di Michele Paris
Il vertice di lunedì ad Hannover tra il presidente americano Obama e i
leader di Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia, ha contribuito a
fare maggiore luce sui progetti occidentali per un nuovo intervento
militare in Libia a cinque anni dalla campagna di bombardamenti
risoltasi con la devastazione dell’economia e della società del paese
nord-africano. Le preoccupazioni dei governi che stanno predisponendo i
piani di intervento questa volta riguarderebbero principalmente il
flusso di migranti provenienti dal territorio libico e diretti verso
l’Europa.
Finora, l’Unione Europea si è occupata di monitorare le
acque internazionali del Mediterraneo centrale attraverso la cosiddetta
Operazione Sofia, ma l’obiettivo è quello di avere accesso anche alle
acque libiche, in modo da rendere più efficace la guerra ai trafficanti
di disperati. La “missione” prevista in Libia dovrebbe avere però
contorni anche più ampi, con il possibile impiego di soldati occidentali
nel paese, e sarà approvata nel corso del summit NATO in programma il 7
luglio prossimo a Varsavia.
Il ministro della Difesa italiano,
Roberta Pinotti, ha assicurato che la proposta di coordinare il
pattugliamento del Mediterraneo tra l’UE e la NATO, attualmente
impegnata più a est, nel Mar Egeo, in funzione anti-migranti, sarà
finalizzata nella capitale polacca.
L’Operazione Sofia è limitata
alla raccolta di informazioni sulle rotte dei trafficanti di esseri
umani e al soccorso delle imbarcazioni in difficoltà. I vincoli a un
intervento più incisivo e che copra le acque territoriali libiche, se
non addirittura le coste di questo paese, sono rappresentati
dall’assenza sia di una risoluzione ONU che lo autorizzi sia di una
richiesta formale del governo di Tripoli.
La prima condizione
risulta complicata a causa dell’opposizione quanto meno della Russia, la
quale intende evitare una ripetizione della vicenda del 2011, quando
gli USA e i loro alleati manipolarono una risoluzione del Consiglio di
Sicurezza per avviare una campagna di bombardamenti sulla Libia e
facilitare la rimozione del regime di Gheddafi.
Un “invito”
all’intervento da parte del governo libico appare invece possibile,
visto che i governi occidentali sono riusciti a creare un governo
riconosciuto dall’ONU, sia pure senza alcuna base di potere nel paese,
al preciso scopo di indurlo a richiedere assistenza militare esterna e
legittimare così una nuova “missione” nel paese.
Tuttavia, il gabinetto, guidato dal “tecnico” Fayez al-Sarraj, come ha spiegato il Guardian usando
un evidente eufemismo, “fatica a conquistarsi una qualche autorità
politica”, ma ha comunque già chiesto aiuto all’Occidente per proteggere
i pozzi petroliferi libici dallo Stato Islamico (ISIS). Sarraj ha
ottenuto l’approvazione formale di uno dei due governi che hanno
autorità sulla Libia, quello con sede a Tripoli e appoggiato, tra gli
altri, dalle milizie islamiste, mentre quello teoricamente
filo-occidentale di Tobruk non ha ancora proceduto in questo senso.
Le
difficoltà con cui il governo sostenuto dall’ONU deve fare i conti
dipendono in sostanza dal pochissimo entusiasmo di una parte della
classe dirigente libica e della maggioranza della popolazione del paese
per un nuovo intervento militare occidentale.
Una nuova avventura
per “stabilizzare” il paese che fu di Gheddafi avrebbe d’altra parte
come reale obiettivo il controllo delle risorse energetiche libiche. A
livello ufficiale, però, le ragioni di un eventuale intervento devono
essere presentate in forma differente.
Principalmente, gli obiettivi dovrebbero essere la già ricordata
campagna contro il traffico di clandestini diretto verso l’Europa e,
facendo ricorso a una strategia ampiamente utilizzata dagli USA per
giustificare la presenza di loro uomini sul territorio di paesi sovrani,
l’addestramento di un esercito indigeno impreparato.
Per quanto
riguarda lo stop ai barconi degli immigrati, i timori sarebbero legati
al possibile riversarsi verso le coste nordafricane dei flussi
attraverso la Turchia ostacolati dal vergognoso, e con ogni probabilità
illegale, accordo siglato dall’UE con il regime di Ankara al prezzo di 3
miliardi di euro.
Dopo il summit di Hannover sono circolate
notizie circa l’impegno dei governi coinvolti nella nuova missione
libica. Roma ha smentito l’ipotesi di inviare 900 uomini in Libia, anche
se, come ha scritto La Repubblica, “di sicuro nei piani della Difesa
sono stati previsti impegni anche superiori” a questo numero, “ma non in
questa fase”. L’Italia sarebbe per ora pronta a “guidare 250 uomini
delle Nazioni Unite, fornendo un contingente di 50 militari fra Esercito
e Carabinieri”.
Gli altri partner europei hanno poi a loro volta
confermato la disponibilità a inviare propri soldati in Libia. La
Cancelliera Merkel, dopo l’incontro con Obama, ha lasciato intendere che
la Germania è pronta a fare la propria parte all’interno di una
missione patrocinata dalla NATO.
Lo stesso governo americano non
intende restare fuori dalla nuova corsa alla Libia, nonostante abbia
tutto l’interesse a delegare le principali responsabilità delle
operazioni ai partner NATO. Lunedì è apparsa infatti la notizia che le
navi da guerra americane potrebbero far parte delle pattuglie al largo
delle coste libiche che verrebbero dispiegate di qui a pochi mesi.
Domenica,
inoltre, il ministro degli Esteri britannico, Philip Hammond, ha detto
di non potere escludere l’invio di “forze da combattimento” nel paese
nordafricano per combattere la crescente minaccia dell’ISIS. Per il
ministro, la richiesta dovrebbe giungere dal nuovo governo “di unità
nazionale” da poco installatosi a Tripoli e la questione sarebbe
comunque vincolata all’approvazione del Parlamento di Londra.
A
completare l’elenco di dichiarazioni di solidarietà ben poco
disinteressate alla Libia è stato il ministro della Difesa francese,
Jean-Yves le Drian, il quale in un’intervista alla radio Europe 1
ha garantito che il governo Socialista di Parigi è “pronto” ad aiutare
quello di Tripoli e a impegnarsi per la “sicurezza marittima” della
Libia.
Retorica
a parte, ciò che appare evidente è l’esistenza di piani di intervento
su larga scala pronti da tempo, nonché dalla portata decisamente
maggiore rispetto a poche centinaia di uomini con incarichi limitati
all’addestramento, che attendono solo una qualche sanzione pseudo-legale
per essere implementati.
In definitiva, il processo a cui si sta
assistendo, in teoria per il bene della Libia, continua a essere
modellato unicamente dagli interessi dei governi occidentali e non certo
da quelli di una popolazione che ha già sperimentato sulla propria
pelle le conseguenze disastrose dell’intervento “umanitario” del 2011.
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