Prima di tutto viene a mente Boris Johnson. L’attuale sindaco di Londra. Il tipo di conservatore britannico tanto chiassoso, nelle dichiarazioni, quanto ben lucido quando si tratta di tutelare i grandi interessi. Subito dopo i riot del 2011, Johnson si presenta con una scopa in mano per le strade di Londra invitando i cittadini a pulire le strade. Inevitabilmente i volontari, che seguono il gesto di Johnson ripreso dalle tv di tutto il mondo, vengono mediatizzati all’istante. Siamo sul set dove si recita, formalizzando il racconto dai social alle più classiche televisioni, l’operosità dei cittadini silenziosi e disciplinati contro la canaglia confusa e violenta. E’ andata in questo modo: legittimazione dell’operato del sindaco conservatore riuscita, canaglia condannata anche da Bauman come violenta perché compulsiva e consumista (mentre i conservatori sono notoriamente asceti che non fanno guerre) e il set può essere smontato. Nelle settimane successive, un po' di processi, qualche furgone della polizia che ha fatto il giro di città, come Birmingham, esponendo grandi foto digitali dei sospetti. Tutto molto “1984” ma quando hai rappresentato la verginità della società civile che si riprende la città, e senza costi per il contribuente, l’intervento della polizia segue con serena naturalezza.
Quattro anni dopo, un po' di fuochi a Milano, il giorno della inaugurazione dell’Expo mentre, nella mattinata, Renzi aveva fatto il consueto discorso senza qualità questa volta circondato da bambini che cantano l’inno nazionale con la mano sul cuore. La reazione alla violazione da parte degli incappucciati al rito istituzionale, cerimonia che aveva unito un po' di stelle della moda il giorno prima con i bambini che cantano l’inno il giorno dell’inaugurazione, è affidata al sindaco di Milano Pisapia.
Scope in mano assieme al sindaco, si gioca anche qui sul set la rappresentazione dell’operosità silenziosa e quotidiana dei cittadini contro i black bloc del fine settimana: televisioni, grandi complimenti reciproci, spettacolo della società civile. Del resto al modello Pisapia non restano che le televisioni compiacenti giusto per la fase residuale del mandato: il tentativo di miscelare solidarismo di mercato, liberismo innovatore e partecipazione sulle piccole scelte, ultima spiaggia di ciò che resta della borghesia illuminata locale, ha lasciato il passo a sgomberi delle case, resa verso la Deutsche Bank durante il processo ai derivati del comune di Milano e ad una sostanziale accettazione di un Expo che si candida a disseminare il nulla dopo la sua chiusura. Con Expo il vero affare l’ha fatto la ‘ndrangheta, non certo la società civile di Pisapia, ma questa è un’altra storia.
Quando il conservatorismo chiassoso inglese e la subcultura del marketing del solidarismo italiano di governo entrano in crisi, proprio nel vissuto metropolitano, il ricorso alle scope, simbolo della operosità della pulizia da cortile che si vuole estendere fino al globale, diviene quindi necessario. Sempre sul piano dello spettacolo, con orde di service televisivi e di free-lance pronti a riprendere la scenografia della ramazza. E’ un rito che funziona, fino alla criticità metropolitana successiva. Non a caso a Roma, a sostegno dell’improbabile giunta Marino, si è fatta addirittura la chiamata, l’appello alla mobilitazione all’uso delle scope. Chiamata effettuata da esponenti del mondo dello spettacolo, uno addirittura candidato presidente della repubblica secondo Facebook, giusto per intendersi di quale dimensione dell’agire sociale stiamo parlando. La microfisica dei comportamenti reali nelle metropoli è un’altra cosa, confusa quanto complessa, ma qui l’importante è agire sul messaggio.
Ma se il messaggio funziona, entra nelle case e negli smartphone suscitando reazioni positive, non si può dire altrettanto dell’economia che sottintende a questi riti di stabilizzazione politica. Già perché da Boris Johnson a Pisapia, passando per il sostegno alla giunta Marino, c’è un evidente fallimento. E non è quello politico-comunicativo, quella dimensione riesce abbastanza bene specie quando si va in onda a reti unificate e chi si proclama oppositore ha poche idee e bizzarre, si tratta invece di quello che riguarda il tentativo di legittimare una economia territoriale basata sul volontariato. Tentativo che in Gran Bretagna possiamo chiamare col suo nome, ovvero fallimento della politica di impletamentazione della Big Society. Questa politica è fallita, scomparsa dal lessico ufficiale della politica britannica, e non sarebbe male dare un’occhiata a ciò che è accaduto in Inghilterra in vista del nuovo passaggio parlamentare della legge sul terzo settore.
Già perché, alla lunga, la retorica della versione spaghetti del “taglieremo le tasse riqualificando il servizio” al massimo può tenere per quei poveretti che votano Renzi convinti, contro ogni evidenza, che rappresenti il nuovo. Se l’attuale esecutivo, magari piacendo a Bruxelles (e a Berlino), desse il via ad una riduzione delle tasse non farebbe che accrescere una nuova emergenza sussidiarietà. Ovvero quel fenomeno di esternalizzazione verso privato sociale, mondo cooperativo, di servizi non più erogabili dallo stato o dagli enti locali. Per questo la legge sul terzo settore, al momento in lettura alle camere, va letta in controluce rispetto alle esternazioni del presidente del consiglio sul taglio delle tasse. Tanto più la legge permetterà reali esternazioni di servizi al terzo settore, intrecciandosi con le privatizzazioni, tanto più la retorica del taglio delle tasse potrà provare a farsi sostanza. Ma come è andata in Inghilterra dove il tentativo d'implementazione della Big Society, quindi di devoluzione di poteri ai territori, e i tagli ai servizi sociali hanno corso in parallelo?
Torniamo al 2010. David Cameron, prima di andare al governo e triplicare le tasse universitarie tagliando molti servizi e benefit sociali, annuncia il manifesto della Big Society come elemento distintivo della sua campagna elettorale. Significa, in poche parole, un processo di devoluzione, al locale, dei poteri di governo su servizi sociali essenziali quando questi assumono una precisa conformazione. Ovvero quella di attivare una rete di carità, mutualismo, volontariato gratuito, cooperazione come strumento di erogazione dei servizi. Allo scopo fu fondata una banca, la Big Society Bank, e attivato un embrione di apposito servizio civile nazionale. Quando Boris Johnson sventolava le scope per Londra, come danza di legittimazione contro la canaglia, faceva quindi anche promozione per un progetto politico. Già in difficoltà, visto che nel febbraio del 2011 una delle località pilota del progetto, Liverpool che ha la zona critica L8 (storico sito di rivolte), era già stata cancellata dalle previsioni di implementazione della Big Society. Progetto il cui network relativo è entrato in amministrazione controllata già nel 2014, senza essere menzionato nella campagna elettorale, peraltro vinta da Cameron, l’anno successivo. Ma perché? Come mai è fallita la Big Society nonostante i fondi della lotteria e quelli provenienti dai libretti di banca rimasti incustoditi, le donazioni bancarie e quelle private, una dotazione di contractor, dirottati verso il volontariato, l’arruolamento di 30mila giovani volontari e uno specifico Localism Act del 2011?
Molto semplicemente sono accaduti due fattori. Il primo è legato alla natura stessa di Big Society: realizzare servizi facendo risparmiare lo stato. In poche parole, non ci sono mai stati fondi sufficienti per far decollare un progetto del genere che, per quanto legato al volontariato, prevedeva un investimento pubblico non una logica di disinvestimento e di risparmio. Nel commento in cui Cameron ha promesso uno stato più snello ed efficiente, che sono le stesse esatte parole di Renzi oggi, poneva quindi le stesse condizioni per il fallimento di Big Society. Perché per lanciare un progetto del genere, su servizi complessi, le risorse dello stato – finanziarie e di conoscenza – vanno aumentate non diminuite. Il secondo punto è che le risorse più importanti a disposizione del progetto Big Society sono finite tutte in mano ai grandi gruppi britannici della carità privata. In grado quindi di sottrarre risorse, spesso vitali, al volontariato e alla cooperazione dei territori. Anche qui, dopo la prima lettura in parlamento della legge sul terzo settore italiano, quando si legge che è “tutta sbilanciata sulle grandi coop”, qualcosa la vicenda britannica dovrebbe aiutare a capire. E, anche qui come a Londra, le scope sembrano agitarsi per fenomeni che stentano a prendere consistenza. Perlomeno nella forma di servizi generalizzati per la società che ne ha diritto e bisogno.
Come è andata a finire in Inghilterra? Big Society è in liquidazione, o comunque in forte dismissione, ed è sparita dal lessico della politica. Come molti servizi social, con tanto di previsione di 16 miliardi di sterline di tagli per la prossima finanziaria. In compenso Cameron ha vinto le elezioni. In una società dove la borsa tira e i servizi finanziari rappresentano metà del Pil britannico, mentre metà società non vota, non poteva andare altrimenti. In Italia le privatizzazioni, e i servizi alla finanza, non hanno questa base materiale liberista generalizzata. Però si capisce che, con la retorica della “società civile che si deve far carico”, una nuova ondata di esternalizzazioni, le cui più importanti finiranno alle grandi cooperative (come già avviene), è dietro l’angolo.
Dietro lo spettacolo delle scope, deprimente ideologia comunitarista del cortile di casa che si manifesta come risolutiva di ogni problema complesso, non c’è quindi solo una questione di consenso da costruirsi con la comunicazione politica. Ma anche di tentativo, sottinteso, di legittimare una nuova economia dei territori. Tutta a bassi salari, se non a zero, tutta piena di criticità fino al fallimento. Salvo poi riprovarci al grido di “questa volta è differente”. Come avviene per i prodotti finanziari, quelli che il ciclo precedente avevano fatto scoppiare una bolla. E poi le scope funzionano sempre come simbolico di verginità politica. Finché si trova gente che abbocca a sufficienza, il gioco regge.
Redazione, 1 agosto 2015
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