L’economista Marcello De Cecco è morto ieri, a Roma. Nato a Lanciano nel 1939, ha insegnato in vari atenei italiani ed esteri, tra cui Norwich, Siena, la Scuola Normale di Pisa e la Luiss di Roma. Raffinato interprete della storia della moneta e della finanza, De Cecco conquistò uno spazio nella ricerca accademica internazionale per i suoi contributi alla comprensione del funzionamento del «gold standard», il sistema aureo vigente fino alla prima guerra mondiale. Il suo Money and Empire, pubblicato nel 1974 da Basil Blackwell, è considerato un esempio di analisi storico-critica dei rapporti tra moneta e potere economico, fondata su un’interpretazione rigorosa delle fonti documentali ed espressamente scettica verso ogni tentativo di esaminare le relazioni economiche internazionali in base a teoremi astratti e decontestualizzati.
In quest’ottica De Cecco ha avanzato spesso obiezioni verso la tradizione di pensiero economico dominante, sostenitrice dei cosiddetti «meccanismi di aggiustamento automatico», secondo i quali le forze spontanee del mercato dovrebbero essere in grado di garantire l’equilibrio degli scambi commerciali e finanziari tra i diversi paesi. Per gli esponenti di questa visione, il funzionamento del gold standard era garantito dal meccanismo spontaneo secondo cui, per esempio, l’eccesso di importazioni di un paese avrebbe dato luogo a un deflusso d’oro tale da generare un calo di domanda interna e quindi dei prezzi nazionali, con conseguente aumento della competitività e riequilibrio tra import ed export.
Tale meccanismo, per De Cecco, in realtà non ha mai avuto rilevanza concreta. A suo avviso, piuttosto, le relazioni economiche tra paesi sono strutturate su basi perennemente squilibrate, imperialistiche, condizionate dalle scelte politiche e finanziarie dei governi e dipendenti in ultima istanza dai rapporti di forza tra capitalismi nazionali. In questo senso De Cecco ha suggerito che il gold standard prebellico poté sopravvivere solo fino a quando l’Impero britannico fu in grado di imporre uno specifico regime di governo coloniale dei flussi finanziari internazionali, in base al quale l’India avrebbe dovuto assorbire i titoli del debito emessi dalla Gran Bretagna per coprire il proprio disavanzo estero.
Una concezione basata su meccanismi di aggiustamento automatico è stata, in fin dei conti, anche alla base della fiducia con cui molti economisti accolsero la nascita della moneta unica europea. Questa visione semplicistica, potremmo dire «idraulica», del funzionamento dell’Unione monetaria europea, è sempre stata criticata da De Cecco, il quale anche al caso dell’euro ha applicato i suoi complessi schemi di lettura storica dei rapporti economici internazionali. In particolare, egli ha più volte segnalato che la tendenza della Germania ad accumulare surplus commerciali verso l’estero genera il paradosso di un paese egemone che, anziché svolgere il ruolo tradizionale di creatore e diffusore della moneta all’interno del sistema che esso domina, tende piuttosto a risucchiarla presso di sé: una contraddizione che non ha precedenti nella storia dei regimi monetari, e che pregiudica la sostenibilità futura del processo di unificazione europea.
I dubbi manifesti sull’efficacia dei meccanismi di aggiustamento automatico interni all’Unione monetaria non hanno tuttavia mai indotto De Cecco a contestare il progetto europeo. Membro del consiglio degli esperti economici dei governi Prodi e D’Alema negli anni Novanta, tra i fondatori del Partito Democratico nel 2007, De Cecco ha condiviso fino in fondo il percorso politico che ha legato i destini della sinistra di governo italiana alle speranze di successo dell’integrazione europea. Anche quando nel 2010 fu tra i firmatari di una lettera di trecento economisti che evocava la possibilità di una rottura dell’eurozona, in privato De Cecco contestò ai suoi promotori, tra cui il sottoscritto, una frase finale del documento che esplicitamente contemplava una opzione politica di uscita di uno o più paesi dalla moneta unica.
La sua estrema sfiducia verso un’opzione del genere era fondata sul timore che un abbandono dell’euro sfociasse semplicemente in un mero deprezzamento del cambio, magari lasciato alle forze erratiche del mercato: una soluzione che a suo avviso avrebbe solo favorito quegli spezzoni di piccolo capitalismo, arretrato e talvolta parassitario, sui quali non riteneva possibile fondare alcuna reale speranza di sviluppo economico ed emancipazione civile del paese.
Tale conclusione, tuttavia, non colloca l’economista di origine abruzzese tra i rassegnati alle lacrime e al sangue dell’attuale processo di integrazione europea. Sia pure con discrezione e senza clamori, Marcello De Cecco ha sempre portato avanti, in accademia e in campo divulgativo, una tesi assolutamente eretica e controcorrente: vale a dire l’idea di avviare una riflessione critica sugli effetti della indiscriminata apertura ai movimenti internazionali di capitali e di merci, e di immaginare delle ipotesi di ripristino di forme coordinate di controllo degli scambi tra paesi.
Nella introduzione al suo ultimo libro, nel 2013, egli giunse a scrivere che l’aver screditato e messo da parte per più di un cinquantennio soluzioni come il protezionismo e la regolamentazione degli scambi «come se si trattasse di pulsioni peccaminose e indegne di una nuova e superiore organizzazione internazionale, è stato colpevole e persino stupido, perché in forma blanda esse dovevano rimanere in voga» mentre oggi ci si ritrova a ripristinarle «velocemente e in dosi assai maggiori, senza usufruire dei vantaggi che sarebbero derivati da dosi moderate, e correndo in pieno il pericolo di precipitare il mondo intero in un nuovo disordine internazionale» (Ma che cos’è questa crisi, Donzelli). La sgradevole sensazione di trovarsi in un periodo di profondo riflusso verso il nazionalismo e il razzismo come eterogenesi dei fini del globalismo e dell’europeismo acritico degli anni passati.
Uno spunto su cui sarebbe utile riflettere, specie a sinistra.
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