Gli “intellettuali” italiani, se non ci fossero, bisognerebbe inventarli. Dopo aver gridato allo scandalo mondiale per la paventata fusione tra Mondadori e Rizzoli, oggi tacciono compiaciuti di fronte alla fusione tra L’Espresso-Repubblica e La Stampa (nonché un’altra miriade di giornali locali e Il secolo XIX). Che, ovviamente, non è solo il matrimonio incestuoso tra due big dell’informazione mainstream, ma
il suggello di un vortice di interessi comuni che assumono da oggi la
veste organica di un polo dell’informazione senza precedenti.
Il
problema non sta tanto nel monopolio concreto dell’informazione
generalista che controllerà il nuovo gruppo guidato da De Benedetti,
anche se una certa “intellettualità” scossa dalla minaccia di “mondazzoli”
avrebbe dovuto fare barricate in nome della libertà d’opinione
stroncata di fatto da questa alleanza.
L’informazione è un’industria
come un’altra, che tende inevitabilmente all’accentramento di capitali e
di risorse. Il problema è la visione organica del mondo formata dal
principale gruppo industriale del paese, la Fiat della famiglia Agnelli,
il principale quotidiano del paese, La Repubblica, organo ufficioso del principale partito del paese, il Pd.
In altre parole da oggi il capitale egemone del paese, il partito di
riferimento e i suoi strumenti di controllo dell’opinione pubblica, sono
organicamente fusi in un’unica azienda. Nei fatti, anche qui, la novità
non sta tanto nell’emersione plateale di interessi comuni, tanto
economici quanto politici, ma nel fatto che questi non necessitano più
di un mascheramento per essere portati avanti.
La Repubblica non ha più
l’esigenza di presentarsi come quotidiano avverso in qualche modo ai
poteri forti, “alternativo”, “d’élite”, così come il Partito democratico
non ha più il bisogno di presentarsi come partito “di sinistra”,
“progressista” e, allo stesso modo, il capitale transnazionale italiano
non sente più la necessità di mascherare i propri referenti politici
(che, guarda il caso, sono tutti centrosinistri). Perché continuare in
tale opera di camuffamento se nessuna opposizione sente l’impellente
bisogno di indagare i rapporti tra grande capitale e politica? O, per
meglio dire, se nessuno valuta negativamente tali rapporti di
potere, giudicati quantomeno secondari per decretare la posizione di un
soggetto politico?
Oggi “scopriamo” che gli interessi di Marchionne,
Agnelli, Repubblica e Pd sono convergenti. Grazie al cazzo, direte voi.
Eppure per anni chi cercava di svelarne le contiguità veniva accusato di
complottismo o, per altri versi, di ideologismo sorpassato dalla
post-modernità. E invece, come volevasi dimostrare, i poteri economici
si servono di una specifica visione del mondo, quella liberale del Pd e
Repubblica, per controllare meglio opinione pubblica e corpi intermedi
della società, d’altronde ormai completamente assuefatti al dominio
ideologico di classe. Quegli stessi interessi che hanno costruito
l’ideologia dell’europeismo, fuori dalla quale continuano a menarcela
con la catastrofe o i populismi para-nazisti alle porte fermati solo da
Junker e Renzi.
Nessuno sembra chiedersi in questi giorni come può darsi
un tale intreccio di poteri, che impedisce sul nascere ogni possibile
inchiesta, critica o valutazione sulla principale industria del paese.
Peraltro, il fatto che Rcs un minuto prima (in realtà ancora oggi e
chissà per quanto altro tempo, sebbene abbia dichiarato l’uscita dal
patto sindacale) controllasse l’altro grande organo informativo
italiano, il Corriere della Sera, sembra non destare scandalo. Ma come, i due quotidiani concorrenti e apparentemente su
posizioni diverse sono di fatto controllati economicamente dallo stesso
intreccio di poteri, e la cosa non suscita neanche uno scandalino?
Neanche, per dire, qualche appello pubblico, una raccolta firme, un
girotondo annoiato, un Moretti che sale sulle barricate in compagnia del
corpo ancora caldo di Eco, un Flores D’Arcais imbavagliato al cavallo
di viale Mazzini? Gli intellettuali italiani…
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