di Raffaele Sciortino
Sembra ufficiale: secondo Bloomberg la prosecuzione dei cali sulle borse mondiali – i più consistenti dalla crisi dei debiti sovrani del 2011 – segna inequivocabilmente il passaggio da toro a orso, da un mercato ascendente a uno in discesa di cui non si riesce a prevedere l’atterraggio. Controprove principali: corsa all’oro come bene rifugio (faccia nascosta della moneta creata con un click del computer); acquisti a valanga di titoli di stato Usa, tedeschi, inglesi come “porti sicuri” per il risparmio anche a costo di rendimenti negativi e del gonfiamento di una nuova bolla; assicurazioni sui rischi di default (cds) in netto rialzo.
C’è di più. Fin qui il crollo dei titoli, soprattutto bancari ed energetici, veniva messo in riferimento con il ribasso del prezzo del petrolio, lo scoppio delle bolle speculative e il rallentamento dell’economia cinesi, le difficoltà delle economie emergenti colpite da ingenti fughe di capitali e svalutazioni monetarie, nonché con il pur modesto aumento dei tassi statunitensi da parte della Federal Reserve (la banca centrale). Tutto vero. Ora però viene fuori che il problema di fondo sono i profitti in calo di buona parte della maggiori corporation mondiali – ma con epicentro proprio negli States! – con prospettive ancora più fosche dato il trend negativo di investimenti e ordinativi. Con l’aggravante di livelli d'indebitamento – supportati in questi anni dalle politiche monetarie “facili” delle banche centrali – che ora diventano difficili da reggere sia per le imprese sia per le banche che devono cancellare dai bilanci sempre più crediti inesigibili. Il che porta a ulteriori vendite di titoli in un circolo vizioso che si autoalimenta. Non è affatto tutta speculazione, dunque.
Janet Yellen, boss della Federal Reserve, ha fatto una mezza ammissione nei giorni scorsi sui “rischi di recessione” negli Stati Uniti, mentre la sua politica monetaria diventa sempre più incerta tra propositi di rialzo dei tassi di interesse (oggi ai minimi storici: Zirp) e ambigui annunci di passi indietro se la situazione economica dovesse peggiorare. Intanto, la mossa disperata della Banca Centrale del Giappone che ha portato i tassi di interesse in territorio negativo (Nirp) è nata già morta, mentre la Bce di Draghi si trova in grosse difficoltà visto che il suo Quantitative Easing (cfr. Draghi's Drug) non ha potuto evitare il tracollo delle banche europee.
Insomma, le politiche monetarie delle banche centrali sono agli sgoccioli quanto a (già decrescente) efficacia. Il momento della verità sembra farsi più vicino: salvare con emissione di moneta e quindi ulteriore indebitamento la montagna di debiti su cui è seduta l’economia globale – la ricetta anti-crisi dopo il 2008 – ha provvisoriamente tenuto ma non può reggere per sempre. Il cavallo, la ripresa di investimenti, non ha bevuto nonostante fiumi d’acqua a disposizione, anzi si sono create bolle speculative come e più di prima. E ora i “mercati”, stretti tra inflazione degli asset finanziari e deflazione reale, hanno iniziato a chiedere indietro i soldi. Dopo il lungo rinvio si ripresenta lo spettro di una crisi non di liquidità ma di vera e propria insolvenza.
Se questo quadro verrà confermato nei prossimi mesi, il punto non è se avremo meccanicamente un nuovo 2008 (con la Deutsche Bank al posto della Lehman?) ma come a questa svolta ci arriva l’economia globale, nel suo insieme e nelle sue articolazioni. Quel che è certo è che ci arriva con meno munizioni essendo i bilanci statali già sovraccarichi dei salvataggi di questi anni e, come detto, avendo le banche centrali dilatato al limite gli interventi monetari. Inoltre, se nel 2008-9 la Cina ha potuto fungere da ancora di salvataggio grazie ai margini per politiche espansive, oggi sembra essere parte del problema più che della soluzione – questo al di là delle letture unilaterali e/o esagerazioni sulla crisi in corso (cfr. Crash tutto cinese?). Ancora, non solo il quadro geopolitico è decisamente più esplosivo in un Medio Oriente da sempre termometro delle tensioni internazionali, ma crescono le tensioni fra Washington e i tentativi cinese e russo di costruirsi un circuito economico e finanziario più autonomo dal predominio del dollaro e della finanza nordamericana.
È in questo quadro di contrasti e tensioni che andrebbe inserito questo passaggio della crisi. Gli Usa rispetto al 2008 sono messi relativamente meglio degli altri, avendo maggiormente accorciato la leva finanziaria di banche e fondi, anche se non hanno risolto nessuno dei problemi di fondo. Il punto è che si stanno creando le condizioni favorevoli per un più agevole scarico della crisi innanzitutto sui paesi emergenti (indebitati a breve in dollari e non a caso al centro di una fuga di capitali: la stessa America Latina rischia di ridiventare riserva di caccia dei capitali yankee), nonché su Russia (manovre geopolitiche e finanziarie per far cadere il prezzo del petrolio) e Cina (anche qui fuga di capitali, svalutazione monetaria e perdita di riserve). Ma anche su un’Europa sempre più sfilacciata.
Ciò non toglie che per
Washington ci sono almeno due incognite rilevanti. La prima riguarda la
strategia della Fed. Un aumento dei tassi di interesse sarebbe opportuno
per tutta una serie di ragioni: non restare a corto di munizioni in
caso di recessione, contenere le bolle debitizie ricreatesi dopo il
2008, richiamare risorse verso il dollaro per contrastare i tentativi di de-dollarizzazione cinesi, russi, iraniani,
ma soprattutto provare a controllare la svalorizzazione di capitali
oramai non più rinviabile scaricandola sugli altri soggetti, “alleati” e
avversari. Solo che i contraccolpi negativi di ciò, dal probabile
rafforzamento del trend deflattivo ai fallimenti di imprese con
volatilizzazione dei risparmi e caduta di occupazione e consumi,
difficilmente si limiterebbero all’esterno dato l’intreccio oramai
inestricabile del mercato mondiale. Non è facile tornare a un’economia
del debito meno instabile e precaria (perorata dai dirigenti della Banca dei Regolamenti Internazionali).
Eppure, senza bruciare una parte della montagna di capitale fittizio
che risucchia risorse e impedisce qualsiasi rilancio dell’accumulazione,
il timore che si diffonde oltreoceano è quello di una “stagnazione
secolare”.
In secondo luogo, la strategia Usa di un
nuovo contenimento anti-cinese e anti-russo è una corsa contro il
tempo, a evitare un’eccessiva autonomizzazione delle due potenze. La
stessa svalorizzazione di capitali che si darà deve poter essere
scaricata anche sulla Cina se si vuole preservare il predominio
occidentale. Ciò spiega perché il livello delle provocazioni viene
spinto da Washington sempre più avanti (dall’Ucraina alla Siria, ai mari
dell’Asia Orientale). Ma spiega anche certi azzardi come la guerra
economica sul prezzo del petrolio che sta mettendo a rischio l’Arabia
Saudita e lo stesso circuito dei petrodollari, un meccanismo essenziale
questo, insieme alla subordinazione dell’officina del mondo, al
predominio della finanza a stelle e strisce. Al tempo stesso, la fretta
viene anche da come si stanno mettendo le cose sul fronte interno che,
come sta evidenziando la stessa campagna presidenziale, forse la più
dura da quella del ’68, è sempre più polarizzato e a rischio di
esplosioni sociali in un futuro non troppo remoto. Se Obama ha fallito
nel rivitalizzare per un rilancio dell’Impero il fronte interno
“progressista”, il prossimo presidente, democratico o repubblicano,
dovrà passare all’offensiva facendo leva sulla difesa nazional-“sociale”
dell’american people.
Se le cose stanno così, a questo giro l’Europa rischia grosso. Non solo per il trilione di crediti deteriorati (un quinto e più italici, suggeriscono i... gufi) a fronte di una ripresa che si allontana. Ma per le crescenti divisioni che una Germania indebolita da ripetuti “fuochi amici” (affare Snowden, Ucraina, ricatto sui profughi siriani con polarizzazione interna e indebolimento di Merkel, scandalo Volkswagen, ora la DB…) sempre meno riesce a contenere. Borghesie meschine in concorrenza reciproca pronte a fare gli utili idioti dello zio d’America e un proletariato passivo e sempre più chiuso su dimensioni nazionali e subnazionali, completano il quadro desolante. Renzi – tanto vuoto di sostanza quanto buon galleggiatore che approfitta delle nullità che lo circondano – l’ha capito e ha iniziato a pigiare il tasto antitedesco. Unica strada che gli resta visto che non solo non è migliorata affatto la situazione del capitalismo italico (il jobs act non ha creato occupazione ma solo regalato soldi e potere d’arbitrio a imprenditori incapaci di investire mentre la sottocapitalizzazione e il clientelismo politico-familiare delle banche è sotto gli occhi di tutti) ma la crisi che avanza spazzerà via gli escamotage di bilancio fin qui usati per continuare a campare e metterà a serio rischio i risparmi del “ceto medio” e dunque quel welfare familistico che ha attutito fin qui i colpi del declassamento sociale e internazionale.
Sono appunto i nodi che, con ancora maggiore drammaticità, si presenteranno in questa fase. Uno: la ripresa dei toni anti-tedeschi, buoni per tutti i palati, di destra e di sinistra, europeisti e anti-europeisti; non che Berlino non se li meriti ma il piccolo problema è che servono a coprire le responsabilità nazionali/ste e i giochi di Washington. Ma far capire questo è senza speranza, dovremo passarci attraverso. Due: è iniziata la tosatura in grande dei risparmi dei ceti medi occidentali (le misere vicende bancarie italiche ne sono solo un piccolo segnale), il che in prima battuta darà luogo a reazioni confusissime “nazional-sociali” dentro le quali, a date condizioni, si può però riaprire un discorso di classe a patto di sapervi vedere i nodi di fondo di un capitalismo sempre più distruttivo e sempre che il proletariato non continui a dormire. Ne verrà ridisegnata sia la nuova composizione sociale del lavoro sia la soggettività delle lotte (movimenti diversissimi come il No Tav e i forconi potrebbero essere in qualche modo un’anticipazione di dinamiche a venire assai più esplosive). Terzo: ritorna in forza il tema guerra dell’Occidente contro... terroristi (mostri buoni per tutte le stagioni) e soprattutto “dittatori” che attentano alle nostre “libertà”. La Libia è vicina: si tratterà di tornare sul tema, vecchio ma sempre nuovo, di cosa è l’imperialismo.
14 febbraio 2016
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