Vedere qualche comizio di Trump,
analizzare qualche video, leggere qualche citazione del miliardario
americano è quanto di più facile per un italiano. Venti anni di Berlusconi
in politica rappresentano una scatola degli attrezzi unica per leggere
il rapporto tra politica e spettacolo. Specie quando quest’ultimo entra
direttamente in politica facendosi potere reale. Del resto Trump è sia produttore che conduttore televisivo, oltre che un big dell’investimento immobiliare americano.
La sua capacità di creare e sviluppare brand, per quanto eccessivi e
pacchiani ma sempre di successo, affonda nei dorati e reaganiani anni
’80. Trump ha anche investito nel wrestling: questo per dire che, lui, il linguaggio dell’America profonda lo conosce benissimo e persino contribuisce a scriverlo.
Trump è il prodotto sia della crisi che delle scosse di rinnovamento della destra americana. Ha travolto la vecchia destra fondamentalista religiosa, di cui Rubio e Cruz rappresentano pallidi epigoni, e messo in crisi il potere familista dei Bush.
Il suo discorso politico è di destra, indubitabilmente, ma parla quel
linguaggio universalizzante che gli americani, e non solo, conoscono
benissimo: quello del denaro. Senza il Tea party, il movimento della destra di base americana in risposta alla prima vittoria di Obama, probabilmente lo slogan di Trump “fare l’America di nuovo grande”,
suonerebbe meno forte. Perchè il Tea Party, per la destra repubblicana,
a suo tempo ha rilanciato i temi del “rendere di nuovo forte
l’America”, i suoi valori fondativi.
A differenza però dei leader della stagione del Tea Party, Trump non si incarta nel fondamentalismo religioso:
riproprone i valori di destra, e anche di destra libertaria, entro una
nuova possibile stagione di taglio delle tasse e di fioritura degli
investimenti privati. Il linguaggio più generalista e unificante possibile oggi, anche rispetto alla religione: quello dei soldi che arrivano.
In questo senso siamo al primo Berlusconi, quello del miracolo
italiano. Ma se è chiaro il contorno del bacino elettorale in cui pesca
Trump, un elettorato repubblicano che vuol credere di nuovo nel sogno
americano, sono meno chiari i motivi per cui mette a bersaglio i
trattati, tipici della globalizzazione economica e finanziaria, del Ttip
e l’accordo di libero scambio del Pacifico. Ma perché Trump attacca
bersagli che sembrano più attaccabili in una stagione genere Occupy Wall
Street? Semplicemente perché cavalca le tendenze
protezionistiche che emergono ogni volta che il liberismo, il
liberoscambismo globale mostra delle crisi assieme alle borse.
E’ già accaduto in tutto il mondo, ad esempio, dopo la crisi del ’29,
si ripropone oggi. Certo, come si possa applicare il protezionismo oggi,
in modo efficace e senza sinistrare l’economia mondiale, è davvero
questione complessa. Ma per Trump è già risolta visto che parla, con scioltezza, agli sconfitti della globalizzazione ai quali chiede il voto.
Ma dove si trovano questi sconfitti? Andiamo a vedere un lavoro, nel quale ha collaborato anche il MIT, di tre autori americani (Autor, Dorn, Hanson) The China Syndrome: Local Labor Market Effects of Import Competition in the United States dove si comprende non solo il successo scientifico di questo testo, ma anche gli effetti devastanti, per la working-class
americana, di uno degli aspetti della globalizzazione ovvero la
liberalizzazione dell’import cinese: crescita impetuosa della
disoccupazione e corsa al ribasso salariale. La “sindrome cinese”
da sola spiega almeno un quarto dei posti persi dall’industria
americana grazie ai processi di globalizzazione degli ultimi venticinque
anni. Non a caso Trump, che ha un passato di dichiarazioni favorevoli
al peggior liberoscambismo, per farsi una posizione protezionista, e
quindi popolare, ha attaccato, a suo tempo, proprio la Cina.
E ora attacca Ttip (trattato di libero scambio UE-USA) e trattato del Pacifico.
Oggi ovviamente non ha alcun senso la predizione su cosa accadrebbe in
caso di presidenza Trump. Ha importanza invece capire in quale fenomeno
materiale pesca la sua campagna elettorale fatta col linguaggio di chi
conosce l’America e i suoi linguaggi: nel mare grosso degli sconfitti
della globalizzazione. Delle vittime della sindrome cinese e delle altre
sindromi che vagano per gli Usa. L’”America di nuovo grande” è
il sogno, riproposto col linguaggio dei talk show e del wrestling, del
piccolo mondo antico dove tutti commerciavano e lavoravano. Prima che
arrivasse il pericolo da Oriente, dal Messico dai musulmani. Si
tratta di far tornare il mondo come era: nell’elettorato repubblicano il
messaggio funziona, e pesca in fenomeni reali, vedremo quanto
funzionerà alle presidenziali.
Lo scontro Clinton-Trump si propone così, plasticamente, come quello che si delinea tra due differenti reazioni alla globalizzazione. Quello di Trump, prodotto del reaganismo e della deregulation in ogni settore, che oggi invoca il protezionismo e chiama a raccolta gli sconfitti della globalizzazione in Usa. Quello di Hillary Clinton – che dal 1999 può vantare certificate donazioni di Morgan Stanley, Goldman Sachs, J.P Morgan e, finchè era operante, Lehman Brothers – che promuove gli interessi della principale industria americana: la finanza globale. La
Clinton, oltre a Wall Street, troverà alleati negli impauriti da Trump e
in coloro che temono di perdere ciò che è in piedi dello stato sociale
americano a causa del ritorno dei repubblicani. Così le classi
subalterne che voteranno a novembre, nel solito mare di astenuti,
potranno dividersi in due grandi schieramenti: quelle che scommettono
sul sogno dell’America ripristinata con i repubblicani e quelle che
invece scommettono sul mantenimento dei residui di stato sociale con i
democratici.
Oggi è davvero inutile fare pronostici su cosa accadrà a novembre. Per
fare un esempio, pochi giorni prima di Lehman Brothers, nell’estate del
2008, John McCain era, di poco, avanti nei sondaggi nei confronti di
Obama. Dopo Lehman Brothers, il crollo di McCain, indicato come
candidato dell’establishment, a favore di Barack Obama, indicato come
candidato del rinnovamento. Da oggi a novembre può davvero accadere di
tutto per favorire uno o l’altro candidato. Visto che anche i sondaggi,
almeno quelli che si leggono, si basano sugli scenari dell’oggi non su
scenari ipotetici.
E’ certa però una cosa. Già intravista con le varie stagioni di candidatura di Marine Le Pen.
Le destre quando parlano agli sconfitti della globalizzazione si
trovano a loro agio. Linguaggio diretto, comprensibile. Soluzioni
orribili ma espresse in modo chiaro, che fa effetto su un
immaginario reale, in modo capace di diffondere consenso. Trump in
questo senso, visto il ruolo dell’immaginario americano in occidente, è
ancora più paradigmatico della Le Pen. Perchè usa degli archetipi che
sono si americani ma adattabili ad ogni contesto delle nostre società.
Tanto che l’Italia, con Berlusconi li ha abbondantemente anticipati come
strumenti di soluzione politica di una crisi sistemica precedente:
quella contenuta nel crack della lira entro il sistema monetario europeo
nel 1992. Oggi questo tipo di populismo, dopo un quarto di secolo di
globalizzazione, mostra un volto tanto ridicolo, enfatizzato dai
comportamenti di Trump, quando efficace e popolare dal punto di vista
comunicativo. E con una solida base argomentativa chiamata crisi e con
il bacino di consenso di vaste platee di esclusi. Questa infografica
sull’ineguaglianza reale dei redditi in USA e quella percepita, nel
2012, chiarisce cosa significhi esclusione in quel paese.
Trump oggi sta avvicinando una parte di Usa ad allineare ineguaglianza reale e percepita. Con una differenza: la
promessa, contenuta nello show, che una volta messe le barriere
protezionistiche giuste ognuno ritroverà il suo lavoro perduto.
Se c’è un testo che, più di altri, ha preceduto l’incedere glorioso della campagna 2008 di Obama è Dreams di Stephen Duncombe (2007).
Duncombe dice espressamente che, negli anni che hanno preceduto la
stesura del suo testo, la destra è stata capace di produrre quel genere
di immaginazione che vuol farsi realtà. Lo spettacolo della
concretizzazione dei sogni che contiene tre pilastri della comunicazione
che fa legame sociale nel mondo contemporaneo: spettacolo, sogni e concretezza.
Trump, a modo suo, gioca su questi registri rileggendo il sogno che “le
cose tornino come erano prima”. Anche questo un linguaggio spiazzante
per delle sinistre che, su qualsiasi piano si collochino, fanno molta
fatica ad abitare politicamente il mondo contemporaneo. Lo
spettro di Trump, come altri prima di lui, aiuterà un pò queste sinistre
a rilegittimarsi, come antidoto contro la barbarie che viene dagli Usa,
ma non a risolvere la questione principale. Come parlare e
organizzare le masse di esclusi dalla globalizzazione, fenomeno che ha
messo in crisi anche le classi medie, che hanno naturalizzato linguaggio
e comportamenti ora impolitici ora di destra.
Per Senza Soste, nique la police
3 marzo 2016
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