Per anni le destre brasiliane e gli ambienti oligarchici del più importante paese latinoamericano hanno fatto buon viso a cattivo gioco, tentando di darsi una ripulita e di adottare metodi e linguaggi meno truculenti. La situazione – l’egemonia dei partiti di sinistra e centrosinistra, l’economia in crescita, una società giovane ed entusiasta dell’improvviso boom – lo richiedevano. Ma con l’esplodere della crisi economica e dell’inflazione – causate non solo da errori di gestione da parte del governo brasiliano ma anche dal crollo del prezzo del petrolio e dalla crisi complessiva dei Brics che hanno ridotto gli investimenti e i progetti di sviluppo coordinati – le classi medie e la borghesia nazionale hanno cominciato a manifestare sempre più la loro insofferenza verso i ‘rossi’ al governo. E lo hanno fatto rispolverando i vecchi arnesi ideologici, i vecchi eroi, i vecchi slogan.
Da mesi le manifestazioni contro il governo e la presidente Rousseff organizzate dalle destre reazionarie cavalcano l’onda della lotta contro la corruzione nonostante siano proprio i deputati e i dirigenti dei partiti dell’opposizione – e di alcune forze che hanno a lungo fatto parte del governo e che ora sono passate dalla parte dei fautori dell’impeachment – i maggiori responsabili di un fenomeno che certo coinvolge anche settori interni al PT. Nel corso di queste manifestazioni, dei comizi dell’opposizione dentro e fuori le aule parlamentari, negli interventi in televisione, gli appelli all’intervento salvifico e risolutore dell’esercito si sono fatti sempre più numerosi.
L’ultimo inno ai militari, alla dittatura e alla repressione, forse il più esplicito da quando è iniziato il tentativo di spallata sciovinista nei confronti di Dilma Rousseff, è stato pronunciato domenica scorsa da Jair Bolsonaro nel corso del dibattito parlamentare sfociato poi in un voto schiacciante – 367 contro 137 – a favore della destituzione della presidente che durante il regime fascista che ha dominato il paese dal 1964 al 1985 fu arrestata e torturata da quegli aguzzini che in molti attualmente rimpiangono e incensano. “Hanno (la sinistra) perso nel '64, perdono adesso nel 2016. Per la famiglia, contro il comunismo, per la nostra libertà, in memoria del colonnello Carlos Alberto Brilhante Ustra, il terrore di Dilma Rousseff. Il mio voto è si!” ha detto in aula Bolsonaro – eletto nel Partito Pregressista ma poi passato al Partito Cristiano Sociale – inneggiando a uno dei più noti e feroci torturatori attivi durante la dittatura militare.
La presidente Dilma Rousseff ha definito “pietoso vedere un deputato votare rendendo omaggio al più grande torturatore che il Brasile abbia conosciuto”, morto nell’ottobre dello scorso anno alla veneranda età di 83 anni. “Trovo che sia pietoso! Sono stata incarcerata negli anni ’70 e ho conosciuto bene questo signore al quale (Bolsonaro) si riferisce. Era il più grande torturatore dell’epoca ed è anche responsabile di diversi morti” ha ricordato la leader del PT. Carlos Alberto Brilhante Ustra era infatti il responsabile degli aguzzini del regime a San Paolo fra il 1970 e il 1974, responsabile almeno di una sessantina di morti e desaparecidos stando ai lavori della “commissione Verità” istituita nel maggio del 2012 per indagare sui crimini compiuti dalla dittatura.
Intanto procede l’iter per la destituzione della presidente; dopo il voto della Camera di domenica notte ora la palla passa alla speciale commissione del Senato – composta da 21 parlamentari e altrettanti supplenti eletti in maniera proporzionale tra tutte le forze politiche presenti nell’emiciclo – che dovrà decidere se archiviare la richiesta di impeachment oppure se dare avvio alla procedura anche nel secondo ramo del parlamento federale. Se la commissione, a maggioranza, dovesse dire sì alla richiesta delle destre, la presidente sarà sospesa per un periodo di 180 giorni durante i quali sarà sostituita dall’attuale suo vice Michel Temer, esponente del Partito del Movimento Democratico del Brasile e a sua volta accusato di corruzione. Dopo un’istruttoria gestita dal presidente della Corte Costituzionale Ricardo Lewandowski, gli 81 senatori dovranno votare, anche in questo caso con una maggioranza dei due terzi.
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