di Francesca La Bella
I negoziati di Doha per la riduzione della produzione di petrolio, nonostante le grandi attese dei giorni precedenti, sono falliti. L’accordo che per molti paesi, Russia in primis, sembrava essere una pura formalità, si è reso impraticabile per la mancata partecipazione al vertice dell’Iran e per il voto contrario dell’Arabia Saudita. Gli effetti sul mercato sono stati immediati, ma i numeri mostrano una ricaduta sul prezzo del petrolio meno accentuata di quella che ci si sarebbe potuti aspettare in un primo momento a causa di numerose variabili accessorie che si sono innestate nelle dinamiche in atto.
Da un lato lo sciopero dei lavoratori del comparto petrolifero del Kuwait ha ridotto la produzione del piccolo paese della Penisola arabica di circa il 60% passando da 3 milioni di barili al giorno a 1,1 milioni con un impatto sui mercati ben maggiore di quello che sarebbe stato ottenuto con il congelamento della produzione previsto a Doha.
Dall’altro due fenomeni
contestuali e, tra loro, apparentemente contrastanti, hanno contribuito a
frenare la discesa dei prezzi del petrolio: il calo di produzione di
Venezuela e Nigeria e la crescente vendibilità dei “bond spazzatura”
dello shale oil statunitense. La minore capacità di
esportazione dei due membri OPEC, conseguente ad una crescente crisi
fiscale nel paese sud americano e degli attacchi di milizie ribelli ad
oleodotti e strutture estrattive nello Stato africano, ha avuto effetti
similari a quelli dello sciopero in Kuwait, riducendo l’offerta di
greggio e portando, in maniera diretta ed immediata, ad un aumento dei
prezzi sul mercato mondiale.
Il crollo dei prezzi dei mesi passati ha
indotto, invece, una crisi di vaste proporzioni per quanto riguarda il
settore estrattivo statunitense. Da alcuni anni il comparto petrolifero
statunitense ha investito sul fracking, metodo estrattivo che prevede la
frammentazione delle rocce per permettere un più efficace sfruttamento
delle risorse petrolifere. L’innovativa tecnologia, a prescindere dal
grave impatto ambientale della stessa, ha, nel lungo periodo e lavorando
in economia di scala, significativi margini di profitto, ma nel breve
periodo, presenta alti costi di produzione che necessitano di un prezzo
di vendita superiore ai 50 dollari al barile per non fallire.
La politica di sovrapproduzione
attuata dall’Arabia Saudita per mettere lo shale oil fuori mercato
avrebbe, in questo senso, funzionato, portando molte aziende a chiudere e
riducendo, di conseguenza, sia la capacità di esportazione statunitense
sia il valore dei titoli relativi. Questo fenomeno avrebbe, però, avuto
due effetti positivi sul mercato: minore produzione e, quindi, aumento
dei prezzi, minore valore dei titoli e, quindi, maggiore vendibilità
degli stessi. Il deprezzamento dei titoli li avrebbe, infatti,
resi maggiormente attraenti per gli investitori, dando nuovo vigore al
settore, nonostante l’alto rischio di insolvenza.
La volatilità del settore lascia, però, nel dubbio gli operatori economici e così la forte ripresa di martedì con un rialzo del Brent fino a 44 dollari al barile (+2,5%) e del Wti oltre i 41 dollari è stata immediatamente frenata dalla conclusione dello sciopero in Kuwait con ribassi corrispondenti del 1,5% e del 2,1% . Benché l’interdipendenza tra diverse variabili induca un continuo mutamento delle condizioni di contesto che non permette previsioni inequivocabili per il lungo periodo, secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE), il mercato globale del petrolio si potrebbe riequilibrare nel secondo semestre di quest’anno grazie alla crisi dello shale oil statunitense ed alla crescita della domanda globale dovuta alla ripresa di alcuni mercati asiatici come quello indiano. La previsione, però, antecedente al fallimento di Doha, dovrà essere messa alla prova dei fatti nelle prossime settimane.
Leggere Doha solo alla luce degli effetti sul comparto petrolifero potrebbe, però, essere riduttivo. Il fallimento dell’incontro ha, infatti, evidenziato alcuni fenomeni che, pur essendo strettamente collegati alle dinamiche economiche mondiali, trascendono da esse, investendo maggiormente la politica ed il balance of power tra soggetti internazionali. In primo luogo si sono rese evidenti le spaccature interne all’OPEC e la mancanza di linee guida comuni tra i membri. E’ divenuta, altresì, palese, la volontà dell’Arabia Saudita di difendere il proprio ruolo guida a prescindere dalle conseguenze sugli altri attori e dagli oneri derivanti per il proprio paese e per i membri OPEC da queste scelte: l’utilizzo, dunque, del prezzo del petrolio come arma di pressione in una fase di arretramento della legittimità della monarchia saudita nell’area.
Doha è stata, inoltre, una delle prime occasioni per verificare le relazioni tra Iran e Arabia Saudita dopo la fine delle sanzioni internazionali contro Teheran. La distanza tra i due paesi, su fronti opposti in tutte le maggiori questioni d’area e da sempre concorrenti per la leadership regionale, sembra essersi approfondita a seguito della riabilitazione internazionale del governo iraniano a danno del ruolo regionale saudita. L’incontro di Doha, secondo molti analisti, sarebbe da percepire come una rappresentazione teatrale di questa guerra fredda del Golfo persico con un Iran forte e poco disposto alla mediazione e un’Arabia Saudita sempre più indebolita da fattori interni ed esterni che ha la necessità di ribadire l’impossibilità di prendere decisioni senza l’avallo di Ryad.
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