondamente intrecciata a quella di un'azienda che dipende dal comune e
che grava sulle sue finanze (come testimoniato, ad esempio, dal
simultaneo declassamento da A a BBB+ del rating dell'ATAC e di Roma
Capitale da parte dell'agenzia Standard & Poor's nel 2012).
In questa situazione, conformemente a quanto succede in tanti altri ambiti della nostra vita pubblica, la politica ha deciso di abdicare e ritirarsi.
Dietro la scusa dei vincoli e delle richieste europee, impotente di
fronte allo strapotere della finanza, non intenzionata a dar voce agli
interessi del popolo che pretende di rappresentare, ha fatto l'unica
cosa che gli riesce molto bene: saccheggiare il più possibile, elargire
favori costruendo piccole reti clientelari, accontentare i potenti
(privati) di turno. Si sono così susseguiti una serie di scandali: da quello di “Parentopoli”,
che travolse la giunta Alemanno accusata di aver inserito parenti e
amici, per lo più vecchi fascisti, tra i quadri amministrativi
dell'azienda (non di certo a fare gli autisti!); a quello, ancor più
grave ed incredibile, dei biglietti clonati, che secondo le stime di La Repubblica,
avrebbe sottratto circa un quarto dei proventi dei titoli di viaggio, a
beneficio di fondi intestati ai partiti; di recente, infine, alcune
indiscrezioni lascerebbero intendere l'infiltrazione della banda Buzzi e Carminati nella gestione di alcuni appalti...
d'altronde le intricate trame di appalti e subappalti dei servizi
esternalizzati di ATAC offrono ampi spazi di manovra in cui possono
inserirsi gli appetiti più spietati. In tutto questo i manager
guadagnano stipendi stellari, pari a quelli di un migliaio di operai
(clamoroso il caso della buona uscita dell'AD Antonio Cassano del valore
di 1,2 mln di Euro!).
Di fronte all'acuirsi della crisi,
davanti alla scadenza dell'ennesima proroga del contratto di servizio e
alla necessità di prendere decisioni velocemente, l'azienda pensa quindi di colpire laddove gli è più facile, conformemente a quanto previsto dall'ultimo piano industriale (il terzo in 6 anni!): tagliare il costo del lavoro, aumentando la produttività ed estendendo l'orario di lavoro a parità di salario.
Ancora una volta il prezzo del debito e di una crisi frutto della
speculazione selvaggia di padroni e banchieri dovrebbe andare sul conto
dei lavoratori a cui vengono imposti ulteriori sacrifici.
Lavorare tanto e in pochi
Chiaramente per coprire una manovra di questo genere serve una
retorica adeguata, qualcosa che dirotti la rabbia di tutti gli utenti
che subiscono i disagi strutturali del servizio e quelli straordinari
legati alle proteste contro gli stessi lavoratori protagonisti. E così i
dipendenti ATAC si sono ritrovati d'improvviso ad essere dei
“privilegiati”, dei nullafacenti, dei raccomandati. In sostanza degli
irresponsabili fannulloni che si rifiutano di lavorare quanto “si
dovrebbe”, di farsi controllare attraverso il badge, e per questo
mettono in ginocchio la città. A dimostrarlo sarebbero l'ammontare delle
ore lavorate dagli autoferrotranviari romani, le famigerate 726 ore
annue, ben inferiori a quelle dei colleghi delle altre città d'Italia,
citate dall'azienda e rimbalzate a gran voce negli organi di stampa.
Peccato che non si sappia proprio da dove escano fuori questi dati. Come
ci racconta un macchinista della linea Roma-Giardinetti, membro della
FAISA-CONFAIL, l'azienda non si è degnata di spiegare la base di questi
numeri, mentre alcuni calcoli molto semplici racconterebbero una realtà
ben diversa: prendendo ad esempio proprio questa linea, considerando
anche solo le 4 ore effettive alla guida (questo è il limite massimo
previsto dalle norme di sicurezza nazionali ed europee) delle 6h e 10
min di servizio giornaliero e moltiplicandolo per i 278 giorni di
servizio annui si arriva a 1112 ore! E tutto questo senza
considerare l'enorme quantità di straordinario svolto da ogni dipendente
che raggiunge mediamente le 30 ore settimanali! Perché l'azienda è
strutturalmente in carenza di organico e i buchi nei turni delle corse
di treni e autobus vengono riempiti con il ricorso a tantissime ore di
straordinario, o negando giorni di ferie, come dimostrano gli arretrati accumulati dalla maggior parte dei dipendenti! Come scrive un'autista in un bell'articolo su La Città Futura:
da “ormai un quindicennio” non ci sono assunzioni che rimpiazzino “gli
autisti, i macchinisti e i meccanici che andavano in pensione
trasformando una parte delle relative ore di lavoro in straordinari e
rinunciando alla restante parte. Anno dopo anno, le ore di lavoro
straordinario sono perciò aumentate fino a coprire ormai il 30% del
servizio [...] In Atac, invece, s’è dilatata a dismisura la parte
straordinaria del servizio approfittando dello stato di bisogno creato
assumendo con paghe più basse. Ciò nonostante, anche se spinti a farli
per recuperare salario, i lavoratori non riescono a coprire gli
straordinari tutti i giorni, così il suddetto 30% di servizio non arriva
mai a essere effettivamente 30%”.
Questo invece ci diceva una
macchinista della linea Roma-Lido rappresentante dell'Or.SA.
nell'intervista che raccogliemmo un anno e mezzo fa: “Effettuo circa
trenta ore settimanali a straordinario e trentasei ordinarie. Il che
ammonta a circa 120 ore mensili. La legge stabilisce 120 ore annuali
massime. [...] Il ritmo degli straordinari viene 'accelerato'
dall'ufficio turni nella speranza di coprire sempre il servizio, ma ogni
lavoratore lo ridimensiona in base alle proprie esigenze. C'è comunque
una pressione continua. In alcuni periodi sono stati concessi tre turni
quotidiani, che nominalmente ammonterebbero a circa 18 ore. [...] Le
pause, generalmente, sono di 8 minuti a corsa, nelle quali di volta in
volta si fanno rientrare le esigenze fisiologiche, la chiacchiera col
collega, l'espletamento di pratiche burocratiche, il panino del pranzo.”
Riprendiamo queste parole perché sono un caso tutt'altro che isolato e
spiegano molto meglio di quanto non potremmo fare noi il modo in cui
l'ATAC è andata avanti: basta andare a guardare le tabelle dei turni
delle corse e vedere tutti quelli non coperti, o semplicemente parlare
con i dipendenti e sentire l'esperienza quotidiana dei diretti
interessati per rendersene conto. Qualcosa di molto semplice, che però i
giornalisti e la stampa hanno smesso di fare da tempo, nonostante i
mezzi che avrebbero a disposizione.
Così, in sostanza, la
manovra dell'azienda non è quella di risolvere i problemi che affliggono
migliaia di pendolari ogni giorno, quelli dei mezzi fatiscenti, delle
corse che saltano, degli orari non rispettati. L'unica cosa che ha in mente l'azienda è risparmiare sul costo del lavoro per tappare i propri buchi!
Quello che accadrebbe con l'accordo del 17 Luglio sarebbe semplicemente
l'estensione dell'orario di lavoro ordinario senza variazione dello
stipendio, che rende così norma parte dello straordinario su cui si basa
il servizio e porta quindi a una drastica diminuzione del
salario-orario.
A questo si aggiungerebbe un'ulteriore decurtazione
dello stipendio dovuta al taglio del cosiddetto salario “accessorio”,
che verrebbe vincolato a criteri di “produttività”. Si tratta di una
strategia che molti dipendenti pubblici romani (e non solo) conoscono
bene e su cui si sono concentrate le lotte dell'ultimo anno e mezzo dei lavoratori comunali
(amministrativi, maestre d'asilo, vigili). Nella sostanza rappresenta
l'introduzione mascherata del cottimo: dopo aver definito “accessoria”
una parte dello stipendio necessario ad arrivare a fine mese, si
pretende che questa non venga erogata se non sulla base di fumosi
criteri di “merito” che si traducono semplicemente nell'aumento dei
carichi di lavoro e nel controllo sempre più tirannico dei propri
superiori in un clima di divisione e concorrenza tra lavoratori. Nel
caso di ATAC, con l'accordo del 17 Luglio, si vincola l'erogazione di
una quota essenziale del salario – è improprio infatti definire
“accessori” 300-400 euro per uno stipendio medio di 1500 ! – alla
percentuale di assenze, per cui, superata una certa soglia annuale, ci
si vedrebbe privati del tutto di essa. Il fatto è che, tra gli altri,
come assenza verranno conteggiati i giorni di malattia o di ricorso alla
legge 104 di assistenza ai familiari malati! E si tratta di istituti a
cui i lavoratori sono costretti a ricorrere ancor più spesso in
un'azienda in cui le ferie vengono costantemente negate. Secondo le
parole della lavoratrice “Abbiamo tutti un numero giorni ferie
accumulato molto alto, poiché le richieste faticavano ad essere esaudite
nei consueti periodi festivi e natalizi. Attualmente si fa fatica anche
a ottenere un giorno feriale qualunque. Questa situazione crea
inevitabilmente un'impennata di malattie, congedi parentali e 104, le
uniche giornate che, non dipendendo dall'azienda, non possono essere
rifiutate. Lavoriamo con l'assillo costante a lavorare di più.”
Questi dunque gli insopportabili privilegi contro cui si sta scagliando
la rabbia di migliaia di pendolari romani stanchi e inferociti, ben
aizzati da chi vuole approfittare di tutto questo.
La ritirata della politica
Perché di questo fumo negli occhi sta approfittando innanzitutto la
classe politica capitolina, in grado di scaricarsi di dosso molte delle
pressioni dell'opinione pubblica e del Governo che a seguito degli
scandali di “Mafia Capitale” si stanno facendo sempre più insostenibili.
Pressioni che rischiano di fare esplodere una giunta che è costretta a
fare i salti mortali per bilanciare i conti capitolini e implementare il
piano di rientro del gigantesco debito comunale, piano imposto dal
governo con il famigerato “Salva Roma”.
Lo testimoniano da ultimo le recentissime dimissioni dell'assessore al
Bilancio Silvia Scozzese, arrivate a solo un anno di distanza da quelle
rassegnate dal suo predecessore e che dimostrano proprio le resistenze e
le difficoltà della continua opera di tagli alla spesa pubblica.
D'altronde solo per ATAC si parla di ridurre le spese strutturali
dell'11% in tre anni, portandole da 600 a 530 mln di euro. Difficile che
le previste “razionalizzazioni” della rete di trasporti non comportino
ulteriori aggravi e difficoltà per chi a Roma si sposta con i mezzi
pubblici, come dimostrano i tagli avvenuti nell'ultimo anno di molte linee periferiche.
Tagli che hanno avuto subito un riflesso nella percezione
dell'accessibilità del servizio, come sottolineato dall'indagine
dell'Agenzia romana di monitoraggio dei servizi pubblici locali che
nella sua “Ottava indagine sulla qualità della vita e dei servizi pubblici locali nella città di Roma”, uscita
giusto qualche settimana fa, rileva come “per la prima volta quest’anno
in misura così significativa” il problema riguardi “il trasporto di
superficie, la cui rete è stata recentemente modificata”. Dirottando
l'attenzione dai problemi strutturali al comportamento dei lavoratori,
un sindaco sedicente di sinistra ha dato in pasto un facile capro
espiatorio alle frustrazioni di utenti sempre più stremati dalle ore di
vita perse nei viaggi dalla propria casa al proprio luogo di lavoro (e
verso qualunque altro posto) in una città grande, invasa dal traffico e
dal turismo di massa. La politica così ha assecondato e fomentato
l'odio e la rabbia tra chi si trova in condizioni simili e rinunciato ad
affrontare i problemi alla radice.
Ha fatto però anche
qualcosa in più: spianato la strada all'intervento di chi è subito
pronto a trasformare la crisi dell'economia pubblica nel proprio
vantaggio privato. Perché dopo aver sbandierato la minaccia di
privatizzazioni per piegare la volontà dei lavoratori, ad accordo ormai
raggiunto, il Sindaco, come abbiamo visto, ha deciso comunque di
procedere in questa direzione. In sostanza l'impennata di caos e disagi a
cui ha portato l'esacerbarsi dei rapporti con i dipendenti e la
riorganizzazione irrazionale dei turni ha creato l'emergenza necessaria a
giustificare questo colpo di mano. Un colpo di mano che annulla i risultati del famoso referendum che nel 2011
si oppose alla privatizzazione dell'acqua pubblica e di altri servizi
come i trasporti, che accelera dei processi già in corso (per via di una
direttiva europea nel 2019 ad ATAC comunque non potrebbe essere
affidato direttamente il servizio) e non risolverà niente, ma che
almeno permette di tamponare qualche buco e sul lungo andare
deresponsabilizza la politica dalla gestione dei servizi pubblici.
Diciamo che non risolverà niente perché abbiamo già visto tutti i
risultati dell'affidamento a privati dei servizi romani; ma anche perché
parte del trasporto romano (quasi il 20%!) è già in mano ai privati,
attraverso l'appalto che l'ATAC affida alla Roma TPL, che a sua volta
subappalta ad una serie di piccole aziende e consorzi. I risultati delle
linee gestite privatamente sono altrettanto scarsi (o ancor peggiori)
delle altre, mentre le condizioni di lavoro ne risentono pesantemente:
gli autisti risultano di gran lunga discriminati rispetto al trattamento
dei loro colleghi di ATAC, percependo, a parità di mansioni e lavoro,
una retribuzione inferiore anche del 20%, che spesso arriva in ritardo o
non arriva neanche. Le aziende che, per conto della società consortile,
esplicano materialmente il servizio, “ritengono” di non essere
obbligate a garantire ai propri dipendenti i trattamenti economici e
normativi non solo vigenti per la categoria in generale, ma nella stessa
società consortile, situazione più volte denunciata dall’USB.
Queste le parole di un lavoratore USB di Roma TPL a proposito delle
condizioni di lavoro a cui sono sottoposti: “loro parlano di libero
mercato, io la considero semplicemente una concorrenza sleale: una media
di 200-300€ in meno in busta paga, turni giornalieri di 11-12 ore che
vanno ben oltre il contratto nazionale, non vengono riconosciuti i 10
minuti accessori per controllare la vettura previsti dal CCNL”.
Condizioni di lavoro verso cui l'ATAC, con i recenti accordi, sembra
incamminarsi.
Cosa si spera di ottenere veramente
privatizzando? Semplicemente di ricapitalizzare l'azienda per ripagare
il debito alle banche creditrici, per poi continuare tutto come prima
senza doversi preoccupare più né delle relazioni sindacali né di
prendersi la responsabilità per il servizio reso. Un servizio che
continueranno a pagare le casse pubbliche, dato che le entrate dovute
alla vendita dei biglietti ammontano a circa il 25% del totale, una
quota nettamente minoritaria (che rimarrebbe tale anche recuperando
interamente l'evasione, che si stima di circa il 20% al massimo su
questa stessa quota) e che non potrà mai rimpiazzare i finanziamenti
pubblici se non demolendo del tutto il servizio. Quindi soldi regalati a
nuovi padroni privati senza ottenere in cambio alcun beneficio.
D'altronde la stessa Confindustria, in uno studio del 2000
che valutava i risultati dell'ondata di privatizzazione degli anni '90,
notava come “gli obiettivi di efficienza sono stati raggiunti in misura
inadeguata” e che spesso privatizzare con l'esigenza di “fare cassa”
non abbia comportato altro che la sostituzione di un monopolio pubblico con uno privato, “conducendo a scelte non ottimali dal punto di vista dell’efficienza e del benessere collettivo”.
Questo il progetto di una giunta ormai allo sbando.
Noi non siamo in debito
Ricapitoliamo brevemente: Roma e la sua azienda dei trasporti, l'ATAC,
sono in crisi, rovinate da un debito mostruoso. Le radici sono le
solite: tagli ai servizi e alla spesa pubblica, dirigenti che fanno i
propri interessi, privati a cui vengono regalati appalti d'oro, ruberie e
clientele politiche. Tutto in un quadro di una crisi economica globale
che hanno prodotto banche e padroni e che ormai da anni con austerità e
sacrifici stanno pagando i lavoratori di tutta l'Europa e del Mondo. Di
punto in bianco l'ATAC decide, come d'altronde il comune sta provando a
fare con i suoi dipendenti diretti, di annullare tutta la contrattazione
di secondo livello conquistata dai suoi lavoratori in 40 anni di
battaglie sindacali. Aumento degli orari di lavoro, tagli
dell'indennità, decurtazione dello stipendio per quasi il 30%! E' ancora
una volta chiaro l'intento di far pagare la crisi ai lavoratori, i
quali, però, per opporsi a tutto questo decidono di astenersi dagli
straordinari e di rispettare alla lettera le norme di sicurezza. Ne
seguono grandi disagi che dimostrano i sacrifici fatti finora dai
lavoratori stessi e che vengono amplificati della riorganizzazione
irrazionale dei turni implementata ancora solo a metà dall'azienda (che si è rivelata essere alla base del tanto vituperato disagio di Aprile).
Questi disagi provocano un'ondata di violenza esasperata diretta verso i
lavoratori da parte di utenti che si sfogano contro il bersaglio più
identificabile e a portata di mano e che si bevono la versione
propagandata da stampa ed istituzioni secondo cui i dipendenti ATAC
sarebbero solo dei fannulloni che difendono i propri privilegi. Nel
frattempo Sindaco, Prefetto e azienda procedono con le misure
repressive: impediscono ai lavoratori di scioperare precettando lo
sciopero del 27 Luglio, sospendono dal servizio alcuni di loro, avviano delle indagini interne con cui smascherare i “sabotaggi” dei macchinisti.
Noi non sappiamo se queste riveleranno degli “eccessi” da parte di chi
in questi giorni ha lottato per salvaguardare condizioni di lavoro
dignitose. Eccessi che sicuramente, nel caso siano avvenuti, sono stati
pagati in primis da tutti quei lavoratori che ogni giorno usano i mezzi
pubblici per spostarsi. Abbiamo però capito e mostrato le condizioni che
hanno portato a ricorrere a gesti eventualmente estremi, complice anche
l'impossibilità di usufruire di strumenti legali come lo sciopero,
negato attraverso il ricorso alla precettazione. Importante è allora rispedire
al mittente, all'azienda e alle istituzioni, le accuse che vorrebbero i
lavoratori colpevoli dei disagi che come utenti abbiamo subito in
questo ultimo periodo e che in realtà subiamo ogni giorno da vent'anni (“sciopero
bianco” o meno!). Se veramente vogliono che termini la protesta, se
veramente vogliono che sia garantito il nostro “diritto alla mobilità”,
allora assicurino delle giuste condizioni di lavoro e di salario ai
propri dipendenti!
Se una parte dei lavoratori ATAC ha una
qualche responsabilità, è forse quella di aver assistito troppo a lungo
inerti al saccheggio della propria azienda, di aver sperato che
coltivando i propri piccoli interessi e contando magari su qualche
appoggio politico o sindacale si potesse tirare avanti senza troppi
problemi. Supportare oggi la loro resistenza, la lotta dei loro
elementi migliori e sicuramente maggioritari, significa allora
contrastare proprio ciò che costringe a barattare la propria dignità e
il proprio silenzio per un'assunzione, per un permesso, per qualcosa in
più in busta paga. Perché potremmo perderci in discussioni infinite
sul fatto che anche gli utenti sono rimasti muti davanti all'aumento del
costo dei biglietti, al taglio di diverse linee, ad un comune coinvolto
in un giro d'affari mafioso, ma queste accuse reciproche non ci
farebbero andare avanti né risolvere i nostri problemi. Più utile è
invece identificare responsabili reali e comuni dei disagi che siamo
costretti a vivere come utenti o come lavoratori e combattere insieme
contro di essi. Per cominciare bisogna innanzitutto rompere l'isolamento
di chi prova a resistere. Perché i motivi per continuare a cedere, per
arrendersi e continuare tutto come prima sono ancora lì: i ricatti
quotidiani, le piccole illusioni e tentazioni sono presenti in tutta la
loro prepotenza e soltanto lottando uniti si può riuscire a
ridimensionarli e rispedirli al mittente.
Nel nostro interesse è
fare in modo che questa lotta diventi la lotta per nuovi investimenti,
per nuove assunzioni, per un trasporto pubblico gratuito e di qualità,
contro finte soluzioni che servono solo agli affari di privati
arraffoni. Sapendo che non è facile, che i problemi sono tantissimi,
strutturali. Come il fatto che Roma è una città in cui la speculazione
edilizia ha costruito per più di un secolo tanti ed enormi quartieri mal
collegati tra loro; che la maggioranza di chi si riversa per lavorare
in città viene dalla periferia in cui è stato relegato per via del costo
esorbitante degli affitti; che la crisi delle aziende municipalizzate
non nasce ieri, come non nasce ieri quella dei bilanci degli enti
locali; che il settore pubblico molto spesso ha rappresentato una forma
distorta e clientelare di ammortizzatore sociale, in cui diritti
diventavano privilegi, meritandosi il carico di odio e risentimento di
tutti quelli che ne sono stati esclusi. Questo però significa soltanto
che non ci si può fermare qua, che bisogna allargare il fronte, che
si deve essere compatti e determinati ma al contempo capaci di far
capire le proprie ragioni, di guadagnarsi il consenso di quella grande
maggioranza che è nelle stesse condizioni e a cui viene dato in pasto un
facile bersaglio per le proprie frustrazioni. Iniziando con il
supportare la resistenza di chi, tra mille ritardi ed errori, ha il
merito di aver dimostrato che esiste un limite oltre il quale non si è
disposti a sacrificarsi, oltre il quale si smette di sentirsi
privilegiati per il semplice fatto di avere un lavoro e di riuscire ad
arrivare a fine mese. Per arrivare quindi ad invertire quella tendenza
che ha fatto sì che quel settore pubblico che cola a picco sotto la
scure dei tagli, del debito, della crisi, – quel settore che viene
invocato solo quando si tratta di salvare i grandi interessi privati! –,
rimanga monopolio di chi saccheggia quel poco che resta prima che esso
affondi definitivamente. Di chi – compresi molti sindacati, confederali
in primis – lo usa per costruire dei piccoli feudi in cui cooptare
quelli che semplicemente reclamano ciò che dovrebbe spettargli di
diritto. Non manca il materiale umano per farlo, consiste proprio in
molti di questi lavoratori protagonisti da sempre, e in questi giorni
ancor di più, di piccoli gesti di verità e di coraggio. Come quello del video dell'autista Christian Rosso
che, stanco di dover scegliere tra l'essere linciato per colpe che non
si hanno o venire licenziati per averlo denunciato, ha preso parola
pubblicamente, con semplicità e chiarezza, per far capire le proprie
ragioni nonostante i rischi di ritorsione da parte dell'azienda.
Bisogna iniziare da subito perché la posta in gioco è alta: lo dimostra l'accanimento della stampa padronale, che, come nel caso de Il Sole 24 Ore,
ha fatto della lotta dei dipendenti di ATAC l'emblema di quello che in
Italia non funzionerebbe. Per loro le “logiche di parte”, di “fazione”
sarebbero quelle di chi reclama e lotta per i propri diritti, e le
soluzioni proposte sono ad esempio quelle appena rilanciate da Sacconi ed Ichino
che, partendo proprio dal caso dei trasporti, immaginano delle forme
per la limitazione del diritto di sciopero. La loro retorica è tutta
tesa ad alimentare quella stessa guerra tra poveri di cui sono riusciti
ad approfittare, gonfiandola ad arte, nel caso dei lavoratori ATAC. Sognano un mondo in cui i lavoratori si scannino a vicenda con la scusa della “concorrenza”,
in cui chi è totalmente privo di diritti ed in balia della peggiore
precarietà (da loro stessi creata) se la prenda con chi ha ancora
garantita qualche tutela, spacciata impropriamente per privilegio.
Questo perché i loro profitti crescano e i veri privilegi rimangano
intoccabili.
La posta in gioco è quindi quella su chi deve
sobbarcarsi i costi di questa crisi, se dobbiamo essere noi a pagare un
debito che non abbiamo creato. Noi sappiamo di aver già dato, pure
troppo, non siamo noi ad essere in debito. Come abbiamo documentato
spesso nell'ultimo anno e mezzo (partendo proprio dagli
autoferrotranviari!), molti lavoratori romani hanno cominciato ad
affermare questa verità nei fatti. La lotta dei dipendenti ATAC è un
altro tassello in questo quadro.
Fonte
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