di Michele Paris
La fragilissima tregua negoziata per la Siria a febbraio da Russia e
Stati Uniti appare sempre più sul punto di crollare dopo l’impennata di
violenze registrata negli ultimi giorni, in particolare nella battaglia
in corso per la conquista della (ex) capitale economica del paese,
Aleppo. Soltanto qui, in meno di due settimane si sono contate almeno
200 vittime, cadute sia sotto i colpi dell’artiglieria e degli aerei da sia
guerra del regime di Assad e della Russia, sia per mano dei “ribelli”.
Gli episodi di cui sono responsabili questi ultimi continuano però a
suscitare un livello di indignazione decisamente minore tra governi e
stampa occidentali rispetto a quelli attribuiti alle forze di Damasco.
I
segnali del nuovo aggravamento della situazione nel paese mediorientale
sono evidenti da tempo e questa settimana l’inviato speciale dell’ONU
per la Siria, Staffan de Mistura, è sembrato prenderne atto nonostante
il cauto ottimismo ostentato in precedenza.
Il diplomatico italo-svedese ha espresso estrema preoccupazione per
quanto sta accadendo ad Aleppo e giovedì ha rivolto un appello disperato
ai governi di Russia e Stati Uniti per prendere “iniziative ai più alti
livelli” e cercare di salvare il cessate il fuoco, condizione
necessaria per far segnare un minimo progresso sul fronte diplomatico.
Anche
i negoziati di pace di Ginevra sono inevitabilmente a un punto morto,
dopo che i leader del cosiddetto Alto Comitato per i Negoziati (HNC),
che dovrebbe rappresentare i gruppi di opposizione al regime di Damasco,
la settimana scorsa hanno abbandonato il tavolo delle trattative in
segno di protesta per il mancato accoglimento di alcune richieste
preliminari.
Secondo de Mistura non ci sarebbe motivo per cui
Mosca e Washington non debbano mostrare la volontà di rimettere in piedi
un processo diplomatico per il quale “hanno investito un così ingente
capitale politico”. In realtà, le ragioni del sostanziale stallo delle
trattative sulla Siria e della ripresa delle ostilità sul campo non sono
per nulla risolte e hanno a che fare con il persistere di interessi
totalmente divergenti tra USA e Russia sul futuro di questo paese.
L’intesa
sul cessate il fuoco era stata accettata dall’amministrazione Obama
principalmente per testare la disponibilità degli alleati della Siria a
favorire un’uscita di scena pacifica del presidente Assad, sia pure
facendo qualche concessione, come la presenza di uomini legati al regime
in un eventuale governo di transizione. In questo modo, Washington
intendeva provare a raggiungere per via diplomatica l’obiettivo
perseguito militarmente per cinque anni, cioè installare, quanto meno
nel medio periodo, un regime con un orientamento strategico opposto a
quello di Assad.
Se la Russia ha più volte segnalato di essere
disposta a valutare un cambio alla guida della nuova Siria, ciò da cui
non intende transigere è però il mantenimento della propria influenza
nel paese. La fermezza con cui da Damasco si continua inoltre a
respingere qualsiasi ipotesi di esclusione di Assad da un futuro governo
sembra limitare le opzioni di Mosca, dove si è ben consapevoli della
doppiezza degli Stati Uniti e dei loro alleati, pronti a sfruttare
qualsiasi concessione per avanzare la propria agenda.
De Mistura,
dopo avere chiuso mercoledì la sessione di due settimane di colloqui
indiretti a Ginevra, ha fatto sapere che il prossimo round di negoziati
dovrebbe essere convocato a maggio, anche se l’assenza di una data
precisa lascia intendere che si stia valutando un nuovo rinvio.
Il
capo della delegazione siriana a Ginevra, Bashar Ja’afari, qualche
giorno fa aveva comunque definito “utili e costruttivi” i colloqui. Da
parte sua, de Mistura avrebbe fatto una proposta che prevede la
permanenza di Assad alla guida nominale della Siria ma con alcuni suoi
poteri trasferiti a tre o quattro vice-presidenti graditi a entrambe le
parti. Sia il regime sia le opposizioni hanno tuttavia respinto
l’ipotesi. Il che, secondo la stampa occidentale, potrebbe avere
contribuito all’abbandono dei negoziati da parte di queste ultime.
Giovedì,
intanto, i giornali occidentali hanno dato ampio rilievo alla
distruzione di un ospedale di Aleppo in un’area della città controllata
dai “ribelli”. I bombardamenti, attribuiti alle forze governative dai
negoziatori dell’opposizione, avrebbero fatto decine di morti, tra cui
medici e bambini. Decisamente meno spazio viene invece dato alle
atrocità commesse nella città siriana dai gruppi armati anti-Assad e,
soprattutto, alla composizione di questi ultimi contro cui il governo e
le forze aeree russe stanno combattendo.
Ad Aleppo vi è una forte
presenza di formazioni legate ad al-Qaeda, a cominciare dalla filiale
dell’organizzazione jihadista in Siria, il Fronte al-Nusra. Non solo,
anche i gruppi ritenuti “moderati” dall’Occidente si mescolano o
collaborano in maniera più o meno intensa con quello qaedista.
A
confermare questo quadro non è solo la propaganda di Mosca o Damasco, ma
anche le dichiarazioni di svariati esponenti del governo e delle forze
armate americane. Qualche giorno fa, il segretario di Stato, John Kerry,
aveva affermato in un’intervista al New York Times che la Russia si
stava “muovendo ad Aleppo” perché membri del Fronte al-Nusra operano
assieme ad altri gruppi sostenuti dai governi occidentali.
Lo
stesso concetto lo ha ribadito mercoledì anche il portavoce delle forze
USA in Iraq, colonnello Steve Warren, il quale ha definito “complicati”
gli scenari di Aleppo, visto che in questa città opera il Fronte
al-Nusra che non è incluso nell’accordo sulla tregua in Siria.
Le
richieste presentate dall’opposizione a Ginevra appaiono dunque
difficilmente accettabili, sia per la situazione sul campo sia per la
natura di questi gruppi e il ruolo destabilizzante che continuano a
svolgere in Siria senza avere nessuna base di consenso tra la
popolazione.
In maniera legittima, il governo di Mosca martedì ha
chiesto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di aggiungere due gruppi
armati alla lista di quelli considerati terroristi attivi in Siria. Le
due formazioni sono Jaish al-Islam e Ahrar al-Sham, entrambe
rappresentate nei colloqui di Ginevra. Addirittura, il negoziatore capo
dell’HNC, Mohammed Alloush, è uno dei leader di Jaish al-Islam.
L’ambasciatore
russo alle Nazioni Unite, Vitaly Churkin, si è detto certo che le due
organizzazioni hanno “stretti legami” con al-Qaeda, ma anche con lo
Stato Islamico (ISIS). Da Washington, la richiesta è stata accolta con
irritazione. Il portavoce del dipartimento di Stato, Mark Toner, ha
sostenuto che la proposta di Mosca rischia di mettere ancora più a
rischio la tregua in Siria, senza però discuterne il merito.
Dietro
a queste formazioni ci sono paesi come Turchia e Arabia Saudita e la
loro presenza al tavolo dei negoziati rappresenta uno dei principali
ostacoli a una risoluzione pacifica del conflitto. D’altra parte, anche
gli Stati Uniti continuano a mantenere un atteggiamento per lo meno
ambiguo nei confronti dei gruppi fondamentalisti che combattono in
Siria, poiché, malgrado le preoccupazioni che possono suscitare, sono le
uniche forze che operano con una certa efficacia per il cambio di
regime a Damasco.
La
malafede dei governi che auspicano il rovesciamento di Assad è evidente
anche dai piani che l’amministrazione Obama sta valutando in previsione
del definitivo fallimento dei negoziati di Ginevra. In tal caso, come
hanno riportato di recente i media, scatterebbe l’implementazione di un
“piano B” che consiste nell’aumento delle spedizioni di armi letali ai
“ribelli”, a cui vanno aggiunti i 250 uomini delle forze speciali USA
che il Pentagono ha da poco annunciato di volere inviare in Siria a
sostegno dei 50 già presenti sul campo.
Preoccupante è infine
un’altra iniziativa avallata dagli Stati Uniti su richiesta della
Turchia. Proprio qualche giorno fa il regime di Erdogan ha dato notizia
del dispiegamento di batterie missilistiche americane lungo il confine
con la Siria. La decisione è motivata ufficialmente da ragioni difensive
dopo un bombardamento attribuito all’ISIS contro la città turca di
Kilis che ha fatto cinque morti lo scorso fine settimana.
Il
sistema missilistico sarebbe però anche a poche decine di chilometri da
Aleppo, possibile obiettivo turco nel caso la situazione per le
formazioni jihadiste sostenute da Ankara dovesse precipitare e mettere a
rischio gli ingenti investimenti fatti da Erdogan, ma anche da
Washington e dagli altri partner nella regione, per abbattere il regime di Damasco.
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