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27/04/2016

Libia, i potenti alle grandi manovre

di Michele Paris

Il vertice di lunedì ad Hannover tra il presidente americano Obama e i leader di Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia, ha contribuito a fare maggiore luce sui progetti occidentali per un nuovo intervento militare in Libia a cinque anni dalla campagna di bombardamenti risoltasi con la devastazione dell’economia e della società del paese nord-africano. Le preoccupazioni dei governi che stanno predisponendo i piani di intervento questa volta riguarderebbero principalmente il flusso di migranti provenienti dal territorio libico e diretti verso l’Europa.

Finora, l’Unione Europea si è occupata di monitorare le acque internazionali del Mediterraneo centrale attraverso la cosiddetta Operazione Sofia, ma l’obiettivo è quello di avere accesso anche alle acque libiche, in modo da rendere più efficace la guerra ai trafficanti di disperati. La “missione” prevista in Libia dovrebbe avere però contorni anche più ampi, con il possibile impiego di soldati occidentali nel paese, e sarà approvata nel corso del summit NATO in programma il 7 luglio prossimo a Varsavia.

Il ministro della Difesa italiano, Roberta Pinotti, ha assicurato che la proposta di coordinare il pattugliamento del Mediterraneo tra l’UE e la NATO, attualmente impegnata più a est, nel Mar Egeo, in funzione anti-migranti, sarà finalizzata nella capitale polacca.

L’Operazione Sofia è limitata alla raccolta di informazioni sulle rotte dei trafficanti di esseri umani e al soccorso delle imbarcazioni in difficoltà. I vincoli a un intervento più incisivo e che copra le acque territoriali libiche, se non addirittura le coste di questo paese, sono rappresentati dall’assenza sia di una risoluzione ONU che lo autorizzi sia di una richiesta formale del governo di Tripoli.

La prima condizione risulta complicata a causa dell’opposizione quanto meno della Russia, la quale intende evitare una ripetizione della vicenda del 2011, quando gli USA e i loro alleati manipolarono una risoluzione del Consiglio di Sicurezza per avviare una campagna di bombardamenti sulla Libia e facilitare la rimozione del regime di Gheddafi.

Un “invito” all’intervento da parte del governo libico appare invece possibile, visto che i governi occidentali sono riusciti a creare un governo riconosciuto dall’ONU, sia pure senza alcuna base di potere nel paese, al preciso scopo di indurlo a richiedere assistenza militare esterna e legittimare così una nuova “missione” nel paese.

Tuttavia, il gabinetto, guidato dal “tecnico” Fayez al-Sarraj, come ha spiegato il Guardian usando un evidente eufemismo, “fatica a conquistarsi una qualche autorità politica”, ma ha comunque già chiesto aiuto all’Occidente per proteggere i pozzi petroliferi libici dallo Stato Islamico (ISIS). Sarraj ha ottenuto l’approvazione formale di uno dei due governi che hanno autorità sulla Libia, quello con sede a Tripoli e appoggiato, tra gli altri, dalle milizie islamiste, mentre quello teoricamente filo-occidentale di Tobruk non ha ancora proceduto in questo senso.

Le difficoltà con cui il governo sostenuto dall’ONU deve fare i conti dipendono in sostanza dal pochissimo entusiasmo di una parte della classe dirigente libica e della maggioranza della popolazione del paese per un nuovo intervento militare occidentale.

Una nuova avventura per “stabilizzare” il paese che fu di Gheddafi avrebbe d’altra parte come reale obiettivo il controllo delle risorse energetiche libiche. A livello ufficiale, però, le ragioni di un eventuale intervento devono essere presentate in forma differente.

Principalmente, gli obiettivi dovrebbero essere la già ricordata campagna contro il traffico di clandestini diretto verso l’Europa e, facendo ricorso a una strategia ampiamente utilizzata dagli USA per giustificare la presenza di loro uomini sul territorio di paesi sovrani, l’addestramento di un esercito indigeno impreparato.

Per quanto riguarda lo stop ai barconi degli immigrati, i timori sarebbero legati al possibile riversarsi verso le coste nordafricane dei flussi attraverso la Turchia ostacolati dal vergognoso, e con ogni probabilità illegale, accordo siglato dall’UE con il regime di Ankara al prezzo di 3 miliardi di euro.

Dopo il summit di Hannover sono circolate notizie circa l’impegno dei governi coinvolti nella nuova missione libica. Roma ha smentito l’ipotesi di inviare 900 uomini in Libia, anche se, come ha scritto La Repubblica, “di sicuro nei piani della Difesa sono stati previsti impegni anche superiori” a questo numero, “ma non in questa fase”. L’Italia sarebbe per ora pronta a “guidare 250 uomini delle Nazioni Unite, fornendo un contingente di 50 militari fra Esercito e Carabinieri”.

Gli altri partner europei hanno poi a loro volta confermato la disponibilità a inviare propri soldati in Libia. La Cancelliera Merkel, dopo l’incontro con Obama, ha lasciato intendere che la Germania è pronta a fare la propria parte all’interno di una missione patrocinata dalla NATO.

Lo stesso governo americano non intende restare fuori dalla nuova corsa alla Libia, nonostante abbia tutto l’interesse a delegare le principali responsabilità delle operazioni ai partner NATO. Lunedì è apparsa infatti la notizia che le navi da guerra americane potrebbero far parte delle pattuglie al largo delle coste libiche che verrebbero dispiegate di qui a pochi mesi.

Domenica, inoltre, il ministro degli Esteri britannico, Philip Hammond, ha detto di non potere escludere l’invio di “forze da combattimento” nel paese nordafricano per combattere la crescente minaccia dell’ISIS. Per il ministro, la richiesta dovrebbe giungere dal nuovo governo “di unità nazionale” da poco installatosi a Tripoli e la questione sarebbe comunque vincolata all’approvazione del Parlamento di Londra.

A completare l’elenco di dichiarazioni di solidarietà ben poco disinteressate alla Libia è stato il ministro della Difesa francese, Jean-Yves le Drian, il quale in un’intervista alla radio Europe 1 ha garantito che il governo Socialista di Parigi è “pronto” ad aiutare quello di Tripoli e a impegnarsi per la “sicurezza marittima” della Libia.

Retorica a parte, ciò che appare evidente è l’esistenza di piani di intervento su larga scala pronti da tempo, nonché dalla portata decisamente maggiore rispetto a poche centinaia di uomini con incarichi limitati all’addestramento, che attendono solo una qualche sanzione pseudo-legale per essere implementati.

In definitiva, il processo a cui si sta assistendo, in teoria per il bene della Libia, continua a essere modellato unicamente dagli interessi dei governi occidentali e non certo da quelli di una popolazione che ha già sperimentato sulla propria pelle le conseguenze disastrose dell’intervento “umanitario” del 2011.

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