di Chiara Cruciati
A Ginevra collassa il
negoziato, in Siria la guerra morde come prima della tregua. Simbolo del
fallimento del dialogo è il campo profughi palestinese di Yarmouk che
ad un anno dall’ingresso dell’Isis torna ad essere teatro di scontro tra
gruppi islamisti rivali.
Questa mattina Anwar Abdel-Hadi, capo dell’Olp in Siria, ha fatto sapere che gli
scontri tra Stato Islamico e Fronte al-Nusra nel campo a sud di Damasco
sono tuttora in corso e calcolato che ora il 70% di Yarmouk è sotto il
controllo islamista. Una situazione molto simile a quella di
un anno fa quando gli uomini di al-Baghdadi entrarono e occuparono buona
parte del campo prima di venir ricacciati indietro dai gruppi armati
palestinesi. Ma da Yarmouk non se ne sono mai andati e ora tornano ad
avanzare.
La situazione è drammatica: decapitazioni, torture e stupri,
questo starebbe avvenendo a Yarmouk secondo Abdel-Hadi. Le famiglie
ancora presenti (in pochi anni il campo si è svuotato, solo 16mila i
residenti sui 180mila originari) sono bloccate nelle case dagli scontri a
fuoco. Cinque persone, tra cui due bambini, sono state uccise nelle
ultime due settimane, un bilancio a cui l’Olp aggiunge altre 20
vittime dell’Isis, residenti decapitati dai circa 3mila islamisti
presenti a Yarmouk.
Mentre l’Onu stamattina riusciva ad avviare l’evacuazione di 500
persone da quattro città siriane, Zabadani, Fuaa, Kefraya e Madaya,
diventata tristemente famosa – come prima Yarmouk – per le decine di
morti causati dalla fame, a Ginevra le Nazioni Unite erano costrette ad
assistere al collasso di un dialogo che mai ha avuto basi comuni. L’Alto
Comitato per i Negoziati (Hnc), federazione delle opposizioni creata
dall’Arabia Saudita a dicembre, venerdì ha sospeso la propria
partecipazione ufficiale al tavolo, accusata dal governo di “assurdo
teatrino” e “immaturità”. La decisione era maturata a seguito degli
scarsi progressi sul terreno o meglio degli arretramenti: una
serie di attacchi da entrambe le parti ha ucciso 22 civili a Aleppo,
poco più tardi 44 siriani perdevano la vita nella provincia di Idlib per
missili del governo secondo quanto riportato dall’Osservatorio Siriano,
organizzazione anti-Assad basata a Londra.
Ma alla base dell’ennesimo fallimento c’è la distanza
insanabile tra le posizioni delle due parti che non accettano
compromessi di sorta per giungere alla formazione di un governo di unità
e transizione. Damasco non intende sacrificare il presidente
Assad, le opposizioni – su indicazione dei loro creatori, Arabia Saudita
e Turchia – non vogliono sentir parlare di un esecutivo congiunto,
neppure fino alle elezioni presidenziali che lasceranno ai siriani
l’ultima scelta. Il capo della delegazione governativa e ambasciatore
siriano all’Onu Jaafari ha ribadito la volontà di creare un governo “con
membri dell’attuale esecutivo, rappresentanti delle opposizioni,
tecnici e figure indipendenti”. Il fronte anti-Assad rifiuta l’offerta.
Ed è stallo.
E se in Svizzera è tutto bloccato, in Siria gli equilibri vengono definiti dalle armi. Secondo il Wall Street Journal, che cita fonti statunitensi, la
Russia ha mosso alcune unità di artiglieria a nord e l’Iran ha inviato
centinaia di truppe nei pressi di Aleppo. Intanto emergono i piani B del
fronte internazionale anti-Assad: nuove armi, stavolta più
efficaci, ai gruppi di opposizione saranno inviati da Usa e Golfo nel
caso il negoziato si chiuda senza risultati e la fragile tregua in corso
venga definitivamente accotonata.
A monte sta l’assenza di volontà nel porre fine al conflitto
da parte di entrambi gli schieramenti che vedono nella guerra civile
siriana lo strumento per ridefinire a proprio favore gli equilibri di
potere in Medio Oriente. In Siria, cuore politico e culturale
del mondo arabo, ci si gioca il futuro degli assetti internazionali in
un periodo di crisi per il Golfo e la Turchia – sostenitori delle
opposizioni – e il reingresso trionfale dell’Iran nella comunità
internazionale. Sopra, a muovere le fila, sono le due super
potenze, la Russia e gli Stati Uniti che in Siria stanno combattendo una
guerra fredda diplomatica camuffata da lotta allo Stato Islamico.
Eppure proprio l’Isis (che dovrebbe rappresentare il nemico comune
intorno al quale unire le forze per salvaguardare il paese) è lasciato
in un angolo. E nonostante le sconfitte subite in Rojava e a Palmira e
nelle città irachene di Tikrit, Ramadi e Sinjar, non arretra perché il
suo messaggio di propaganda non è stato scalfito.
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