Distruzione a Cizre |
“Massacri deliberati e deportazione dei kurdi dalla regione”: questo era scritto nella petizione che ha fatto infuriare il presidente Erdogan, impegnato da anni nella repressione delle voci critiche nel paese. Da Gezi Park alla detenzione per tre mesi dei giornalisti Dundar e Gul del quotidiano di opposizione Cumhuriyet, fino alle operazioni militari lanciate contro le città kurde, l’Ankara dell’Akp ha imbastito uno Stato di polizia che punisce chiunque ne critichi le politiche.
E se in qualche modo Erdogan è riuscito ad affossare le aspirazioni democratiche della società civile con una campagna basata sulla paura per la sicurezza e la minaccia del terrorismo, c’è ancora chi alza la voce. Oggi alle 14 è prevista una manifestazione di protesta di fronte alla corte di Istanbul che processerà i quattro professori, Esra Mungan Gursoy, Meral Camci, Kivanc Ersoy e Muzaffer Kaya. Rischiano fino a 7 anni e mezzo di prigione e sono già dietro le sbarre, perché considerati gli organizzatori della petizione: Camci e Mungan nella prigione femminile di Bakirkoy e Kaya e Ersoy in quella di Sivri. Per loro è sceso in campo lo stesso Erdogan che ha chiesto alla corte di punirli severamente.
Nella sala accanto, alla stessa ora, si presentano Dundar e Gul per una nuova udienza a porte chiuse: i due giornalisti, direttore e caporedattore di Cumhuriyet, sono accusati di spionaggio, tentato golpe e sostegno a organizzazione terroristica per aver pubblicato un reportage che mostrava la tentata consegna da parte dei servizi segreti turchi di armi ai gruppi islamisti impegnati in Siria. Rischiano molto di più dei professori: ergastolo e isolamento a vita.
A finire a processo è la libertà di espressione e di stampa in un paese che ha ormai imboccato la via dell’autoritarismo. A pagare le spese delle politiche dittatoriali del presidente-sultano sono giornalisti, attivisti, professori, organizzazioni per i diritti umani. A pagare con la vita sono i kurdi che a sud est subiscono una campagna militare brutale dalla fine di luglio 2016. Secondo la Human Rights Association of Turkey, almeno 338 civili – di cui 78 bambini – sono stati uccisi e un milione e 600mila hanno subito violazioni dei diritti umani fondamentali dal 16 agosto 2015 quando coprifuoco ininterrotti sono stati imposti sulle principali città kurde sudorientali. Molto più alto il bilancio di altri gruppi locali, che parlano di oltre mille vittime e centinaia di feriti.
Le notizie che giungono dal Bakur sono drammatiche: a Nusaybin sono 35mila i civili sotto assedio, ormai privi di medicinali, cibo, acqua potabile, elettricità. I colpi di artiglieria dell’esercito turco continuano a piovere sui quartieri residenziali da due mesi, mentre i cecchini sui tetti prendono di mira chiunque scenda in strada. Scene simili a Idil dove un coprifuoco durato 43 giorni ha portato alla demolizione o al danneggiamento di circa 1.200 edifici e alla fuga di 15mila residenti. Stanno tornando, piano piano, per trovarsi di fronte una città distrutta.
Ieri il co-segretario del partito di sinistra pro-kurdo Hdp, Selahattin Demirtas, ha accusato il governo di Ankara di aver rifiutato la riapertura del negoziato con il Pkk. Dopo la tregua del 2013, fortemente voluta dal leader prigioniero Abdullah Ocalan che impose ai suoi combattenti l’abbandono della lotta armata a favore della diplomazia, il governo turco ha rotto il cessate il fuoco a luglio giustificando i raid nel nord dell’Iraq e gli attacchi nel sud est della Turchia con la lotta al terrorismo. Nonostante le operazioni di guerriglia che da allora il Partito Kurdo dei Lavoratori ha ripreso, nelle scorse settimane il gruppo si è detto pronto a tornare al tavolo del negoziato: “Pochi mesi fa siamo entrati in contatto con Qandil [la zona nel nord Iraq dove si trovano i combattenti del Pkk] per tornare al negoziato – ha detto ieri Demirtas – L’Akp sapeva che ci stavamo lavorando, ma ha rigettato la proposta. Qandil era pronta al dialogo, ma Ankara ha detto che mai sarebbe tornata al tavolo”.
Perché Erdogan non è interessato alla pace o all’inclusione democratica della popolazione kurda nel paese. È interessato a sfruttare la campagna in corso per piegare la resistenza kurda e per rafforzare l’idea, nell’opinione pubblica interna, di essere in stato di guerra. Una situazione che giustifica la presenza dell’uomo forte che opera solo con il pugno di ferro.
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